Tiberio e Caio Sempronio Gracco

Materie:Riassunto
Categoria:Storia

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Testo

I GRACCHI

Tiberio Sempronio Gracco
Tribuno della plebe (162 circa 133 a.C.). Cresciuto con il fratello Caio in una famiglia che, nell'attività del padre e nell'opera educatrice della madre Cornelia figlia di Scipione l'Africano, continuava la tradizione di un illuminato riformismo, a diciassette anni partecipò alla presa di Cartagine e a venticinque, come questore in Spagna con il console Mancino, riuscì a ottenere la liberazione dell'esercito romano catturato dai Numantini, in base a un accordo respinto poi dal senato. Da allora incominciò la sua attività politica, con un programma che si fondava sulle teorie socialistiche di Blossio di Cuma e di Diofane di Mitilene, non meno che sulla esperienza personale della miseria delle campagne d'ltalia, sulla convinzione che le sorti dello Stato dipendevano dalla ricostituzione della piccola proprietà e della classe media contadina e dal ripristino del potere del popolo. Eletto tribuno nel 133, propose una riforma agraria (Lex Sempronia I) che, ricollegandosi alle leggi Liciniae-Sextiae, disponeva che i possessori dell'agro pubblico consegnassero soltanto cinquecento iugeri per sé e duecentocinquanta per ogni figlio maschio (fino a un totale di 1.000 iugeri) che il resto venisse distribuito fra i nullatenenti in porzioni di trenta iugeri, sotto il controllo di una commissione di triumviri, e che per le migliorie dei poderi vi fosse un corrispondente indennizzo. Il senato rifiutò e allora Tiberio presentò la proposta ai comizi tributi; quivi un tribuno, Ottavio, guadagnato alla causa degli oligarchi, pose il veto e allora Tiberio ne fece votare la destituzione dall'assemblea stessa come organo popolare sovrano, con la conseguenza dell'approvazione immediata della legge. Per la sua attuazione si associò il fratello Caio e il suocero Appio Claudio e, quando si trovò nella necessità di reperire i fondi per le aziende agricole dei nuovi piccoli proprietari, non esitò a chiedere all'assemblea tributa di usare per tale scopo i beni lasciati in eredità al popolo romano da Attalo III. La richiesta suscitò una violenta opposizione, che si accrebbe quando egli, nel timore che allo scadere della carica, la riforma venisse inceppata, pretese, contro la consuetudine, di essere rieletto tribuno per l'anno successivo. Fu conveniente allora per gli avversari credere e far credere che egli mirasse alla tirannide. Il senato non emise contro di lui provvedimenti di emergenza, ma nel giorno delle elezioni un gruppo di nobili, capitanati da Scipione Nasica, si scontrarono con lui e con i suoi partigiani prima nel Foro e poi sul Campidoglio. Nella zuffa che seguì egli rimase ucciso con trecento seguaci e il suo corpo fu gettato nel Tevere. Tiberio Gracco, oggetto nel tempo ora di recriminazioni, ora di esaltazioni, per noi resta, al di sopra degli errori di procedura e di calcolo, I'uomo generoso e sensibile che nell'attuazione di una maggior giustizia sociale e nella libera sovranità del popolo fissò i principi che avrebbero potuto salvare dal dispotismo la repubblica romana.


Caio Sempronio Gracco
Tribuno della plebe, fratello del precedente (154 circa 121 a.C.). Oratore brillante, educato anch'egli secondo i principi liberali della tradizione familiare, continuò l'opera riformatrice del fratello Tiberio con maggior concretezza e più ampia visione dei problemi. Membro del triumvirato per l'attuazione della Lex Sempronia I, nel 126 venne inviato come questore in Sardegna, donde nel 124 a.C. ritornò di sua iniziativa a Roma con l'intento di conseguire il tribunato, che ottenne per il 123 e poi per il 122. I due tribunati furono densi di una attività legislativa che mirava ad abbattere il predominio dei nobili con l'inserire nello Stato le forze popolari la classe dei cavalieri e gli Italici e a risolvere la crisi economica e sociale con la deduzione di colonie, l'assistenza pubblica e l'intrapresa di grandi lavori stradali. Ancora sotto lo stimolo di vendicare il fratello, ottenne con due plebisciti l'esclusione perenne dalle altre cariche dei magistrati destituiti e l'invalidità delle condanne senza l'appello al popolo, con una legge agraria (Lex Sempronia II) la continuità dell'assegnazione dell'agro pubblico; con una frumentaria la vendita sottocosto del grano ai nullatenenti e con quella de coloniis deducendis lo sfollamento dalla capitale dei proletari e dalle campagne dei braccianti disoccupati, mediante la fondazione di colonie. Ad accrescere l'importanza economico-politica dei cavalieri provvide con la concessione in appalto del tributo della provincia d'Asia e con la loro immissione nelle giurie dei tribunali permanenti che trattavano soprattutto cause di concussione, in numero doppio dei senatori (secondo Livio). Con la determinazione della procedura nelle elezioni dei comizi tributi e nella assegnazione delle province l'opera rivoluzionaria poteva dirsi compiuta. Mancava la riforma più ardita, cioè la concessione della cittadinanza agli Italici. Caio nel maggio del 122 ne fece la proposta (cittadinanza romana ai Latini e latina agli Italici) e fu la sua rovina. L'opposizione al suo disegno di legge trovò concordi il senato, la maggior parte dei cavalieri e pressoché tutta la plebe egoisticamente gelosa dei propri privilegi. I nobili gli suscitarono contro il collega Livio Druso che praticava la politica demagogica delle grandi promesse e il triumviro Papirio Carbone che proclamava opera invisa agli dei la deduzione di una colonia a Cartagine Caio perse molta della sua popolarità e non fu rieletto quando pose la candidatura per un terzo tribunato. Ilgiorno poi in cui si presentò in Campidoglio per difendere dinanzi all'assemblea del popolo la relativa legge scoppiò un grave tumulto tra le parti avverse. Il senato proclamò allora lo stato di emergenza (senatus consultum ultimum) mentre Caio si ritirava con i suoi fedeli sull'Aventino dove, attaccato dalle truppe del console Opimio, come si vide sopraffatto fuggì al di là del Tevere e, secondo la tradizione più accreditata, si fece uccidere da un servo nel bosco delle Furie. Con lui perirono, vittime di una repressione feroce circa tremila cittadini. Riabilitato dalla critica storica moderna, Caio Gracco ci appare uno dei politici più lucidi e originali del mondo romano, che seppe cogliere con chiarezza i gravi problemi della società del tempo e indicarne la soluzione, con audacia non disgiunta da moderazione, in riforme concrete e attuabili. Ebbe la sorte degli uomini superiori ai loro tempi e incompresi da quelli stessi per cui operano.

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