Il comico e l'umoristico

Materie:Tesina
Categoria:Varie

Voto:

1.5 (2)
Download:1889
Data:01.07.2009
Numero di pagine:47
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
comico-umoristico_1.zip (Dimensione: 54.17 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_il-comico-e-l-umoristico.doc     155 Kb


Testo

Liceo Scientifico Sperimentale “A. Gramsci” Ivrea
Indirizzo Linguistico Progetto Brocca
Sarah MATTIOLI Maturità 2006
Approfondimento sul tema:
IL COMICO E L’UMORISTICO
* ITALIANO: “Saggio sull’umorismo”, L. Pirandello
Il comico come avvertimento del contrario
L’umorismo come sentimento del contrario che presuppone un momento di riflessione.
* LATINO: La satira in Orazio e Marziale
* INGLESE: Il teatro dell’assurdo in “Happy Days”, S. Beckett
* FRANCESE: Il teatro dell’assurdo in “La cantatrice chauve”, E. Ionesco
* TEDESCO: L’ironia come critica dello stato morale della società tedesca del secondo dopoguerra in “Opinioni di un clown”, H. Böll
* FILOSOFIA: “Il riso”, H. Bergson
la funzione del comico: il riso come castigo sociale
Tutto ciò che è umano è comico
Il comico scaturisce dalla ripetizione di un gesto, da un comportamento rigidamente meccanico contrario alla nostra volontà, da qualsiasi situazione in cui viene contraddetta la nostra attesa
* STORIA: il secondo dopoguerra in Germania
* ARTE: la nascita del fumetto, R. Lichtenstein
* SCIENZE: meccanismo della risata, teorie sulla risata, funzioni della risata, benefici, strumento terapeutico
BIBLIOGRAFIA:
BECKETT, Samuel, “Giorni felici”,Vicenza, Ed. Einaudi, 2005, Collezione di teatro, n°141.
BERGSON, Henri, “Il riso. Saggio sul significato del comico”, Milano, Ed. Bur Classici, 2001, n°L845.
BÖLL, Heinrich, “Opinioni di un clown”, Ed. Oscar Mondatori classici moderni, Trento, 2006, n°29
HENDRICKSON, Janis, “Lichtenstein”,Roma, Ed. L’Espresso, 2001.
IONESCO, Éugène, “La cantatrice chauve”, Cher, Ed. Gallimard, 2000, Collection Folio, n°236
PIRANDELLO, Luigi, “L’umorismo”, Trento, Ed. Oscar Mondatori,1992, Saggi, n°21.
SULTAN, Yoanna, "Le point sur le rire”, “Sciences et vie”,aprile 2005, pp. 114-126
Sono stati inoltre utilizzati i libri di testo in dotazione e internet.
PIRANDELLO
VITA
Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 nei pressi di Girgenti (Agrigento), in una villa di campagna denominata “il Caos”, dal nome di un bosco situato nelle vicinanze dialettalmente chiamato “Càvusu”. L’agiatezza della famiglia gli garantisce un’infanzia serena studi regolari e la possibilità di frequentare l’università a Bonn, dove si laurea nel 1891 in filologia romanza con una tesi sui “Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti”. Grazie all’aiuto di Luigi Capuana entra in contatto con l’ambiente letterario della capitale ed intraprende la via della prosa. Agli inizi del Novecento la situazione economica e familiare di Pirandello precipita: nell’allagamento di una grande miniera di zolfo, il padre perde il suo patrimonio e la dote della nuora, la quale viene colpita da un esaurimento nervoso che sarà causa di una paresi alle gambe e di una forma di paranoia cronica e che sfocerà nell’internamento in una casa di cura romana.
Nel 1934 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura; nel 1939 muore, viene cremato e il funerale si svolge in totale povertà, senza alcun accompagnamento funebre.
L’UMORISMO
Questo saggio, come la maggior parte delle opere di Pirandello, presenta una caratteristica fondamentale: una sorta d’intercomunicabilità tra un genere e l’altro e tra un’opera e l’altra, tra le quali è impossibile segnare divisioni nette ed il cui esempio più eclatante è la dedica iniziale “Alla buon’anima – di Mattia Pascal – bibliotecario”.
Il saggio è suddiviso in due parti: una di carattere storico-letterario, l’altra di natura filosofica.
L’excursus inizia con una spiegazione etimologica del termine umore, il quale “derivò naturalmente dal latino e col senso materiale che aveva di corpo fluido, liquore, umidità o vapore, e col senso anche di fantasia, capriccio o vigore[…] Li uomini […] hanno quattro umori: cioè lo sangue, la collera, la flemma e la malinconia: e questi umori sono la cagione delle infermità degli uomini” (pag. 4). È quindi evidente che la parola italiana umore assume un significato ben diverso dal termine inglese humour, in quanto quest’ultimo sottintende una connotazione positiva; inoltre, non bisogna confondere la vera essenza dell’umorismo dall’errata concezione del volgo, secondo cui “scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere: il comico, il burlesco, il satirico, il grottesco, il triviale: - la caricatura, la farsa, l’epigramma” (pag. 7). Un’ulteriore e necessaria distinzione coinvolge l’ironia, la quale “implica una contraddizione, ma fittizia, tra quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. La contraddizione dell’umorismo non è mai fittizia ma essenziale e di ben altra natura” (pag. 8).
L’umorismo può essere considerato una forma d’arte, ma a differenza delle altre forme d’arte che compongono, l’umorismo “scompone, disordina, discorda” (pag. 39).
Nella seconda parte “Essenza, caratteri e materia dell’umorismo”, Pirandello indica la netta distinzione tra il comico e l’umoristico, partendo dall’ideazione dell’opera d’arte: “L’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispondenza tra loro e con l’idea-madre che le coordina. La riflessione […] assiste al nascere e al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressive e ne gode, raccosta i vari elementi, li coordina, li compara. […]nell’artista, la riflessione si nasconde, resta, per così dire, invisibile: è, quasi, per l’artista, una forma del sentimento.
[…] nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi, però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: […] il sentimento del contrario”. L’esempio della vecchia signora vestita e truccata in modo inadeguato in relazione alla sua età sfocia nella risata, che è dovuta proprio all’avvertimento che la donna rappresenta esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere secondo l’immaginario collettivo. Da tale avvertimento del contrario scaturisce l’effetto comico. Ma dal momento in cui interviene la riflessione, che induce a ricercare le ragioni più profonde di questo comportamento, ci si rende conto che alla base di ciò esiste un problema di natura psicologica relativo ad una situazione di disadattamento all’interno della società. La signora tenta di mascherare la propria figura esteriore creandosi una maschera per migliorare la propria immagine e per evitare di essere derisa, ottenendo l’effetto opposto. Dall’avvertimento del contrario si passa quindi al sentimento del contrario grazie all’intervento della riflessione e, parallelamente, dal comico all’umoristico. La riflessione ci permette di capire che ciò che ci fa ridere, il comico, nasce dalla percezione di una dissonanza tra qualcosa che vediamo e ciò che consideriamo “normale”, ma che in realtà è soltanto apparenza, incoerenza, contraddizione. Soltanto l’umorismo è in grado di rappresentare la “vita nuda, la natura senz’ordine almeno apparente, vita di contraddizioni”, che sono causate dal conflitto tra il flusso continuo della vita e le forme stabili della società. “La vita è un flusso continuo che cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento non cessi. Le forme sono i concetti, gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi il flusso continua oltre i limiti che noi imponiamo”.
Il tema del contrasto tra la dinamicità della vita e la staticità delle convenzioni scaturisce dal contesto in cui avviene la formazione di Pirandello, caratterizzato da una duplice crisi: la crisi storica e sociale dell’Italia post-risorgimentale e la crisi della cultura positivistica, ovvero la caduta dei valori e delle certezze acquisite. Il crollo dei miti della ragione, della scienza, del progresso, che si esprime nella contemporanea cultura del decadentismo, si manifesta nell’incapacità dell’uomo di conoscere e padroneggiare il mondo esterno, ma soprattutto se stesso. Da ciò scaturisce l’inettitudine pirandelliana e il relativismo: l’uomo non riesce a districarsi tra la realtà e la finzione. La vita è una “buffonata”, una “pupazzata”, un teatro sul quale si muovono personaggi mascherati, dietro i quali si celano le falsità e le apparenze sociali. Nonostante si cerchi la vita vera, autentica, si è costretti a vivere in un mondo falso; dal fallimento di tale ricerca deriva la sconfitta e l’inettitudine, che saranno interpretate da Mattia Pascal. Le uniche reazioni possibili sono l’ironia (Il fu Mattia Pascal), la trasgressione (La patente) e la follia (Enrico IV).
HENRI BERGSON
Il saggio di Bergson ha come obiettivo di guidare il lettore nella comprensione di un meccanismo complicato come quello del riso, senza, tuttavia, fornirne una definizione precisa onde evitare di limitarlo all’interno di un concetto. Tre sono i punti fondamentali dai quali scaturisce il riso:
▪ "Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano": l’uomo, infatti, oltre ad essere considerato “un animale che sa ridere”, è anche un “animale che fa ridere” e tale risata scaturisce dalla somiglianza di un oggetto all’uomo, “per il segno che l’uomo vi imprime o per l’uso che l’uomo ne fa”.
▪ “Il riso scaturisce solo di fronte a ciò che appartiene direttamente o indirettamente all'ambito propriamente umano”: perché possa tuttavia manifestarsi, è necessario che chi ride non si lasci coinvolgere emotivamente dalla scena che lo diverte. Per ridere di una piccola disgrazia altrui dobbiamo far tacere per un attimo la pietà e la simpatia, e porci come semplici spettatori o - per esprimerci come Bergson - come intelligenze pure: "il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore"
▪ “il nostro riso è sempre il riso di un gruppo e nasconde il presupposto di un’intesa, di complicità con altri burloni. […] Deve rispondere ad alcune esigenze della vita in comune e deve avere un significato sociale”.
