Riassunti sulla storia d'italia

Materie:Riassunto
Categoria:Storia

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Testo

Le premesse della politica estera del regno
Che appartenessero alla "Destra Storica" oppure alla "Sinistra ", gli uomini politici del Regno d'Italia avevano una quasi completa identità di vedute in materia di politica estera. La cosa non deve sorprendere, perché la politica estera del regno era legata a fatti dai quali non era possibile prescindere:
a. L'Austria, tradizionalmente nemica dell'Italia, occupava ancora Venezia, Trento, Trieste e altro territorio "italiano"
b. I paesi europei vedevano con simpatia l'Italia e, badando ciascuno ai propri interessi, avevano favorito la sua costituzione in monarchia nazionale. Il comportamento dell'Inghilterra è illuminante.
Quando la regina Vittoria lo accusò di nutrire simpatie per "questo governo sardo veramente malvagio e privo di scrupoli", lord Russell rispose che "o l'Italia sarebbe diventata italiana oppure sarebbe tornata ad essere francese o austriaca". Gli statisti inglesi erano molto soddisfatti che "un'altra Prussia sia comparsa nell'Europa meridonale, cosa questa che con ogni probabilità rappresenterà un'ulteriore garanzia dell'equilibrio tra le potenze" (naturalmente a tutto vantaggio dell'Inghilterra, possiamo aggiungere).
La simpatia dell'Europa aveva indubbiamente avvantaggiato l'Italia, aveva però anche generato, negli uomini di governo, due convinzioni infondate: che l'Italia fosse un paese forte; che l'Italia avrebbe continuato a godere dei favori delle grandi potenze europee.
La politica estera della Destra: 1861-1875
Nel decennio 1861-1870 obiettivi della politica estera dei governi furono:
a. il compimento dell'unità;
b. il consolidamento del nuovo organismo statale, impedendo che le forze, interne ed esterne, contrarie all'unità e all'indipendenza, battute diplomaticametne e militarmente nel biennio 1859-60, trovassero in una o più potenze europee appoggi sufficienti per muovere guerra al nuovo stato.
Il primo obiettivo fu raggiunto nel 1866 e nel 1870.
Le annessioni del Veneto e del Lazio diedero all'Italia un duplice vantaggio:
1. fu quasi completata l'unificazione territoriale
2. crebbe la sicurezza militare essendo stati cacciati gli austriaci dal Quadrilatero e i francesi da Roma.
Restavano ancora aperta la questione di Trento e Trieste e soprattutto la Questione Romana, che la presa di Roma e la successiva Legge delle Guarantigie non avevano risolto ma era indubbiamente un grosso passo avanti.
Per realizzare l'obiettivo del consolidamento, occorreva innanzitutto inserire il nuovo stato nel sistema europeo. I governanti della Destra, consapevoli che i riconoscimenti formali del Regno d'Italia (le maggiori potenze europee lo riconobbero tra il 1861 e il 1862, con la sola eccezione dell'Austria che lo farà solamente nel 1866) fossero sì importanti ma non decisivi, si sforzarono di presentare al mondo il nuovo stato come un elemento di conservazione e di stabilità a fronte dell'istanza "rivoluzionaria" delle froze democratiche favorevoli all'iniziativa popolare.
Emilio Visconti-Venosta che nei quindici anni del governo della Destra Storica fu a più riprese minsitro degli esteri (complessivamente per otto anni e mezzo) nel 1863, il 26 marzo, intervenendo alla Camera, dichiarava che l'Italia cercava il suo posto tra Inghilterra e Francia, cioè "fra le due potenze il cui accordo è necessario al progresso e alla libertà d'Europa. Se io dovessi trovare una divisa a questa politica, direi: indipendenti sempre, isolati mai".
In verità una tale politica, che mirava ad evitare che l'alleanza con la Francia si trasformasse in protettorato, non fu possibile, a causa del disinteresse del governo inglese, in quegli anni, per la politica continentale. Effettivamente, il nuovo regno si ritrovò in una condizione di semivassallaggio all'impero di Napoleone III; una dipendenza che si estese anche all'economia in un rapporto di sostanziale subordinazione.
La politica estera nel primo decennio unitario si propose anche di:
* far conoscere al mondo l'esistenza del nuovo stato
* stabilire relazioni commerciali, diplomatiche e cnosolari con gli stati di tutti i continenti
* di tutelare le comunità di italiani stabilitisi oltremare e oltreoceano
* promuovere iniziative di penetrazione economica innanzitutto nell'area del Mediterraneo.
In questa direzione i governi operarono davvero bene: 24 trattati commerciali con quasi tutti gli stati europei e dell'America latina, con alcuni paesi asiatici (Persia, Cina, Giappone, Siam); convenzioni postali e telegrafiche; accordi consolari; relazioni diplomatiche con quasi tutti gli stati del mondo.
Tra il 1867 e il 1870 cominciò a manifestarsi un interesse crescente per un'espansione coloniale nella vicina Africa. Non è certo, ma non è azzardato considerare anche questo fenomeno una conseguenza della guerra del 1866: gli italiani si erano convinti, nonostante le sconfitte in terra e in mare, di essere ormai una grande potenza e incominciarono a pretendere una politica estera più combattiva. Uomini politici tra i più influenti cominciarono a recriminare pubblicamente che all'Italia non fossero riconosciuti il rispetto e i "diritti" dovuti. La pazienza e la lungimiranza di Cavour furono sostituiti dall'avventatezza e dall'impazienza. Vittorio Emanuele, seguito a ruota dall'erede al trono Umberto e dalla di lui moglie Margherita, affermò solennemente che l'Italia non doveva soltanto essere rispettata ma doveva farsi temere.
Il nuovo corso della politica estera avrebbe richiesto un prezzo alto.
* Gli alleati di un tempo divennero restii ad appoggiare un paese che si proponeva, ora, di affermarsi come grande potenza.
* Le spese militari impegnarono una parte sempre crescente del reddito nazionale di un paese che si credeva ricco e forte ma non lo era.
Nel 1900 il 21% delle spese dello stato italiano era destinato alle forze armate, contro il 17% in Germania; il 33% del bilancio era assorbito dal debito pubblico, contro il 20% della Germania; il reddito nazionale era appena un terzo di quello della Francia. Eppure a nulla valse che uomini politici più accorti e lo stesso Garibaldi invitassero a ridurre le spese per gli armamenti (Garibaldi sosteneva anche che l'esercito rubava troppe braccia ai campi e per ciò stesso indeboliva l'Italia, facendola dipendere dall'estero per il fabbisogno alimentare); il generale Cialdini giunse a dimettersi in segno di protesta contro le economie effettuate nelle spese militari (per lui si trattava di un monumento d'incompetenza politica).
Gli avvenimenti del 1870-1871 modificarono le linee generali della politica estera della Destra: la caduta di Napoleone rese possibile l'annessione di Roma e liberò l'Italia dal semi vassallaggio alla Francia.
La presa di Roma non fu avversata ma nemmeno fu approvata. Le grandi potenze non decisero alcuna sanzione internazionale ma l'Italia rischiava di essere isolata, tanto più che nell'Assemblea Nazionale francese prevalsero dal 1871 al 1875 monarchici e clericali, i quali intendevano "far pagare" all'Italia la neutralità del 1870. Così scriveva il Visconti-Venosta nel 1871:
... la caduta dell'Impero, i rifiuti alle domande di alleanza fatteci ripetutamente dalla Francia, hanno mutata l'antica e conosciuta base delle nostre alleanze; la neutralità ha risparmiato all'Italia le più grandi sciagure ma, come sempre avviene, alla neutralità succede uno stato di isolamento; di più, al ritorno dell'Europa nelle condizioni normali, noi ci troviamo impegnati in una gravissima quistione, nella quistione romana che tocca a tanti interessi ed a tanti sentimenti, che solleva tanti nemici all'Italia e che è ormai diventata per noi una quistione di esistenza nazionale e nella quale non possiamo a qualunque costo indietreggiare... L'Italia è un paese la cui più grande aspirazione è la sicurezza e la pace; essa ne ha bisogno, dopo le sue lunghe agitazioni, per costituire le sue forze politiche, sociali ed economiche, e nei pochi anni che decorsero, dopo la liberazione del Veneto, fu grandissima l'operosità che cominciò a manifestarsi e lo svolgimento della ricchezza pubblica e del progresso sociale. Roma unita all'Italia è l'ultima tappa del nostro faticoso viaggio. L'Italia che ha dovuto affrontare la quistione romana, sente che nello stato attuale delle cose, questa quistione è un elemento d incertezza nel suo avvenire. Essa è inquieta per l'avvenire dei rapporti con la Francia offesa dalla nostra neutralità e dove gli avvenimenti portano al potere i partiti che ci furono sempre avversi nella quistione di Roma. Uscire da questa incertezza, assicurare la situazione dell'Italia contro i possibili pericoli esterni che ci possono venire dalla quistione romana, ecco l'intento comune del nostro paese, il programma di qualunque governo ed il criterio supremo della nostra politica estera.