"Il comico nasce quando uomini riuniti in un gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza"; inoltre, “il riso castiga i costumi. Esso fa sì che noi ci curiamo subito di apparire ciò che dovremmo essere” e reprime le eccentricità cercando di raggiungere la perfezione.
Così come Pirandello evidenzia il contrasto tra la rigidità delle convenzioni ed il flusso della vita, allo stesso modo, secondo Bergson, il comico è dato dalla presenza di un comportamento o di una caratteristica fisica che non è conforme alle regole della società. Tanto più si ingigantiscono tali incongruenze, tanto più diventa efficace l’effetto comico e caricaturale.
Anche un movimento rigidamente meccanico è all’origine del comico, perché un corpo dotato di vitalità e movimento, al contrario, si manifesta innaturalmente automatico; dall’esaltazione di questi aspetti si giunge all’imitazione di una determinata espressione.
L’esempio del gioco del diavolo a molla, che più si cerca di spingerlo nella scatola più tende ad uscirne, se interpretato dal punto di vista morale, pone in evidenza che le idee che tentiamo di reprimere e di celare sono proprio quelle che si manifestano in modo più esplicito; ed è proprio da queste due contrapposte ostinazioni che si genera il comico.
“Il comico è quell’aspetto della persona per il quale essa rassomiglia a una cosa, quell’aspetto degli avvenimenti umani che imita, con la sua rigidità di un genere tutto particolare, il meccanismo puro e semplice, l’automatismo, insomma il movimento senza la vita. Esso esprime dunque una imperfezione individuale o collettiva che richiede la correzione immediata. Il riso è questa correzione stessa. Il riso è un certo gesto sociale, che sottolinea e reprime una certa distrazione speciale degli uomini e degli avvenimenti.”
La ripetizione di gesti, parole e situazioni in un arco di tempo relativamente breve, le coincidenze, contribuiscono anch’esse alla resa dell’effetto comico; così come nel caso in cui in una situazione comica i personaggi invertono i propri ruoli, rovesciando quindi la situazione iniziale; infine, l’interferenza di serie è l’ultimo espediente che dà luogo al comico: una situazione ambigua che può avere due interpretazioni parallele e indipendenti.
Il linguaggio può esprimere o creare il comico: nel primo caso, è possibile rendere lo stesso effetto anche in altre lingue, mentre nel secondo sono proprio i termini accuratamente scelti a creare un effetto particolare che perde la propria efficacia, se tradotto.
Infine, se al significato letterale di una parola si sostituisce quello figurato, o viceversa, il senso dell’affermazione cambia e genera il comico.
Per quanto riguarda la differenza tra ironia e umorismo è opportuno precisare che se l’ironia tende ad effettuare una trasposizione dal reale all’ideale, al contrario l’umorismo descrive “ciò che è, dando a credere che è proprio così che le cose dovrebbero essere”, sono pertanto l’uno l’inverso dell’altro ed entrambe forme della satira, “ma l’ironia è di natura oratoria, mentre l’umorismo ha qualcosa di più scientifico”, inoltre la prima tende a migliorare l’idea che si vuole esprimere mentre l’umorismo tende a peggiorarla.
Se Pirandello utilizza l’ironia come reazione all’inettitudine dei protagonisti dei suoi romanzi, Bergson afferma che il comico “esprime innanzitutto una certa condizione di inadattabilità particolare della persona alla società” e deve riprendere l’oggetto deriso per richiamarlo attraverso l’umiliazione ad adeguarsi alla società.
RAGIONE E VITA NELLA TEORIA DELLA COMICITÀ DI ARTHUR SCHOPENHAUER
Le riflessioni di Schopenhauer sul riso si collocano nel primo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione, e costituiscono una breve digressione volta a far luce su uno dei nodi centrali della sua filosofia: il rapporto tra intelletto e ragione.
Per Schopenhauer l’intelletto ha la funzione di organizzare la realtà utilizzando l’unica categoria a priori che possiede l’uomo, la causalità, oltre a quelle spazio-temporali. La realtà non si presenta al soggetto come noumeno ma come rappresentazione, in quanto è celata da uno schermo, “il velo di Maya”, che impedisce all’uomo di cogliere l’essenza del mondo. Per questo motivo la rappresentazione è sempre fallace e ingannevole. L'intelletto non è allora, per Schopenhauer, la kantiana facoltà di pensare i fenomeni, ma è ciò che permette all'uomo e agli altri animali di orientarsi nel mondo e di intuirlo come una concatenazione di eventi causalisticamente connessi.
Diversamente stanno le cose per la ragione. La ragione è, per Schopenhauer, la facoltà che ci permette di risalire dalla rappresentazione al concetto e di cogliere le relazioni che sussistono tra i concetti. L'uomo non si limita a operare nell'esperienza, ma riflette anche sull'esperienza: la ragione ci permette di riflettere sulla realtà, di raccogliere nell'unità di una rappresentazione di secondo grado (di una rappresentazione di rappresentazioni) una molteplicità di rappresentazioni individuali simili tra loro per qualche aspetto.
Secondo Schopenhauer l’uomo può andare al di là delle apparenze per raggiungere la vera realtà; indagando sulla propria esistenza, sulla vita e sulla morte, l’uomo sente il bisogno di affermare la propria individualità attraverso il cibo, che ci mantiene in vita, e l’istinto di procreazione, che assicura la riproduzione della specie.
Tale volontà rappresenta un desiderio infinito dietro il quale si nasconde l’assenza di un qualcosa che si vorrebbe possedere, quindi, poiché la vita è volontà, è di conseguenza anche dolore, ed essendo volontà di vivere, la morte impaurisce l’uomo.
La paura della morte è tipica dell’uomo perché la ragione lo rende consapevole del fatto che la morte giungerà, anche se al momento non si manifesta.
Il riso come rivincita della vita: la teoria schopenhaueriana del ridicolo.
Il riso è l’espressione di un’incongruenza evidente tra un concetto e l’oggetto che esso indica.
È facile suggerire degli esempi che mostrino concretamente il senso di questa definizione. Di un predicatore noioso si può dire "Bav è il buon pastore di cui la Bibbia parlava / quando il suo gregge dormiva lui solo vegliava", così come nell’epitaffio di un medico si può scrivere "egli giace qui, come un eroe circondato dalle sue vittime", ed in entrambi i casi il riso nasce perché ciò che si adatta bene al concetto (il pastore che si preoccupa delle sorti di un’umanità ignara e il combattente caduto dopo aver fatto strage del nemico) si dimostra invece del tutto incongruente non appena ci poniamo sul terreno dell’oggetto concreto.
Da questa base semplicissima, Schopenhauer muove per caratterizzare ulteriormente il fenomeno che gli sta a cuore. Un’incongruenza tra conoscenza astratta e conoscenza intuitiva può avere luogo in due diverse forme:
▪ sono dati nella conoscenza due o più differenti oggetti reali, due o più rappresentazioni intuitive che identifichiamo arbitrariamente nell’unità di un concetto comune
▪ Oppure, viceversa, c’è dapprima nella conoscenza il concetto, dal quale passiamo in seguito alla realtà, cioè alla pratica: oggetti radicalmente differenti sotto ogni altro aspetto, ma che il pensiero abbraccia sotto un solo concetto, vengono trattati e considerati tutti allo stesso modo; finché da ultimo la grande divergenza che li separa finisce per dare nell’occhio con grande sorpresa e meraviglia di chi opera.
Schopenhauer propone di chiamare arguzia il primo genere del ridicolo, per riservare al secondo il nome di buffoneria.
▪ L’arguzia, egli osserva, è sempre volontaria: sorge quando intendiamo mostrare l’incapacità di un concetto di dominare la ricchezza di senso del materiale intuitivo.
▪ Al contrario la buffoneria è sempre involontaria, e ha la sua origine nella convinzione, che si mostrerà poi erronea, di avere nella ragione una guida sicura per le nostre azioni.
Così, seppure da prospettive diverse, buffoneria ed arguzia ci mostrano uno stesso stato di cose: ciò che l’uomo arguto ci fa comprendere e che traspare nel gesto del buffone è di fatto l’incapacità della ragione con i suoi concetti astratti ascendere fino all’infinita molteplicità e alle infinite sfumature dell’intuizione.
Il piacere che proviamo ridendo è dovuto alla vittoria della conoscenza intuitiva sul pensiero, poiché intuire è il modo primitivo di conoscere, inseparabile dalla natura animale, è un conoscere in cui si presenta tutto ciò che dà soddisfazione immediata alla volontà: è l’intermediario del presente, del godimento, della gioia […]. Con il pensiero accade sempre il contrario: pensare è il conoscere alla seconda potenza, che esige sempre qualche sforzo, spesso anche considerevole; suoi sono i concetti, che così spesso si oppongono alla soddisfazione dei nostri desideri immediati, giacché tali concetti, come intermediari del passato, del futuro e della serietà, fanno da veicoli ai nostri timori, ai nostri rimorsi e a tutte le nostre preoccupazioni. Dev’essere perciò un godimento scoprire una buona volta l’insufficienza della ragione, di questa governante severa, instancabile e opprimente. Per questo dunque l’espressione del riso e quella della gioia si assomigliano tanto.
IL CONCETTO DI IRONIA IN SØREN KIERKEGAARD
Kierkegaard affronta il problema dell'ironia nella sua tesi di laurea, pubblicata nel 1841 con il titolo Il concetto di ironia in costante riferimento a Socrate. Si tratta di un'opera ricca di riferimenti al dibattito letterario e filosofico, poiché l'ironia - a partire dall'età del romanticismo - era diventata un tema particolarmente vivo ed aveva attirato su di sé l'attenzione di autori come Tieck, Schlegel e Solger. È tuttavia Hegel l'autore cui il giovane Kierkegaard si sente più vicino: nelle pagine della sua tesi di laurea, il filosofo danese ha infatti ben chiara davanti agli occhi la riflessione hegeliana sulla valenza soggettiva e negatrice dell'ironia, ed una delle mete cui il suo lavoro approda può essere forse indicata proprio nell'acquisizione di una prima parziale autonomia del giovane filosofo dalla pagina hegeliana.