Al governo italiano rimaneva una sola via aperta, quella dell'avvicinamento all'Austria e alla Germania, e quella via seguì seppure con prudenza. Temendo una reazione ostile della Francia, soprattutto Visconti-Venosta si oppose ad una vera e propria alleanza con la Germania, come chiedeva Bismarck, vedendo l'amicizia italio-tedesca piuttosto come un "avvertimento" e un freno per la Francia. La politica di Visconti-Venosta ebbe successo, tanto che il governo transalpino attenuò la sua ostilità a proposito della questione romana.
Non piacque invece a Bismarck, il quale vedeva nell'Italia una pedina da impiegare in una guerra, più minacciata che combattuta, contro una Francia che si stava rapidamente riprendendo dalla sconfitta del 1870.
Quando l’Inghilterra e la Russia premettero su Bismarck perché frenasse le sue velleità bellicose, anche l'Italia si schierò a favore della pace. Così spiegava le "ragioni italiane" il Visconti-Venosta, ministro degli esteri:
Io sono convinto che, se scoppiasse una nuova guerra tra la Germania e la Francia, l'esito di questa guerra, qualunque esso fosse, riuscirebbe sempre dannoso e pericoloso per l'Italia. Se la Francia, il che non è punto probabile, vincesse, l'Italia si troverebbe subito posta in una situazione delle più pericolose ed incerte. Se, come è invece quasi certo, la Germania schiaccia di nuovo la Francia, le bisognerebbe far qualcosa, per cui si credesse di averla per sempre finita, smembrarla, creare qualcuna delle combinazioni eccessive, non naturali e quindi anche effimere, che ricorderebbero quelle con cui Napoleone I faceva e disfaceva le sue paci. Ne verrebbe fuori probabilmente un'Europa di cui l'Occidente apparterrebbe alla Germania e l'Oriente alla Russia. Ora io credo che l'Italia è uno di quei paesi che non possono farsi il loro posto e svolgere il proprio avvenire che in un'Europa dove esista un certo equilibrio.
L'obiettivo primo della politica estera della Destra negli ultimi cinque anni del suo governo fu di assicurare all'Italia un periodo di tranquillità abbastanza lungo per occuparsi delle questioni interne. Una politica prudente, ispirata all'idea tradizionale dell'equilibrio delle potenze come condizione necessaria per il mantenimento della pace e alla convinzione che l'Italia avesse più da perdere che da guadagnare da una guerra tra le maggiori potenze. Inoltre una politica di basso profilo consentiva di ridurre le spese militari con vantaggio dello sviluppo economico di un paese che rimaneva pur sempre arretrato e povero.
La politica estera del Visconti-Venosta, niente affatto avventurosa e poco affascinante, ebbe numerosi avversari. Le accuse principali furono che essa implicava la rinuncia alle aspirazioni su Trento e Trieste e non offriva prospettive di sviluppo alla aspirazioni colonialistiche.
Ma l'opposizione si fece sentire particolarmente quando, nell'estate del 1875, il governo ritenne di non essere sufficientemente forte per approfittare della rivolta dell'Erzegovina e della successiva riapertura della questione d'Oriente: si doveva, invece, per l'opposizione, dar corso all'idea, che era stata esposta da Balbo trent'anni prima, di favorire l'espansione austriaca nei Balcani in cambio della rinuncia ai territori italiani.
L'alleanza con la Prussia
e l'annessione del Veneto
Fedele alla politica di Cavour, la Destra operò per risolvere diplomaticamente le due "questioni" territoriali rimaste insolute: l'annessione al Regno di Venezia, di Trento e di Trieste, e ancor di più Roma, acclamata dal Parlamento italiano capitale naturale, morale e culturale del nuovo regno.
Il Partito d'azione premeva per una azione immediata contro l'Austria, incurante delle complicazioni internazionali che sarebbero nate da un gesto di forza dell'Italia, il governo, allora guidato da La Marmora, seppe resistere alle pressioni dell'opinione pubblica e, più cautamente, aspettò il momento favorevole. Nel 1865 furono avviate trattative riservate con l'Austria e, nello stesso tempo, con la Prussia per una eventuale alleanza antiaustriaca.
Veniva creandosi, in Europa, una situazione favorevole, grazie alla Prussia, dove il giovane e ambizioso kaiser Guglielmo I, affiancato dall'abilissimo e altrettanto ambizioso Otto von Bismarck, inaugurò una politica di unificazione della nazione tedesca. In concreto si trattava di annettere al Regno di Prussia i 39 stati della Confederazione germanica; un progetto irrealizzabile se prima non fosse stata sconfitta l'Austria che per diritto presiedeva la Confederazione.