L'ironia: una caratterizzazione per contrasto. Il primo passo per venire a capo dell'ironia è, per Kierkegaard, di natura descrittiva: occorre infatti cercare di caratterizzare questa forma del comportamento, indicando quali sono le differenze strutturali che ci permettono di distinguerla da altri atteggiamenti della soggettività.
Osserveremo allora che, da un punto di vista descrittivo, l'ironia si rivela come quella forma del discorso "la cui caratteristica è di dire l'opposto di quello che si pensa". Parlare significa dare al pensiero un'apparenza sensibile, e ciò è quanto dire che "mentre parlo, il pensiero, l'opinione è l'essenza, la parola l'apparenza". Nell'atteggiamento ironico, tuttavia, la parola cessa di essere manifestazione del pensiero: il fenomeno non ci conduce più alla sostanza che in esso dovrebbe farsi visibile, ma ci vincola apparentemente ad un pensiero che è per noi del tutto privo di verità e di sostanza. L'ironia è dunque una sorta di sovversione del rapporto tra fenomeno ed essenza, ed appartiene proprio per questo alla famiglia dei fenomeni "doppi": nell'ironia il fenomeno diviene infatti un'apparenza ingannevole che allude ad una realtà che deve essere tuttavia negata. L'ironia sembra essere dunque una peculiare forma di ipocrisia: le cose, tuttavia, non stanno affatto così, perché - come nota Kierkegaard - L'ipocrisia pertiene di fatto all'ambito della morale. L'ipocrita si sforza in continuazione di sembrare buono, pur essendo cattivo. L'ironia, per contro, si situa in un ambito metafisico, e per l'ironista si tratta sempre solo di sembrare diverso da come veramente è, sicché, come nasconde il suo scherzo nella serietà, e la sua serietà nello scherzo [...] così può anche venirgli di passare per cattivo, pur essendo buono.
Del resto, la differenza tra ironia e ipocrisia traspare già nel fatto che l'ipocrita non vuole che il suo pensiero sia colto e lo dissimula quindi interamente, mentre chi fa dell'ironia lascia trapelare nel riso la sua vera opinione. L'ipocrita, dunque, non dice ciò che pensa perché non vuole essere giudicato: nega se stesso perché non intende confrontarsi con la realtà che lo circonda, perché non se la sente di contrastare un'opinione che gode di credito nel mondo. L'ironia segue una strada diversa: chi nel sorriso ironico riconosce la distanza che lo separa da ciò che ha detto, non nega sé, ma la sua adesione ad una realtà che appare per qualche verso priva di valore. L'ironia, dunque, permette al soggetto di prendere le distanze da ciò che ha detto, liberandosene, tagliando i ponti che lo vincolano ad una realtà che è riconosciuta priva di valore.
Ora, proprio in questo suo far "piazza pulita" della molteplicità dei legami che stringono l'uomo alla realtà che lo circonda, l'ironia sembra inaugurare un nuovo cominciamento per il soggetto. La battuta ironica, che fingendo di confermarla, nega l'adesione del soggetto ad un mondo dato, libera di fatto l'io da una realtà cui non crede, ed è proprio questo senso di liberazione che si esprime nel riso dell'ironia.
La funzione di cominciamento dell'ironia, il suo porsi come uno strumento per mettere tra parentesi una realtà ritenuta inessenziale, traccia una chiara linea di demarcazione tra l'ironia e l'ipocrisia, ma sembra riconnetterla al dubbio, poiché anche nel dubbio - come Cartesio insegna - il soggetto si libera dai vincoli di un sapere tradizionale per inaugurare un nuovo cominciamento.
Il rapporto tra ironia e dubbio ha del resto più di una ragione per essere istituito: anche il dubbio ci dispone in un atteggiamento di natura negativa rispetto alla realtà e ci libera dalle convinzioni cui eravamo precedentemente legati. Anche in questo caso, tuttavia, al momento della somiglianza si deve affiancare quello del contrasto: nel dubbio il soggetto vuole penetrare nell'oggetto, vuole appunto conoscerlo, ma l'oggetto gli sfugge, proprio perché il dubbio non permette mai alla soggettività di riposarsi e di stare ben salda sulle sue acquisizioni conoscitive. Nell'ironia invece il soggetto non vuole affatto cogliere l'oggetto, non intende penetrare nella sua intima essenza: intende piuttosto prenderne le distanze. In altri termini: chi dubita, crede di non conoscere la realtà, ma è certo che valga egualmente la pena di comprenderla, ed è per questo che cerca di farsi presso la natura intima delle cose; chi fa dell'ironia, invece, crede di conoscere la realtà, ma è certo che non valga la pena di soffermarvisi, e nel sorriso ironico prende commiato da un mondo che gli appare privo di valore.
L'ironia: una personcina invisibile. La funzione dell’ironia se la consideriamo come atteggiamento generale verso il mondo e non più come gesto occasionale. L'ironia sensu eminentiori non si rivolge contro questo o quel singolo esistente, bensì contro tutta la realtà data in un determinato tempo e sotto determinati rapporti.
Ora, ciò è quanto dire che "a essere considerato sub specie ironiae non è questo o quel fenomeno, ma la totalità dell'esistenza" . Scrive Kierkegaard,: “Per il soggetto ironico la realtà data ha perso completamente il suo valore, gli è diventata una forma imperfetta e intralciante ovunque. Per l'altro verso, però, possiede il nuovo. Sa una sola cosa, che il presente non corrisponde all'idea”.
Il sorriso ironico ci permette così di estraniarci dal mondo, di non riconoscergli alcun valore. Da questa negazione tuttavia non derivano alla soggettività impegni di nessun genere: la negazione ironica del mondo scompare nell'atto stesso del negare e non si solidifica in un che di positivo. E ciò è quanto dire che nell'ironia il soggetto guadagna una libertà soltanto negativa.
La libertà dell'ironia è dunque sempre soltanto libertà da qualcosa, mai libertà di agire per qualcosa - è appunto una libertà vuota e soltanto negativa.
A partire di qui si può davvero comprendere non soltanto perché Socrate, il filosofo con cui si chiude la stagione della "felice immediatezza" del mondo greco, debba essere per Kierkegaard il vero campione dell'ironia, ma anche la ragione per la quale in un passo del suo libro si parla dell'ironia come di una personcina invisibile: nel sorriso ironico, l'io ritrova e guadagna se stesso proprio nel momento in cui si sottrae ad ogni sguardo che lo cerchi nel mondo. La soggettività che l'ironia ci consegna paga così il gesto di diniego che sancisce la sua superiorità sul mondo e sul reale con il suo divenire invisibile, con il suo perdersi in una vuota possibilità: il luogo da cui la soggettività ironizzante guarda il mondo è così lo spazio vuoto della pura possibilità.
L'ironia dominata. Prima di concludere le nostre analisi sull'ironia in Kierkegaard è opportuno dare almeno uno sguardo alle pagine conclusive della sua tesi di laurea. Qui Kierkegaard prende silenziosamente commiato dall'ironia come negatività infinita e assoluta e ne suggerisce una considerazione più positiva. L'ironia può essere infatti dominata, e ciò significa che anche questo atteggiamento negativo della soggettività può essere preso con la giusta dose di ironia. Dalla smania ironica che tende a svuotare il reale di ogni valore si deve prendere un ironico distacco; e se l'ironia impedisce all'io di perdersi nel mondo, l'ironia sull'ironia gli impedirà di perdersi di là da esso. L'ironia smette così di essere la lama tagliente che rescinde una volta per tutte il nesso dell'io con il mondo e diviene la coscienza critica che ci impedisce di restare chiusi nei dati di fatto della vita, di idolatrare i fenomeni, cui occorre certo dare peso, ma solo alla luce della consapevolezza della loro insufficienza a racchiudere una volta per tutte la ricchezza di significato della soggettività.
L'ironia come stato d'animo sconfina così in una superiore forma di saggezza che ci insegna a vivere nel mondo senza tuttavia rimanervi impaniati.
THE THEATRE OF THE ABSURD
'The Theatre of the Absurd' is a term coined by the critic Martin Esslin for the work of a number of playwrights, mostly written in the 1950s and 1960s. The term is derived from an essay by the French philosopher Albert Camus, who first defined the human situation as basically meaningless and absurd.
The Theatre of the Absurd was influenced by the traumatic experience of the horrors of the Second World War, which showed the total impermanence of any values, shook the validity of any conventions and highlighted the precariousness of human life and its fundamental meaninglessness and arbitrariness. The trauma of living from 1945 under threat of nuclear annihilation also seems to have been an important factor in the rise of the new theatre.
At the same time, the Theatre of the Absurd also seems to have been a reaction to the disappearance of the religious dimension from contemporary life.
As a result, absurd plays assumed a highly unusual, innovative form, directly aiming to surprise the viewer, shaking him out of this comfortable, conventional life of everyday concerns. In the meaningless and Godless post-Second-World-War world, it was no longer possible to keep using such traditional art forms and standards that had ceased being convincing and lost their validity. The Theatre of the Absurd openly rebelled against conventional theatre. Indeed, it was anti-theatre. It was surreal, illogical, conflictless and plotless. The dialogue seemed total nonsense. Not unexpectedly, the Theatre of the Absurd first met with incomprehension and rejection.
One of the most important aspects of absurd drama was its distrust of language as a means of communication. Language had become a vehicle of conventionalised, stereotyped, meaningless exchanges. Words failed to express the essence of human experience, not being able to penetrate beyond its surface. The Theatre of the Absurd showed it as a very unreliable and insufficient tool of communication. Absurd drama uses conventionalised speech, clichés, slogans and technical terminology, which is distorts, parodies and breaks down. Objects are much more important than language in absurd theatre: what happens transcends what is being said about it. It is the hidden, implied meaning of words that assume primary importance in absurd theatre, over an above what is being actually said.
There is no dramatic conflict in the absurd plays. However frenetically characters perform, this only underlines the fact that nothing happens to change their existence. Absurd dramas communicate an atmosphere, an experience of archetypal human situations. The Absurd Theatre is a theatre of situation, as against the more conventional theatre of sequential events. Unlike conventional theatre, where language rules supreme, in the Absurd Theatre language is only one of many components of its multidimensional poetic imagery.
SAMUEL BECKETT
LIFE
Samuel Beckett was born in Dublin in 1906 and educated at Trinity College where he studied Modern Languages. After graduation in 1928 he went to Paris as a lecturer in English and two years later he returned to Trinity College to lecture in French for a couple of years. Then he travelled throughout Europe until he settled in Paris in 1937 where he made friends with James Joyce and was his secretary for a period. During the war, Beckett became involved in the French Resistance and afterwards he began to write intensively and exclusively in French. He was awarded the Nobel Prize for literature in 1969.
WORKS
All his works have similar themes, characters and techniques. He always presents a static, indistinct and closed world with characters who are fixed in one place and are incapable or unable to react to the situation in which they find themselves, and wait for something to happen. They are degraded, hopeless human beings, “anti-heroes” in search of something, although they don’t know what and therefore they are destinated to fail.
By setting the situations in a particular environment, Beckett aims at conveying the sense of desolation and emptiness. He achieves this by means of language, employing, particularly in his dramas, a dialogue composed of common, everyday words and simple sentences.
The language is indirectly related to the action, while mime and silence play a major role as they try to convey the meaning which is concealed behind that which has not been said. Beckett is able to reduce his language to bare essentials, to distill thought and expression by removing all that he considers unnecessary, a technique which reveals his effort to give expression to the futility and nothingness of human life.
All work of Beckett have no plot in the traditional sense that a given situation develops into a different one and characters don’t react in a plausible way to events because it is an abstract representation of the world. Characters are conscious that they way they live is absurd, but it is the only way for them to be sure to exist. Therefore they need always to speak to refill the empty surrounding them and to employ time in their eternal deceived wait. They are dominated by a blind monotony, but they are tied to the life. They do anything to surpass the tedium and the apathy of the everyday life.
They are all first written in French because using a language that is not own, the writer must be more careful in the choice of terms, moreover, he cannot rely on stylistic devices but must key strictly to what he has to say. The expression is reduced to essential with no artifice reaching clarity and concentration, being compelled to use the minimum quantity of words, chosen among the simplest and commonest.
FOCUS ON “HAPPY DAYS”
In “Happy Days” Beckett represents the insignificance of reality as he sees it. The irony in Beckett's works is that to speak is to exist, but in order to speak, one must adopt the system of language, words, which is meaningless. Beckett's technique illustrates the lack of meaning not only in language but also in life. The play is reduced to the essential; there are few characters and even fewer propositions so that the emptiness of postmodern life is highlighted. The few propositions used are symbolic: holes and ashbins in which characters are situated illustrate the gaps and holes in language and the inability of language to communicate meaning that is caused from these "gaps". Moreover, characters realise that life is insignificant and mechanical and attempt simply to "get through" and take comfort in the small things and in each other. The main focus of the play is on Winnie, who is alienated, psychically and physically.
The reader is left only to consider the curious placement of the characters: one, Winnie, buried up to her waist and then to her neck, and the other, Willie, often hidden behind a mound. The two sleep and wake according to the command of an omnipresent ringing bell. Her unique psychological support is the awareness to know that someone (Willy) is listening to her.
Beckett's use of the ironic and the absurd in Happy Days illustrates the impotence and alienation of the individual in modern society. Winnie, part realistically human and part inanimate, exists as a surrealist metaphor for life itself (625). Although Winnie is cut off from her body, from her husband, from her own freedom, she remains cheerful. Happy Days differs from many other Beckettian works in that pessimism is only implicit in the text. Winnie does not dwell on her "death-in-life" situation; instead, she is comforted by the sound of her own voice and by other sounds she hears.
THEMES
* LONELINESS AND THE NEED FOR COMPANIONSHIP
While Winnie never uses the word, she is constantly lonely and depends heavily on the assurance that Willie is conscious and listening to her. She doesn't ask much of Willie, but needs to feel that her words have an impact on someone else, and are not simply externalised thoughts.
The imaginary couple watches and discusses Winnie, and gives her the feeling of being cared for, something she doesn't get with Willie. Her desire to be watched is realized in the theatre.
The play also revolves around pairings. The sounds of Winnie's and Willie's names suggest a light ascent and heavy drop, respectively, and Winnie's sensation of being "sucked up" into the air, compared with Willie's crawling and life in his hole, supports these movements.
The two-act structure of the play and the doublings of the bell—it rings twice in the morning, and rings both to wake them up and signal the time for sleep—sustains the atmosphere of couplings. The end of the play is ambiguous and lets the audience decide whether Winnie and Willie are brought together for good as they inch toward death, or if their partnership is just a temporary respite before they split up again.
• STASIS MASQUERADING AS CHANGE
Rituals, such as Winnie's brushing her teeth and cleaning her effects, dominate the play's constrained but frequent actions. She performs the routines to fill up the empty hours of the long days, but the achievement of each ritual also depletes her, causing her sadness, such that the ritual becomes a repetitive motion which grinds Winnie into a static, exhausting routine. Moreover, nothing is really changed at all after the rituals are performed, and the entire day takes on the appearance of one large ritual. If there are changes, they are so minute as to be virtually static. As the play nears the end, its silences and pauses increase, giving the impression that Winnie's and Willie's lives are dragging on ever more slowly toward a death they will never reach.
• FAILURE AND EMPTINESS OF LANGUAGE
Winnie often remarks that certain words are "empty" to her, and thinks about the day when words must "fail." Language is empty to her because it signifies nothing in her current world, only things from a past life Winnie cannot access. Language fails, on the other hand, because it creates the illusion that true dialogue is being exchanged when, in fact, Willie is hardly a reciprocal conversationalist. Language is dependent on its social usage to have meaning, and since Winnie talks to herself the whole play, with little reaction from Willie, her words fail.
• APPROACH OF DEATH
Winnie and Willie are slowly approaching death, but Beckett makes this more dramatic through his stagecraft. Most explicitly, the mound Winnie is slowly being buried in is her grave, one that will continue to envelop her but never kill her. Willie, too, has a hole in the earth, but his is low to the ground and he can crawl in and out of it. He is reborn each time he emerges into the past he is trying to hold on to.
• SYMBOL OF THE “BLACK BAG”
The black bag stores all the rituals of Winnie's life: her toothbrush, comb, magnifying glass, and, most importantly, "Brownie," her revolver. These items do not need her and, as she says, they have their own life, and create an empty, static world of ritual. The bag's colour provokes connections to death, and Winnie eventually takes out for good the revolver, which always seems to rest at the top of the bag despite its weight. The bag, then, symbolizes the death and the legitimate option of suicide it presents.
PLOT
Winnie, a woman in her 50s, is buried waist-deep in a mound of arid earth, with just a large, black shopping bag and a collapsed parasol. Behind her and hidden from view sleeps Willie. A bell rings and wakes her Winnie. She recites a prayer and goes through several cleaning rituals—brushing her teeth, etc.—with implements from the bag.
Winnie regrets not letting Willie sleep, and wishes she could tolerate being alone. She says that if Willie died or left her, she would never say another word. She anxiously wonders if she combed her hair and brushed her teeth, and locates the brush and comb in her bag. She resolves to "brush and comb them later." She stumbles when she wonders if hair is referred to as "them" or "it," and asks Willie, who answers "It." Winnie is overjoyed that Willie is speaking, and pronounces it a "happy day." She tells Willie to crawl back into his hole to avoid the sun, which he does. Winnie thanks him for reassuring her that he can hear her, as otherwise she would have only the bag. She asks Willie if he will leave her soon, but he does not answer. She says the earth around her is tightening, and wonders if she has put on weight.
Winnie asks Willie if she were ever "lovable," but he does not respond. Though it is getting late, she says it is too soon for her song. She reminds herself not to "overdo" the bag, but to use it and think about the point in the future "when words must fail."
Winnie feels she is being watched by someone, and as she files her long nails, she thinks about a man named Shower—or possibly Cooker—with his fiancée and tells Willie her image of them: they hold hands, carrying bags in their free hands, and stare at Winnie while they question Winnie's placement in the ground, fight, argue about Willie's and Winnie's usefulness to each other, contemplate digging Winnie out, then leave.
Winnie sees that Willie is trying to crawl out of his whole. She observes that he is no longer a good crawler, and urges him on as he progresses to his spot behind the mound. She tells him she dreams he would come to the other side so she could see him, but knows he cannot. Winnie tells herself to sing, but she does not sing, and then to pray, which she also does not do.
The next day, Winnie is covered up to her neck in the mound and cannot move her head. A bell rings and she opens her eyes. Pausing continuously, she tries to talk to Willie, who doesn't respond, and surmises that Willie has died, or left her "like the others." She saddens over her current condition, and grows anxious over the absence of her arms, breasts, and Willie.
The bell rings, and Winnie asks Willie questions and, getting no response, says it's like him to not have an opinion. She recounts the story of a young girl, Mildred, who was undressing her doll in the middle of the night. Winnie reprimands Willie for not paying attention, then fearfully questions if he may be stuck in the hole. She remarks on the brief sadness she experiences after singing. She imagines Shower/Cooker with his woman, both older, as they discuss Winnie's buried body. Then they fight and leave, still hand in hand and with their bags. Winnie resumes her story about Mildred, who dropped her doll when a mouse ran up her leg. Mildred's whole family came running, but Winnie says it was too late.
Winnie sees Willie crawling toward her in a fashionable outfit. She says it reminds her of the day he proposed to her. He drops his hat and gloves and crawls toward her at Winnie's delighted urgings. He whispers "Win." She grows happy and sings the waltz duet "I Love You So" that the music box played before. She closes her eyes, the bell rings, and she reopens them. She smiles at Willie, who looks at her, and she stops smiling. They continue looking at each other through a long pause
WINNIE
Winnie is perhaps Beckett's most positive character. She is almost incessantly optimistic, except for her few moments of sadness. She chatters constantly, but her speech is consciously larded with references to great works of literature. Dependent on Willie, she needs someone to listen to her, at least some of the time, or else she feels like she may as well not speak at all. She fears the day when "words must fail". Nearly everything she does is an attempt to diminish her loneliness.