Nel 1866 la Prussia, dopo essersi assicurata la neutralità della Francia (alla quale promise ingrandimenti territoriali nel Belgio e nel Lussemburgo) e della Russia, propose all'Italia un patto vantaggioso: l'esercito prussiano avrebbe attaccato l'Austria da nord per strapparle la Confederazione germanica, intanto l'esercito italiano avrebbe attaccato da sud impadronendosi del Veneto. Vittorio Emanuele si affrettò ad accettarlo (aprile 1866).
L'Austria, venuta a conoscenza delle trattative intervenne segretamente a offrire all'Italia il Veneto in cambuio della neutralità. Il governo La Marmora rifiutò, si dice per ragioni d'onotre, essendosi già impegnato con la Prussia, in realtà perché sperava, vincendo la guerra, di annettersi anche il Trentino.
Quello stesso anno fu combattuta una guerra (per glii taliani fu la terza guerra di indipendenza) che si concluse in appena tre settimane con la schiacciante vittoria prussiana a Sadowa. Le cose andarono meno bene sul fronte meridionale: l'esercito italiano, 400.000 uomini guidati dal generale Cialdini e dallo stesso La Marmora che aveva preferito affidare il governo a Ricasoli per assumere il comando delle operazioni militari, fu sconfitto nella battaglia di Custoza e la marina nella battaglia di Lissa (la flotta italiana era il doppio di quella austriaca!). L'onore delle armi italiane fu riscattato dai volontari di Garibaldi, i "Cacciatori delle Alpi", i quali sconfissero ripetutamente gli austriaci e furono fermati dall'alto comando quando avevano ormai spianato la strada per Vienna (è il noto episodio dell'«obbedisco» con il quale dopo la vittoria di Bezzecca, Garibladi, seppure a malincuore, accettava di deporre le armi).
Nonostante il disastro militare, l'Italia ottenne dall'Austria (pace di Vienna) il Veneto. In verità la cessione fu "umiliante": Francesco Giuseppe cedette il Veneto non all'Italia, sconfitta in battaglia, bensì a Napoeone III, ma l'obiettivo era raggiunto. La "vittoria" fu seguita da un notevole strascico di polemiche, rivolte innanzitutto alla monarchia, ancora una volta dimostratasi impreparata e incapace a dirigere le operazioni militari, in secondo luogo ai vertici delle forze armate, allo stato maggiore dell'esercito e della marina, il quale si era rivelato inetto e incompetente.
La Marmora al comando del grosso dell'esercito aveva attaccato frontalmente il Quadrilatero mentre Cialdini stazionava lungo il corso inferiore del Po, da dove intendeva minacciare il fianco sinistro dello schieramento austriaco. Il 24 giugno il generale La Marmora si scontrò a Custoza con gli Austriaci: fu uno scontro modesto ma gli italiani ne uscirono sconfitti e persero 750 uomini. La Marmora si ritirò precipitosamente sulla riva destra del Mincio, come se avesse subito una pesantissima sconfitta. Intanto Cialdini, invece d iattaccare da sud, si ritirava senza combattere verso Modena. Le cose non andarono meglio a Lissa dove l'ammiraglio Persano subì la più umiliante delle sconfitte.
Si legga anche: La III guerra di indipendenza

La politica estera della Sinistra: 1876-1882
Gli uomini della Sinistra avevano più volte accusato, tra il 1871 e il 1875, i governi della Destra di eccessiva arrendevolezza al papa e di servilismo al governo clericale francese. Tra loro non mancavano gli ammiratori di Bismarck e del suo Kulturkampf (la campagna contro la Chiesa cattolica combatutta dal cancelliere tedesco nel 1872). Quando andò al governo, la Sinistra si diede come obiettivo irrinunciabile la riunificazione all'Italia delle terre "irredente" e non nascose un forte sentimento antiaustriaco.
Nei primi anni la politica estera della Sinistra non fu tuttavia dissimile da quella della Destra, anche per volontà del re al quale spettava di diritto la supervisione della politica estera; il ministro degli esteri era normalmente scelto dal re, il quale aveva comunque il potere di condurre una politica estera personale corrispondendo con gli ambasciatori all'insaputa dei ministri. Poiché la diplomazia era saldamente controllata dalla monarchia, Depretis dovette ben presto integrare l'azione della diplomazia ufficiale con missioni ufficiose affidate ad esponenti di primo piano della Sinistra, Crispi e Farini su tutti.
L'influenza di Crispi doveva dimostrarsi disastrosa. Secondo molti contemporanei e studiosi, egli apparteneva ad una nuova generazione di avvocati politicanti, presuntuosi, intolleranti, il cui modo di ragionare era spesso più giuridico che politico. Della generazione precedente, dei Minghetti e degli altri esponenti della Destra Storica, non avevano né lo spesore culturale né la visone europea della politica estera.
Anche prima di andare il governo, Crispi aveva cercato di spingere il governo della Sinistra verso una politica estera aggressiva. Nel 1877 sosteneva, con Depretis, la necessità che l'Italia si mostrasse forte agli occhi delle potenze europee e che completasse ad ogni costo l'armamento del paese. In questo l'uomo politico siciliano trovò una sponda autorevole nella monarchia sabauda. Dopo una conversazione con Vittorio Emanuele, Crispi poteva scrivere al prudente Presidente del Consiglio che il re voleva coronare l'opera della sua vita con una vittoria che desse all'esercito italiano il prestigio di cui mancava agli occhi del mondo.
Non fu fortunato. Dopo la vittoria del 1866 sull'Austria e del 1870 sulla Francia, Bismarck aveva deciso di mettersi al fianco dell'Austria-Ungheria. Non potendo spingere la Germania contro l'Austria o la Francia contro la Germania, l'Italia si ritrovò isolata al Congresso di Berlino del 1878. Già l'essere stata invitata come grande potenza avrebbe dovuto far considerare un successo la partecipazione al Congresso; in realtà l'opinione pubblica accusò il Presdiente del Consiglio, cairoli, di non aver difeso adeguatamente gli "interessi nazionali".
Quando nel 1881 Parigi occupò Tunisi ignorando le aspirazioni dell'Italia su di un territorio in cui essa aveva forti interessi economici, il governo italiano decise d ismettere una politica estera che si poteva vantare di essere "netta" (le "mani nette" di Cairoli) ma non assecondava le velleità di potenza di grandissima parte dell'opinione pubblica. Nel 1882 Depretis, tornato in carica da poco, dimenticando la storica inimicizia con l'Austria, accettò la proposta di Bismarck di un'alleanza con l'Austria-Ungheria e la Germania, nota come Triplice Alleanza.

Il Congresso di Berlino
Uno dei limiti della politica italiana, di quella estera in particolare, era che nessun governo rimaneva in carica abbastanza a lungo per elaborare una propria politica: dal 1861 al 1881 l'Italia ebbe 19 ministri degli esteri!
Quando le potenze europee si riunirono a Congresso a Berlino nel 1878, Presidente del Consiglio era Cairoli e ministro degli esteri, il conte Corti, il quale rimase in carica appena sei mesi. Corti arrivò al Congresso assolutamente impreparato, non avendo conoscenza alcuna dei problemi lì in discussione.
Tutti ottennero qualcosa:
* l'Austria un protettorato sulla Bosnia e l'Erzegovina
* la Gran Bretagna Cipro
* la Francia il riconoscimento delle sue rivendicazioni sui territori del nordafrica
L'Italia dovette accontentarsi dello scherno: quando il rappresentante italiano fece un vago tentativo per ottenere all'Italia il Trentino (a titolo di compensazione per l'espansione di fatto della monarchia asburgica nei Balcani) Gorciakov osservò (con un chiaro riferimento alla guerra del '66) che l'Italia doveva aver perduto un'altra battaglia se chiedeva di annettersi un'altra provincia
oppure di vaghe promesse e incoraggiamenti, quelli di Bismarck che suggeriva di cercare compensi in Albania (o a Tunisi, come provocatoriamente propose il rappresentante della Gran Bretagna).
Cairoli, dal passato limpidissimo, forse troppo idealista e troppo poco diplomatico, non volle saperne di cercare "compensi" in trattative segrete. La sua politica delle "mani nette" gli faceva certamente onore ma non gli valse i consensi dell'opinione pubblica italiana che gli rimproverò di non aver saputo difendere gli "interessi nazionali".
In verità l'Italia aveva conseguito un gande successo: per la prima volta aveva partecipato ad un Congresso come grande potenza riconosciuta; ma questa novità non fu compresa da quanti si erano illusi che le maggiori spese militari avrebbero aperto la strada verso grandi e facili vittorie. La convinzione di aver subito un rovescio diplomatico (tesi sostenuta con particolare foga da Crispi) fu rafforzata nel 1881 quando i francesi occuparono Tunisi, pur sapendo che l'Italia nutriva qualche aspirazione sui territori tunisini.
Isolata in Europa, l'Italia abbandonò una politica estera di disimpegno e lontana da ogni avventurismo e si legò a Bismarck: nel maggio del 1882 diventava membro di secondo piano della Triplice Alleanza.