She fills this loneliness with constant talking and obsessive rituals (brushing her teeth, combing her hair, fiddling with her parasol). She is buried in the ground with a barely visible husband who hardly acknowledges her presence, and her environment seems just an extension of her previous married life. The days are long and there is so little to do or say. The rituals may fill up the time, but they also draw Winnie closer to death with their static routines. Nothing seems changed after a ritual is performed, and the empty chasm in her life only widens.
Similarly, the song "I Love You So," the ritual Winnie most looks forward to, brings her great happiness but then saddens her. The song gives her hope for life, and then quickly snatches it away. She fears death and holds out hope for an infinite life, she also looks forward to the "happy day to come when flesh melts at so many degrees and the night of the moon has so many hundred hours."
Perhaps Winnie's ambivalence stems from her confused sense of time. She is ruled by "public" time—she has to follow the bell system that wakes her and signals time to sleep, and she goes through her rituals in a systematic process. She has no "private" sense of time, in which she lives according to her own rhythms, and this is because she is suspended between the past and future. She holds on to memories of her life before the mound but can never recall further details. In a changeless world, there is no difference between past and present, so memory is not necessary. As for the future, all she has to look forward to are the rituals, which are hardly a future but more a recurring present. This suspension is summed up when she says, "This will have been a happy day!" In the future perfect tense, this statement sits in a non-existent point in the past of the future. Winnie is a prisoner of her environment and her temporality, and her reactions often make the situation worse, yet she is happier than Willie.
WILLIE
Willie is everything Winnie is not. He is silent, speaking only when she irritates him enough with her requests for him to do so, or when he reads out the headlines of his newspaper. If Winnie is stuck between the past and future, Willie is rooted firmly in the past. His newspaper connects him to the outside world. His position low to the ground, too, counters Winnie's upright position and her sensation of being "sucked up." However, they do not complement each. Finally she gains the love she desires. But it may only be temporary, as she and Willie stare at each other without smiling through a long pause that ends the play, and we do not know if Willie has changed permanently, or if, as the play's static rituals suggest, he will revert back to his normal attitude the next day.
SHOWER/COOKER AND FIANCÉE
An imaginary couple that Winnie conjures up. Winnie sees them as holding hands and holding bags in their free hands, while they watch and discuss Winnie's condition.
EUGÈNE IONESCO
VIE
Eugène Ionesco naît à Slatina en Roumanie en 1912 d’un père roumain et d’une mère française. Un an après sa naissance, ses parents s’installent à Paris. Les disputes de ses parents et la guerre de 1914 suscite chez l’enfant un sentiment d’angoisse. Son père retourne en Roumanie, sa mère prend en charge l’éducation des deux enfants et les amène au Luxembourg où ils vivent une période de bonheur. À l’age de neuf ans il rejoint son père avec sa famille en Roumanie où ils assistent à la montée du nazisme. Après le mariage il s'établit à Marseille et à partir des années Cinquante il commence à écrire des pièces de théâtre.
ŒUVRES PRINCIPALES
* La cantatrice chauve (1950)
* La leçon (1951)
* Rhinocéros (1960)
THÈMES
Son théâtre naît d’une exigence intérieur, de ses rêves, de ses angoisses, de ses désirs obscurs et de ses contradictions intérieures ; en effet, dès son enfance il était obsédé par la mort de laquelle on ne pouvait échapper d’aucune façon. De cette idée dérive l’inutilité de la vie humaine, doublée d’une sensation d’une impossibilité de communiquer, d’un isolement.
LA CANTATRICE CHAUVE
Il est neuf heures du soir‚ dans un intérieur bourgeois de Londres, le salon de M. et Mme Smith. La pendule sonne les «dix-sept coups anglais».
M. et Mme Smith bavardent au coin du feu en passant d’un sujet à un autre.
Ils évoquent notamment une famille dont tous les membres s’appellent Bobby Watson. Mary entre en scène et tient, elle aussi, des propos assez incohérents. Puis elle annonce la visite d’un couple ami, les Martin. M et Mme Smith quittent la pièce pour aller s’habiller.
Mary fait alors entrer les invités.
Les Martin attendent dans le salon des Smith. Ils s’assoient l’un en face de l’autre. Ils ne se connaissent apparemment pas. Le dialogue qui s’engage leur permet pourtant de constater une série de coïncidences curieuses. Ils sont tous deux originaires de Manchester. Il y a «cinq semaines environ» , ils ont pris le même train, ont occupé le même wagon et le même compartiment. Ils constatent également qu’ils habitent à Londres, la même rue, le même numéro, le même appartement et qu’ils dorment dans la même chambre. Ils finissent par tomber dans les bras l’un de l’autre en découvrant qu’ils sont mari et femme. Les deux époux s’embrassent et s’endorment. Les Smith accueillent leurs invités et par trois fois ils sentent la sonnette de la porte d’entrée. Mme Smith va ouvrir, mais il n’y a personne. Elle en arrive à cette conclusion paradoxale: « L’expérience nous apprend que lorsqu’on entend sonner à la porte, c’est qu’il n’y a jamais personne». Cette affirmation déclenche une vive polémique. Un quatrième coup de sonnette retentit. M. Smith va ouvrir. Cette fois-ci apparaît le capitaine des pompiers.
Les deux couples questionnent le capitaine des pompiers pour tenter de comprendre le mystère des coups de sonnette. Mais cette énigme paraît insoluble. Le capitaine des pompiers se plaint alors des incendies qui se font de plus en plus rares. Puis il se met à raconter des anecdotes incohérentes que les deux couples accueillent avec des commentaires étranges.
Réapparaît alors Mary, la bonne, qui souhaite, elle aussi raconter une anecdote. Les Smith se montrent indignés de l’attitude de leur servante. On apprend alors que la bonne et le pompier sont d’anciens amants. Mary souhaite à tout prix réciter un poème en l’honneur du capitaine. Sur l’insistance des Martin on lui laisse la parole, puis on la pousse hors de la pièce. Le pompier prend alors congé en invoquant un incendie qui est prévu «dans trois quart d’heure et seize minutes exactement». Avant de sortir il demande des nouvelles de la cantatrice chauve. Les invités ont un silence gêné puis Mme Smith répond: « Elle se coiffe toujours de la même façon».
Les Smith et les Martin reprennent leur place et échangent une série de phrases dépourvues de toute logique. Puis les phrases se font de plus en plus brèves au point de devenir une suite de mots puis d’onomatopées. La situation devient électrique. Ils finissent tous par répéter la même phrase: «C’est pas par là, c’est par ici!»
Ils quittent alors la scène, en hurlant dans l’obscurité.
La lumière revient. M. et Mme Martin sont assis à la place des Smith. Ils reprennent les répliques de la première scène. La pièce semble recommencer, comme si les personnages, et plus généralement les individus étaient interchangeables. Puis le rideau se ferme lentement
L’IRONIE
Dans la Cantatrice chauve Ionesco se moque directement de la bourgeoisie anglaise. Il s’est inspiré d’une méthode d’éducation de l’anglais, la méthode Assimil. Dans les manuels d’anglais, on mettait en scène des anglais typiques ayant un dialogue avec des phrases brèves. Ionesco, ayant transcrit et relu les phrases d’Assimil, s’aperçoit de l’énorme quantité de clichés qui se retrouvent dans ces textes et qui lui font comprendre qu’il faut communiquer les vérités essentielles dont il avait pris conscience dans le manuel franco-anglais. Assimil lui a fourni les matériaux pour sa pièce: les personnages (sauf le capitaine pompier) et l’usage systématique des clichés.
Il est évident que l’auteur fait passer des messages et des opinions à travers sa pièce de théâtre. Par exemple, le fait que les personnages sont incapables de communiquer entre eux révèle l’opinion de Ionesco sur les gens de la bourgeoisie. Il y a une métaphore dans la similitude des noms et la similitude des gens de la bourgeoisie. Notons qu’Eugène Ionesco portait le même nom que son père et qu’ils avaient une relation difficile entre eux. Il est évident qu’il n’y a pas de logique ou d’intrigue dans le théâtre de Ionesco.
En effet chez Ionesco, on se retrouve souvent dans un monde bizarre et inexplicable.
Il utilise quatre sortes d'outils dans ses oeuvres pour leur donner un aspect ridicule : la répétition, les coïncidences, des situations de la vie quotidienne, et la contradiction.
Au début de la première scène de La Cantatrice Chauve, on décrit la scène comme tout à fait "anglaise" (page11):
Soirée anglaise. M. Smith, Anglais, dans son fauteuil anglais et ses pantoufles anglaises, fume sa pipe anglaise et lit un journal anglais, près d'un feu anglais. Il a des lunettes anglaises, une petite moustache grise, anglaise. A côté de lui, dans un autre fauteuil anglais, Mme Smith, Anglaise...
L'usage de la contradiction par les personnages émerge dans la conversation des Bobby Watson. Mme. et M. Smith se contredisent l'un l'autre et eux-mêmes (pages16-17-18):
* M.Smith: Tiens, c’est écrit que Bobby Watson est mort
Mme. Smith: Mon Dieu, le pauvre, quand est-ce qu’il est mort?
M.Smith: Pourquoi prends-tu cet air étonnée? Tu le savais bien. Il est mort il y a deux ans. Tu te rappelles, on a été à son enterrement, il y a un an et demi…il y déjà trois ans qu’on a parlé de son décès…il y avait quatre ans qu’il était mort et il était encore chaud.
* Mme. Smith: ...Est-ce qu'elle est belle?
M.Smith: Elle a des traits réguliers et pourtant on ne peut pas dire qu'elle est belle. Elle est trop grande et trop forte. Ses traits ne sont pas réguliers et pourtant on peut dire qu'elle est très belle. Elle est un peu trop petite et trop maigre.