Le imprese coloniali dal 1861 al 1882
Per molti anni il Regno d'Italia non ebbe una politica coloniale vera e propria. L'attività precedente i governi della Sinistra si era limitata ad alcune trattative con il Portogallo per avere concessioni in Angola e in Mozambico, con l'Inghilterra per le lontane Isole Falkland e una base in Nigeria, con la Danimarca e la Russia. Di fatto l'inziativa coloniale italiana si ridusse alle esplorazioni e alle missioni da una parte, alla fondazione di una Società per l'Africa (Napoli, 1867) dall'altra.
L'apertura di Suez suggerì a Cavour di avviare una politica maggiormente attiva ma non si andò oltre la partecipazione degli operai italiani ai lavori di scavo e un limitato traffico navale: nel 1870 il tonnellagio italiano che attraversò il canale rappresentava appena l'1,3 % del totale; nel 1901 le navi italiane che passarono attraverso il canale furono 101 su un totale di circa 3000.
In verità in Italia non c'erano i presupposti di una politica di espansione coloniale (si deve all'azione dei missionari se furono stabilite stazioni commerciali e di rifornimento nel Mar Rosso). L'industria nazionale non aveva bisogno di nuovi mercati, dal momento che non riusciva a coprire nemmeno tutta la richiesta del mercato interno: l'Italia non aveva bisogno né di nuovi mercati né di sbocchi per investire all'estero il surplus di profitti. Altrove il colonialismo traeva origine dalla ricchezza, in Italia nasceva dalla miseria e dalla convinzione che esso potesse essere un rapido mezzo di arricchimento.
Più che al Mar Rosso (Assab) i governanti italiani guardavano alla Tunisia, molto più vicina. Nel tempo vi si erano trasferiti molti sicialiani, tanto che nel 1864 in un dibattito parlamentare un deputato la definì una parte dell'Italia. Nello stesso 1864 fu proposto al governo italiano di spartirsi la Tunisia con la Francia. La risposta fu dapprima positiva, poi, pensando alle spese che stava allora sostenendo la Francia in Algeria, Visconti-Venosta convinse il governo a fare marcia indietro. Alla guerra e alla occupazione militare egli preferì la penetrazione economica: nel 1869 l'Italia firmava un trattato con il bey di Tunisi, al quale fecero seguito tentativi di ottenere diritti di pesca e di coltivazione di tabacco.
Nel 1876 si presentò una nuova occasione. Per allentare i rapporti tra la Francia e l'Italia, ma anche per evitare che questa rivendicasse il Trentino in cambio dell'espansione asburgica nei Balcani, l'Austria propose al governo italiano di mettere la Tunisia sotto il suo protettorato. Lo stesso fecero nel 1877 Inghilterra e Russia, probabilmente a titolo di compensazione per la loro futura politica di smembramento dell'impero ottomano. Difficilmente si sarebbe presentata un'occasione altrettanto ghiotta ma allora il governo italiano era interessato più all'occupazione del Trentino e di Trieste che non a costose imprese coloniali.
Nel 1878 i giochi erano fatti senza l'Italia. Austria, Russia, Inghilterra e Gemania si riconciliarono con la Francia e acconsentirono al progetto dei francesi di occupare di fatto la Tunisia. Quando nel 1881, approfittando di alcuni incidenti verificatisi alla frontiera fra la Tunisia e l'Algeria, il governo francese impose al bey di Tunisi il riconoscimento delle sue rivendicazioni, Cairoli protestò ma dovette accontentarsi delle dichiarazioni che non era intenzione della Francia procedere ad una occupazione militare della Tunisia. Né cambiava la realtà delle cose il fatto che il protettorato francese su Tunisi fosse riconosciuto ufficialmente solamente nel 1896.
L'altro paese dell'Africa settentrionale in cui esistevano rilevanti interessi economici italiani era l'Egitto. Ma anche qui la politica italiana fallì: nel 1882 l'Egitto entrava nell'orbita dell'Inghilterra. Eppure ancora una volta all'Italia era stata offerta la possibilità di intervenire assieme e dunque di spartirsi, di fatto, il protettorato sul paese nordafricano. Alla proposta inglese di intervenire assieme militarmente, il ministro degli esteri Mancini aveva risposto che l'Italia non aveva né le truppe né i capitali necessari alla spedizione.
Per vent'anni l'Italia, il paese che più di ogni altro era interessato, era rimasta in disparte a guardare come l'equilibrio nel Mediterraneo venisse modificato a suo danno. Dopo il 1882 l'opinione pubblica cominciò a premere per una politica coloniale più attiva e aggressiva e trovò una classe politica pronta ad assecondarla.