* M. Smith: Heureusement qu'ils n'ont pas eu d'enfants...
Mme. Smith: Mais qui prendra soin des enfants? Tu sais bien qu'ils ont un garçon et une fille. Comment s'appellent-ils?
M.Smith: Bobby et Bobby comme leurs parents...
Aussi dans la première scène, il y a la conversation des Bobby Watson (page19) ; la répétition du nom Bobby Watson sert à confondre les spectateurs, à qui une famille de Bobby Watson semble bizarre. Cependant, les personnages se comprennent complètement. Ce mécanisme est répété aussi avec Élisabeth et Donald Martin (pages 31-32)
M.Smith:...L'oncle de Bobby Watson, le vieux Bobby Watson, est riche et il aime le garçon. Il pourrait très bien se charger de l'éducation de Bobby.
Mme. Smith: Ce serait naturel. Et la tante de Bobby Watson, la vieille Bobby Watson, pourrait très bien, à son tour, se charger de l'éducation de Bobby Watson, la fille de Bobby Watson. Comme ça, la maman de Bobby Watson, Bobby, pourrait se remarier. Elle a quelqu'un en vue?
M. Smith: Oui, un cousin de Bobby Watson.
Mme. Smith: Qui? Bobby Watson?
M.Smith: De quel Bobby Watson parles-tu?
La coïncidence qui est la plus frappante, c'est dans la scène IV, quand M. et Mme Martin arrivent chez les Smith. Après une longue conversation, ils se rendent comptent qu'ils sont, en fait, mariés (page 24 à 31) :
M.Martin: Mes excuses, Madame, mais il me semble, si je ne me trompe, que je vous ai déjà rencontrée quelque part.
Mme. Martin: A moi aussi, Monsieur, il me semble que je vous ai déjà rencontré quelque part...
Peu à peu, ils apprennent qu'ils habitent dans la même rue, dans le même immeuble, dans le même appartement, qu'ils partagent un lit, et même qu'ils ont la même fille. Enfin, après une longue pause, M.Martin dit, "Alors, chère Madame, je crois qu'il n'y a pas de doute, nous nous sommes déjà vus et vous êtes ma propre épouse...Elisabeth, je t'ai retrouvée!"
Les choses ordinaires servent à pourvoir une source infinie de conversations et d'arguments détaillés. Un bon exemple est dans la scène VII. C'est l'histoire de l'homme qui a noué les lacets de ses chaussures que Mme. Martin raconte (page 36-37-38).
Mme. Martin: Eh bien, j'ai assisté aujourd'hui à une chose extraordinaire. Une chose incroyable...vous allez dire que j'invente, il avait mis un genou par terre et se tenait penché.
M. Martin, M. Smith, Mme. Smith: Oh!
Mme. Martin: Oui, penché.
M.Smith: Pas possible!
Mme. Martin: Il nouait les lacets de sa chaussure qui s'étaient défaits.
Les trois autres: Fantastique!
Les jeux de mots contribuent aussi à engendrer l’effet comique (page 63)
Toujours, on s’empêtre entre les pattes du prête
A la fin de la pièce, tout le monde parle avec des phrases qui n'ont pas de sens, et qui ne suivent pas logiquement les phrases qui les précèdent. Souvent, ils ne font que des bruits répétitifs:
M.Smith: Kakatoes, kakatoes, kakatoes, kakatoes, kakatoes...
Mme.Smith: Quelle cacade, quelle cacade, quelle cacade...
M.Martin: Quelle cascade de cacade, quelle cascade de cacade, quelle cascade de cacade...
Ionesco utilise la langue pour provoquer une réaction du spectateur par la violence de sons qui s'entrechoquent.
ORAZIO
VITA
Quinto Orazio Flacco nasce in un piccolo paese della Puglia, Venusia, nel 65 a.C. da padre liberto, ossia uno schiavo affrancato, proprietario di un modesto podere. Se della figura materna non pervengono notizie, al contrario il poeta parla frequentemente del padre nelle sue opere, dando vita ad una poesia di ricordi familiari: di modesta origine sociale, per non costringere il figlio ad una condizione di subalternità rispetto ai figli degli ufficiali romani residenti nella colonia, si trasferiscono a Roma per curare l’educazione del figlio. La vita privata dell’autore influenza notevolmente la sua poetica, nella quale è possibile notare numerosi cenni autobiografici. Appartenente all’epoca di Virgilio, viene introdotto dallo stesso nel circolo letterario di Mecenate.
In seguito al perfezionamento degli studi di retorica e filosofia conseguiti ad Atene, Orazio torna a Roma, dove, dopo essersi arruolato nell’esercito ed aver subito una pesante sconfitta, si scontra con la dura realtà che lo pone di fronte ad una condizione di profonda tristezza dovuta, da un lato, alla morte del padre, e dall’altro alla confisca del podere paterno, come era accaduto a Virgilio, in vista di una distribuzione a favore dei veterani di Ottaviano. Per migliorare le proprie condizioni economiche, intraprende l’attività di scriba quaestorius in seguito affiancata da quella di poeta, unendo così il talento alla passione.
L’adesione di Orazio all’epicureismo assume un ruolo estremamente significativo nella sua vita non solo poiché lo inserisce nell’ambiente dei giovani epicurei a Roma e lo introduce nella casa i Mecenate, ma soprattutto poiché lo aiuta a superare la difficile e sofferta situazione in cui versa. Trova così rifugio nell’ideale dell’otium contemplativo, iniziando a comporre versi nei quali esprime la propria esperienza personale e i propri sentimenti.
Nel 38 d.C. avviene l’incontro con Mecenate, al quale dedica il libro I dei Sermones, omaggio che viene prontamente ricambiato con la donazione di una villa in Sabina. In questo modo si realizza il sogno di Orazio di vivere una vita appartata, lontana da Roma.
I “SERMONES”
I “Sermones” sono diciotto componimenti di contenuto satirico scritti in esametri e raccolti in due libri composti tra il 40 ed il 30 a.C. la cui peculiarità consiste nell’utilizzo di un tono discorsivo e familiare. Quest’opera appartiene al genere letterario della satira, termine che originariamente indicava un piatto ricolmo di frutta e primizie che veniva offerto ogni anno agli dèi e che per estensione indica un tipo di rappresentazione mimica e drammatica mista a musiche, danze e parti recitate. Si tratta quindi di un genere letterario misto di versi e prosa con contenuti vari il cui inventor è Lucilio, a cui Orazio si ispira, imita e cerca di superare. Dalle produzioni di Lucilio Orazio trae la mordacità e la capacità di colpire fatti e persone per descrivere la società in cui vive, costruendo amabilmente un discorso poetico che fonde gli apporti culturali della tradizione letteraria e elementi innovativi, come ad esempio elementi di riflessione per intervenire sulla coscienza dei singoli.
Tema principale delle satire è l’incontentabilità e l’avidità umana: nessuno è pienamente soddisfatto del proprio destino ed ognuno invidia la sorte altrui.poiché spesso causa dell’incontentabilità e della scontentezza è l’avidità di denaro, soltanto limitandosi nelle ricchezze si mantiene il giusto equilibrio.
L’effetto comico scaturisce dal linguaggio utilizzato, decisamente insolito per l’epoca in cui è stato scritto e per l’accostamento all’idea tradizionale del latino come lingua antica, legata alla cultura classica dei grandi scrittori, poeti e filosofi. Il tono vivace, i dialoghi diretti e fortemente ironici e il registro molto colloquiale sono la caratteristica principale della satira del seccatore.
“PER LE VIE DELLA CITTÀ: UN INCONTRO SGRADEVOLE”
Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis.
accurrit quidam notus mihi nomine tantum,
arreptaque manu "quid agis, dulcissime rerum?"
"suaviter, ut nunc est," inquam, "et cupio omnia quae vis"
cum assectaretur, "num quid vis?" occupo. at ille
"noris nos" inquit; "docti sumus." hic ego "pluris
hoc" inquam "mihi eris." misere discedere quaerens,
ire modo ocius, interdum consistere, in aurem
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret talos. "o te, Bolane, cerebri
felicem!" aiebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret, vicos, urbem laudaret. ut illi
nil respondebam, "misere cupis" inquit "abire;
iamdudum video: sed nil agis; usque tenebo;
persequar hinc quo nunc iter est tibi." "nil opus est te
circumagi: quendam volo visere non tibi notum:
trans Tiberim longe cubat is, prope Caesaris hortos."
"nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te."
demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus,
cum gravius dorso subiit onus. incipit ille:
"si bene me novi non Viscum pluris amicum,
non Varium facies: nam quis me scribere pluris
aut citius possit versus? quis membra movere
mollius? invideat quod et Hermogenes ego canto."
interpellandi locus hic erat: "est tibi mater,
cognati, quis te salvo est opus?" "haud mihi quisquam:
omnis composui." "felices! nunc ego resto.
confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit divina mota anus urna:
hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis,
nec laterum dolor aut tussis, nec tarda podagra;
garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,
si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas."
ventum erat ad Vestae, quarta iam parte diei
praeterita, et casu tunc respondere vadato
debebat quod ni fecisset, perdere litem.
"si me amas" inquit "paulum hic ades." "inteream si
aut valeo stare aut novi civilia iura;
et propero quo scis." "dubius sum quid faciam" inquit,
"tene relinquam an rem." "me, sodes." "non faciam" ille,
et praecedere coepit. ego, ut contendere durumst
cum victore, sequor. "Maecenas quomodo tecum?"
hinc repetit: "paucorum hominum et mentis bene sanae;
nemo dexterius fortuna est usus. haberes
magnum adiutorem, posset qui ferre secundas,
hunc hominem velles si tradere: dispeream ni
summosses omnis." "non isto vivimus illic
quo tu rere modo; domus hac nec purior ullast
nec magis his aliena malis; nil mi officit" inquam
"ditior hic aut est quia doctior; est locus uni
cuique suus." "magnum narras, vix credibile." "atqui
sic habet." "accendis, quare cupiam magis illi
proximus esse." "velis tantummodo, quae tua virtus,
expugnabis; et est qui vinci possit, eoque
difficilis aditus primos habet." "haud mihi deero:
muneribus servos corrumpam; non, hodie si
exclusus fuero, desistam; tempora quaeram;
occurram in triviis; deducam. nil sine magno
vita labore dedit mortalibus." haec dum agit, ecce
Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum
qui pulchre nosset. consistimus. "unde venis? et
"quo tendis?" rogat et respondet. vellere coepi,
et prensare manu lentissima bracchia, nutans,
distorquens oculos, ut me eriperet. male salsus
ridens dissimulare: meum iecur urere bilis.