La Triplice Alleanza
Isolata, in Europa, sul piano diplomatico, impotente a contrastare la Francia e l'Austria-Ungheria, l'Italia si unì alla Germania di Bismarck e all'Austria sua alleata. Il governo italiano era convinto che « tra l'Italia e l'Austria le uniche relazioni possibili erano l’alleanza o la guerra », pertanto aveva deciso di garantirsi alle spalle (in cambio della momentanea rinuncia alla "redenzione" di Trento e di Trieste, il governo cattolico della cattolica Austria si impegnava a non sostenere alcun tentativo di restaurazione dell'auitorità papale su Roma) mentre cercava di procurarsi possedimenti coloniali.
Un secondo motivo che spingeva il ministero Depretis verso l'Alleanza era anche un desiderio di vendicare lo sgarbo subito dalla Francia (occupazione di Tunisi), anche a costo di sconvolgere l'equilibrio europeo. In questo senso si mosse principalmente la Sinistra, impegnata a rinsaldare la sua maggioranza parlamentare che era stata scossa dallo scacco subito dalla Francia. Poichè l'Italia, era convinzione comune, non poteva rimanere isolata diplomaticamente, l'alleato più "naturale" parve la Germania, alla Sinistra in chiave antifrancese, al re perché era monarchica e militarista.
Per Depretis la Triplice Alleanza (testo) fu una scelta di ripiego. L'adesione era stata così riluttante che il governo ne tenne celata a lungo l'esistenza (per non allarmare la Francia). La notizia ufficiale del trattato fu data solamente alcuni anni più tardi e il suo testo fu pubblicato addirittura nel secolo successivo.
Il patto era in sostanza una garanzia contro un'eventuale aggressione da parte della Francia: i contraenti si impegnavano a prestare aiuto militare a chi di essi fosse attaccato, senza colpa, da terze potenze; nel caso uno di essi fosse costretto ad intraprendere una guerra offensiva gli altri sarebbero rimasti benevolmente neutrali. Un articolo, il 7, fu inserito per regolare i rapporti tra Italia e Austria-Ungheria, impegnando i firmatari ad impedire ogni mutamento territoriale che potesse danneggiare una delle potenze firmatarie. Inoltre, qualora l'una o l'altra fosse costretta ad alterare lo status quo nei Balcani mediante un'occupazione temporanea o permanente, avrebbe dovuto compensare l'alleata con vantaggi territoriali. Un'ultima clausola stabiliva espressamente che l'Alleanza non era diretta contro la Gran Bretagna.
E' chiaro chi fosse il reale beneficiario del patto: la Germania che si garantiva l'aiuto militare dell'Italia nel caso, non improbabile, la Francia tentasse di riconquistare l'Alsazia-Lorena. Che la Francia potesse pensare di invadere l'Italia era inimmaginabile più che improbabile, salvo, forse, che per Crispi. In cambio di nessun vantaggio concreto, l'Italia rinunciava ad ogni progetto di occupazione del Trentino e di Trieste. Inoltre, lungi dal garantire la pace, la firma della Triplice Alleanza provocò un aumento della tensione internazionale e accrebbe le spese militari. L'ossessione militaristica della corte e le manie di prestigio di Crispi fecero il resto: il contribuente italiano fu chiamato a sostenere spese crescenti per fare dell'esercito italiano un esercito all'altezza della portentosa macchina da guerra prussiana.
Il prezzo più alto, pagato dall'Italia firmando il patto della Triplice Alleanza (confermato d'altronde dalla riottositrà del governo a divulgare la firma del patto), fu la rinuncia a quella libertà d'azione che aveva favorito la sua unificazione, quando i governi avevano potuto sfruttare a proprio vantaggio i conflitti tra le grandi potenze europee, alleandosi ora all'una ora all'altra oppure avvantaggiandosi con la semplice neutralità. L'Italia alleata a Bismarck il prussiano non godette più della simpatia delle altre nazioni.
Il solo vantaggio concreto che l'Italia ricavò dalla firma del trattato fu di essere considerata una grande potenza; un vantaggio che di lì a poco si sarebbe rivelato piuttosto uno svantaggio perché, alterando il senso della misura, avrebbe spinto i futuri governi ad una politica aggressiva di conquista, dissennata e dispendiosa.
L'occupazione di Massaua (1884)
La politica di Mancini, ministro degli esteri, e dell'intero governo rimase a lungo ancorata ad una conservazione dello status quo nel Mediterraneo. Lo fu anche nell'aprile del 1884, quando il governo francese, prendendo a pretesto incursioni di nomadi in Algeria, pretese dal re del Marocco una revisione del confine algerino-marocchino. Al di là di ogni spiegazione, apparve chiaro a tutti l'intenzione francese di iniziare la conquista del Marocco. Perciò fu facile al Mancini ottenere che Inghilterra e Spagna si associassero ad una decisa opposizione al progetto francese.