"certe nescio quid secreto velle loqui te
aiebas mecum." "memini bene, sed meliore
tempore dicam: hodie tricesima sabbata: uin tv
curtis Iudaeis oppedere?" "nulla mihi" inquam
"religio est." "at mi: sum paulo infirmior, unus
multorum: ignosces: alias loquar." huncine solem
tam nigrum surrexe mihi! fugit improbus ac me
sub cultro linquit. casu venit obvius illi
adversarius et "quo tu turpissime?" magna
inclamat voce, et "licet antestari?" ego vero
oppono auriculam. rapit in ius: clamor utrimque:
undique concursus. sic me servavit Apollo.
Passeggiavo, per caso, lungo la via Sacra, come è mia abitudine,
pensando a qualche sciocchezza, tutto concentrato;
mi corre incontro un tizio di cui conosco soltanto il nome.
Afferra la mano: “Come stai, carissimo?”
“Bene, almeno per ora” dico “e ti auguro tutto ciò che desideri”.
Poiché continuava a seguirmi, (lo) precedo: “Insomma, cosa vuoi?” Ma lui:
“Dovresti conoscerci, disse, siamo intellettuali”. A questo punto io dico:
“Per questo sarai più apprezzabile (lett.: varrai di più) per me”.
Cercando disperatamente di tagliar la corda,
ora acceleravo il passo, ora mi fermavo a sussurrare
qualcosa nell’orecchio del mio servo. Grondavo di sudore
fino ai talloni. “Beato te, Bolano, spirito bollente”, rimuginavo a bocca chiusa. E l’altro garrulo, ciarlava, proclamava il suo entusiasmo per le strade, la città. Poiché non gli
rispondevo, disse: “Ma tu non vedi l’ora di piantarmi in asso.
Da un pezzo l’ho notato. Niente da fare: ti terrò ben stretto,
restandoti alle costole. Dove sei diretto adesso?” “Giri inutili
per te: vado a trovare una persona che non conosci di certo.
È a letto. Sta al di là del Tevere, vicino ai giardini di Cesare”.
“Non ho niente da fare e non sono pigro: ti accompagno”.
Abbasso le orecchie come un asinello rassegnato a forza,
quando sul dorso gli grava un carico troppo pesante. E quello incomincia:
“Mi conosco bene: la mia amicizia ti sarà preziosa almeno quanto
quella con Visco e Vario; chi potrebbe infatti scrivere più
versi di me o più in fretta? Chi danzare (lett.: muovere le membra)
con più grazia? Canto cose che anche Ermogene mi invidierebbe”.
Era giunto il momento di interromperlo: “Hai una madre,
dei parenti a cui stia a cuore il tuo stato di salute?” “Non ho nessuno:
li ho sepolti tutti”. “Beati loro! Adesso resto io, purtroppo.
Dammi il colpo di grazia: un triste destino incombe su di me: una vecchia sabina, scuotendo l’urna per i vaticini, da bambino, lo predisse:
“Questo ragazzo non lo uccideranno terribili veleni, spade nemiche,
attacchi di pleurite o tosse, la gotta che rende lenti:
lo porterà alla tomba, un giorno o l’altro, un chiacchierone: eviti,
se sarà saggio, i linguacciuti appena sarà adulto”.
Eravamo giunti al tempio di Vesta, e intanto se n’era già andata la quarta parte del giorno,
e per caso doveva presentarsi in giudizio, avendo presentato garanzia;
e se non l’avesse fatto, avrebbe perso la causa.
“Se mi vuoi bene, disse, assistimi un istante”. “Fossi matto:
non ho la forza di stare in piedi e non conosco il diritto civile:
e poi mi affretto dove sai”. “Non so che cosa fare, disse,
se lasciare te o la causa”. “Me, ti prego”. “Non lo farò” disse,
e incominciò ad andare avanti. Io, poiché è difficile contendere
col vincitore, lo seguo. “Mecenate in che rapporti è con te?”
riprende da qui. “È di poca compagnia e di mente ben sana”.
“Nessuno ha sfruttato la fortuna più abilmente. Avresti
un valido aiutante che potrebbe farti da spalla,
se volessi presentarmi a lui: garantito che allora li sbaglieresti tutti”.
“Non viviamo lì nel modo in cui pensi: non c’è nessuna casa più pulita di questa,
più immune da queste bassezze: non mi reca alcun danno, dico,
che qualcuno sia più ricco o più dotto di me: ognuno ha
il suo posto”. “Racconti una gran cosa, a stento credibile”.
“Eppure è così”. “Mi fai bruciare ancora di più a desiderare di essergli vicino”.
“Se ci tieni tanto, con le tue capacità ci riuscirai; è tutt’altro che invincibile,
e per questo rende i primi approcci difficili”. “Non mi smentirò:
corromperò i servi con le mance; e, se oggi resterò fuori, non mi arrenderò;
cercherò le occasioni, gli andrò incontro nei crocicchi, (lo) accompagnerò.
Non c’è niente in questa vita che si ottenga senza sforzi.
Mentre si esibisce, ecco, (ci) viene incontro Aristio Fusco,
mio amico, e che conosceva bene quello lì.
Ci fermiamo. “Da dove vieni e dove vai?” ci si chiede a vicenda e si risponde.
Incominciai a tirarlo per la veste e ad afferrargli con la mano le braccia
assolutamente inerti, facendo cenni, strizzando gli occhi,
perché mi sottraesse (a lui). E invece, dispettoso,
ride e fa lo gnorri. La bile mi bruciava il fegato.
“A proposito, mi dicevi che volevi parlarmi di non so cosa
in segreto”. “Me lo ricordo bene, ma te lo dirò
in un momento più opportuno; oggi è il novilunio, è sabato:
vuoi forse spernacchiare i circoncisi Giudei?” “Non ho nessuno
scrupolo religioso”, dico. “Ma io sì; sono un po’ più debole, sono uno
dei tanti. Mi perdonerai; ti parlerò un’altra volta”. Questa giornata
doveva proprio nascere così nera per me! Se la squaglia quel briccone, e mi
lascia col pugnale sospeso sulla testa. Colpo di scena: viene incontro al seccatore
il suo avversario e ad alta voce: “Infame, dove scappi?” grida
e: “Testimonieresti a mio favore?” Io, ovviamente,
(gli) porgo l’orecchio. Vanno dritti in tribunale. Gridano entrambi. Grande accorrere di gente da ogni parte. E fu così che Apollo decise di salvarmi.
MARZIALE
La poesia di Marziale si colloca nell’età dei Flavi in contrapposizione alla produzione dei poeti epici sostituendo contenuti più leggeri e vari ai soggetti mitologici e storici. La maggior parte dei suoi epigrammi è caratterizzato da una vena satirica e umoristica per suscitare il riso attraverso l’uso di battute a sorpresa finale che prendono il nome di aprosdoketon. Il poeta crea con particolare realismo una serie di tipi e di personaggi che desume dalla vita e dalla società del tempo, alterandone la fisionomia con la caricatura o con l’uso di pseudonimi: buffoni, avari, medici incompetenti, seccatori, persone deformate diventano protagonisti della sua satira pungente. Allo stesso tempo, però, la caricatura non sottrae agli epigrammi la peculiarità del realismo che riflette la società. La sua grande abilità consiste nel riuscire a delineare i caratteri di un personaggio, con pregi e difetti, in modo rapido e conciso, “ogni enfasi è lontana dai miei epigrammi”.
Nuper erat medicus, nunc est vispillio Diaulus:
quod vispillio facit, fecerat et medicus.
Diaulo una volta era medico, ora fa il becchino :
quella che fa da becchino, l’aveva fatto anche da medico.
Praedia solus habes et solus. Candide, nummos,
Aurea solus hbes, murrina solu habes,
Massica solu habes et Opimi Caecuba solus,
Et cor solus habes, solus et ingenium.
Omnia solus habes : nec me puta velle negare !
Uxorem sed habes, Candide, cum populo.
I poderi e i soldi, Candido, tu da solo possiedi;
e i vasi d’oro e di murra ti godi da solo,
da solo bevi il tuo Massico e da solo bevi il Cecubo di Opimio
e da solo hai un cuore e da solo hai un ingegno.
Ogni cosa tu hai da solo: non credere che io voglia negarlo!
Ma la moglie, Candido, tu con tuti l’haiin comune.
Omnes quas habuit, fabiane, Lycoris amicas
Extulit. Uxori fiat amica maea.
Tutte le amiche che ha avute, Licoride le ha accompagnate al camposanto, o Fabiano. Magari diventasse amica di mia moglie!
Oculo Philaenis sempre altero plorat.
Quo fiat istud quaeritis modo? Lusca est.
Fileni piange sempre con un occhio solo.
Perché? È guercia.
HEINRICH BÖLL
LEBENSLAUF
1917 wurde er in Köln geboren. Nach dem Abitur 1937 begann er, Germanistik und klassische Philologie zu studieren.1939 wurde er zur Wehrmacht eingezogen. Im Laufe des Krieges wurde Böll mehrmals verletzt und infolge Desertion wurde er auch gefangengenommen. Danach kehrte er nach Köln zurück, arbeitete als Angestellter und wurde Schriftsteller. Er war politisch und gesellschaftlich engagiert. Er trat als Protest aus der katholischen Kirche aus, weil er meinte, dass das Einkommen der Kirche, das von den staatlichen Steuern stammte, die Freiheit der Kirche beeinträchtigte. Außerdem bekämpfte er die atomare Nachrüstung und war oft an der Seite der Pazifisten und der Grünen. 1972 bekam er den Nobelpreis für Literatur und starb 1985.
HAUPTWERKE
1949 „Der Zug war pünktlich“ (Erzählung)
1963 „Ansichten eines Clowns“ (Roman)
1974 „Die verlorene Ehre der K. Blum“ (Erzählung)
INHALT
Hans Schnier gehört zu einer der reichsten und mächtigsten bürgerlichen rheinischen Familien und er ist in diesem Milieu aufgewachsen. Als Kind wünschte er Clown zu werden und er ist so geworden. Durch die Wahl dieses Berufs, der ihn in den Augen seiner Familie deklassiert, rebelliert er gegen die Profitgier seiner Eltern und gegen die Konventionen und die falsche Moral einer Gesellschaft, in der er nicht integrieren kann. Außerdem, hat er keine gute Beziehung mit seiner Mutter, weil sie eine dumme und egoistische Frau ist, die während des Krieges eine strenge Anhängerin Hitlers war und jetzt Präsidentin des Zentralkomitees der Gesellschaft zur Versöhnung rassischer Gegensätze ist.
Er hat eine Wohnung von seinem Großvater in Bonn geerbt und dort lebt er mit seiner Liebhaberin Marie: da er Protestant ist während sie katholisch ist, hat sie ihn nach sechs Jahren Zusammenlebens verlassen, weil er keine katholische Erziehung seinen Kindern geben wollte. Also hat sie einen einflussreichen Katholiken, Züpfner, geheiratet. Der Weggang Mariens hat ihn innerlich zerstört und sein Berufsleben vernichtet: er fällt in einem psychologischen und künstlerischen Zusammenbruch. Er sitzt allein, krank und ohne Geld in seiner Bonner Wohnung und telefoniert mit Verwandten und Bekannten, um sie um Geld und moralische Hilfe zu bitten, aber alle lassen ihn im Stich. Inzwischen versucht Hans, Marie wieder zu gewinnen, aber alle ist nutzlos. Dank der Hilfe seines Agenten Zohnerer, der versucht, ihn nach einer Pause auf der Bühne wiederzubringen, beschließt Hans seine Arbeit neu anzufangen. Am Ende sitzt er am Bonner Bahnhof, singt Verse und bettelt.
DIE IRONIE IN „ANSICHTEN EINES CLOWNS“
Mit den „Ansichten eines Clowns“ übt Böll eine Kritik und eine Satire an den verfälschten Katholizismus der „Ära Adenauer“, an die konformistische, bürokratisierte Kirche, die die wahren Werte verloren hat, an die Heuchelei und die Anpassungsfähigkeit einer Gesellschaft, die sowohl aus dem Nationalsozialismus als auch aus dem Wiederaufbau profitieren kann.
Die Kirche opfert sich, die Armen und Bedürftigen zu schützen und zu unterstützen, um ihre Macht und den von ihrem Chef zu erhalten. Sie müssen an das herrschende Milieu anpassen. Solches Milieu besteht aus ehemalige Nationalsozialisten, die sich unter Schutz und Deckung der katholischen Kirche eine reine Weste und hohe Position im Nachkriegsdeutschland erschlichen. Eine Grundstimmung des Romans ist der Zorn des Autors über die Kapitulation des deutschen Katholizismus vor dem Hitlerregime und dass dieser versucht es zu leugnen.
Hans stellt die Außenseitefigur, die konfessionslos ist, aus und die auf keine politische Richtung festlegen werden kann.
Die Wahl Clown zu werden ist auf ein bestimmtes Ziel gerichtet: er will eine Ecke für sich ausschneiden, in der er beobachtet und analysiert, was er sieht und inszeniert es, um die Wirklichkeit zu kritisieren. Aber niemand kann ihn verstehen, weil die Heuchelei der Gesellschaft zu tief ist; auf diesem Grund bleibt er allein.
LA NASCITA DEL FUMETTO
Il fumetto nasce nel primo dopoguerra come nuova forma di espressione artistica e come fenomeno di costume di massa dall’idea di pubblicare, grazie alle nuove tecniche di stampa, supplementi domenicali dei quotidiani “New York American Journal” e “World” rivolti prevalentemente al pubblico infantile. Unendo immagini a testi scritti, si ottiene un prodotto di grande impatto visivo e di facile comprensione.
* I fumetti come espressione di società: I contesti in cui si svolgono le storie dei fumetti sono riconducibili alla vita quotidiana. Nel fumetto, la vita fa da sfondo e lo sfondo della vita è una visione personale dell'autore del contesto contemporaneo. I personaggi che vivono quelle vicende, siano essi umani o alieni, siano collocati nel futuro o nel passato, non sono altro che stereotipi che incarnano determinati valori. Ogni personaggio ha un proprio ruolo nella storia e lo rispetta: c'è l'eroe che combatte per la giustizia, il cattivo che cerca un profitto personale, l'amico pavido che per amicizia rischia persino la vita.
* I fumetti come propaganda politica ed ideologica: il fumetto oltre che per un bisogno di espressione più ampio, nasce anche come mezzo di divulgazione fra i più giovani. Infatti, è stato molto utilizzato dal fascismo per trasmettere il proprio pensiero tra i giovani e diffonderlo nella cultura del tempo, alimentando così il mito della figura del duce. Tramite il fumetto educava le nuove generazioni, manipolando allo stesso tempo l'educazione scolastica, ed italianizzava eroi mitici per far crescere lo spirito patriottico e il senso della giustizia, in modo da trasformare tutta la popolazione in potenziali soldati. Ancora oggi si usa spesso il fumetto come propaganda politica, basti vedere tutta la realtà su cui si appoggia la satira e si può capire che anche i fumetti per bambini cercano di trasmettere i valori fondamentali come l'amicizia, la famiglia, il rispetto.
Inoltre, se negli U.S.A. resta essenzialmente legato alla realtà sociale e di costume, in Cina il fumetto è considerato un patrimonio di massa, un mezzo fondamentale di alfabetizzazione e di indottrinamento politico.
LA STRUTTURA DEL FUMETTO
Il fumetto è costituito da una o più strisce (strips) all’interno delle quali si susseguono varie vignette separate da un margine bianco (closure).
I personaggi si esprimono attraverso nuvolette (ballons) collegate alla testa mediante un codino a tratto continuo, se si tratta di parole, o con una serie di cerchietti, se si tratta di pensieri. Non sono presenti né commenti né didascalie, ma soltanto espressioni onomatopeiche che trascrivono i rumori (Arf!, Boom!, Gasp!, Grr!)
Inizialmente le scene vengono disegnate a matita, ripassate con l’inchiostro e, infine, colorate a tempera o acquerello.
ROY LICHTENSTEIN
Roy Lichtenstein nasce a New York nel 1923 da una famiglia ebraica americana medio-borghese e muore nel 1997 in seguito ad una polmonite.
Profondamente influenzato dal cubismo e dall’informale, soltanto a partire dalla fine degli anni Cinquanta manifesta la propria propensione al pop e al fumetto, iniziando a disegnare piccole e buffe figure rappresentanti i personaggi di Walt Disney (Topolino, Paperino, Bugs Bunny). I suoi primi quadri raffiguranti i personaggi dei fumetti non vennero mai esposti pubblicamente, bensì distrutti o ridipinti. Se all’inizio risulta evidente la presenza della mano di un artista, dal 1961 Lichtenstein abbandona il linguaggio espressivo a favore delle tecniche di stampa industriali e inizia a sperimentare l’ingrandimento smisurato delle immagini.
Il primo quadro ad olio di grande formato, nel quale l’autore dipinse figure dai contorni ben definiti, realizzate con colori industriali e con i punti del retino era “Topolino, guarda!” Il quadro mostra Paperino che, avendo preso all’amo l’orlo inferiore della propria giacca, è in preda all’agitazione poiché pensa che un grosso pesce abbia abboccato. Topolino, resosi conto della realtà delle cose, avvicina la propria mano alla bocca per non scoppiare a ridere. Questo quadro dà inizio allo stile industriale dei fumetti stampati.
Dal 1961 Lichtenstein non si serve più dei personaggi di Disney in quanto gli sembrano troppo poco anonimi. Al loro posto subentrano immagini altrettanto banali: quelle degli annunci delle pagine gialle, le illustrazioni di articoli dei cataloghi di vendita per corrispondenza o fumetti con episodi d’amore o di guerra.
Il disegno originale viene proiettato sulla tela e ingigantito; le linee di contorno vengono ricalcate e poi ripassate con colori ad olio o con il magna (particolare smalto acrilico diluito in trementina) per ottenere la massima brillantezza, gli interni vengono colorati con campiture piatte e uniformi per annullare gli effetti chiaroscurali.
La creatività dell’artista scaturisce dal cambiamento degli spessori dei contorni, dei tratteggi e delle resinature tipografiche al fine di renderli del tutto irreali.
Nella tela intitolata “M-Maybe”, in cui viene rappresentato il volto di una ragazza, il colore roseo della pelle è reso attraverso l’uso della retinatura, grazie al quale i puntini rossi su sfondo bianco vengono percepiti dall’occhio dell’osservatore come se fossero già mescolati tra loro. Con questo procedimento tipografico di stampa a cavallo tra grafica, fotografia e pittura, mentre nelle dimensioni naturali di una striscia a fumetti la retinatura non si percepisce e appare un morbido colore rosa, nell’ingrandimento realizzato da Lichtenstein la trama dei puntini si sgrana, diventando un qualcosa di diverso, quasi astratto. I colori utilizzati sono pochissimi, tre o quattro al massimo oltre al nero, conformemente all’ideologia della società di massa in cui si sviluppa questo movimento.
In “Whaam!” la tecnica della campitura piatta si mescola a quella della retinatura per creare un effetto di maggior contrasto tra i soggetti e lo sfondo su cui sono rappresentati.

1
33
36

Esempio