Per vincere l'ostilità italiana, l'11 maggio il governo francese fece sapere a Roma che non si sarebbe opposto ad un'eventuale occupazione italiana di Tripoli. Questa volta il governo italiano decise di sfruttare l'opportunità che gli veniva offerta: il nuovo ministro della guerra, il generale Ricotti Magnani, fu incaricato di allestire un corpo di spedizione di 30.000 uomini, destinato a sbarcare a Tripoli e Bengasi. Non se ne fece nulla, perché nel dicembre dello stesso anno la Francia rinunciò all'impresa marocchina, ma intanto era avvenuto un cambiamento radicale nella politica del governo. Ormai deciso a mettersi sulla stada delle conquiste coloniali e non potendo effettuare il progettato sbarco in Libia, il governo decise di occupare Massaua, sulla costa eritrea e di lì procedere ad occupare l'Africa orientale, benché non vi fosse, in proposito, un piano militare definito.
L'occupazione di Massaua avvenne pacificamente il 5 febbraio 1885; la guarnigione egiziana fu rimpatriata alla fine dell'anno e le proteste del Cairo e di Costantinopoli rimasero inascoltate in Europa. Entro i tre mesi successivi, le truppe italiane occuparono tutta la fascia costiera compresa tra Massaua e Assab.
L'impresa avveniva per ragioni di prestigio nazionale ma ancor di più per le pressioni dell'industria armatoriale, cantieristica, siderurgica che non trovavano in patria sufficienti occasioni di profitto a causa de lristretto mercato nazionale e dello scarso volume degli scambi con l'estero. La conquista di nuove colonie, per quanto povere fossero, avrebbe comunque significato l'apertura di nuove linee di navigazione, nuovo impulso alle costruzioni navali e alla fabbricazione di armi, la possibilità di nuovi appalti per lavori pubblici, costruzioni ferroviarie. Non è un caso che l'inizio dell'espansione coloniale seguisse di poco la fondazione della Navigazione Generale Italiana e coincidesse con la ripresa del programma governativo di costruzioni navali e con la fondazione della Terni (acciaierie).
Le poche voci di opposizione, come quella di Jacini, che si levavano a favore dei contadini colpiti dalla crisi del1884, venivano soffocate da quelle, più numerose, che sostenevano che una politica aggressiva verso l'esterno avrebbe distratto l'opinione pubblica dalle difficoltà esterne mentre il patriottismo avrebbe posto un freno ai conflitti sociali, scoppiati un po' dappertutto in quell'anno.
Eppure buona parte del ceto politico criticò la spedizione di Massaua. I socialisti e i repubblicani perché ostili in assoluto al colonialismo; alcuni moderati perché preoccupati dal costo eccessivo dell'impresa in un momento di crisi economica; i sostenitori di una politica coloniale aggressiva, che costituivano la maggioranza in Parlamento, perché ritenevano l'obiettivo poco importante.
Per due anni, Presidente del Consiglio era, per la settima volta, Depretis, il problema coloniale passò in secondo piano ma sarebbe tornato al centro dell'interesse del grande pubblico di lì a poco, a seguito dell'eccidio di Dogali nel gennaio 1887.
di Robilant e la svolta del 1887
Il conte di Robilant, che era stato ambasciatore a Vienna per 14 anni, fu chiamato agli esteri da Depretis, nel 1885, quando la situazione internazionale veniva facendosi nuovamente minacciosa.
Nel settembre 1885, la Romania, contravvenendo alle decisioni del Trattato di Berlino del 1878, si era annessa la Rumelia. Fu la scintilla che incendiò i Balcani, l'area più instabile dell'Europa. Ne seguirono: - contrasti tra bulgari e turchi;
- contrasti tra greci e turchi;
- una guerra tra bulgari e serbi, vinta sul campo di battaglia dai primi ma al tavolo della pace dai secondi per un intervento diplomatico dell'Austria.
Soprattutto, nacquero dei contrasti, fortunamente solo diplomatici, tra Austria e Russia che portarono alla liquidazione della Lega dei Tre Imperatori. Nello stesso tempo si arroventarono i rapporti tra la Germania e la Francia, la cui politica era di fatto diretta dal nuovo ministro della guerra, il generale revanchista Boulanger. Questi fatti e il riavvicinamento franco-russo, l'accentuarsi della rivalità coloniale franco-inglese, la minaccia di guerra anglo-russa per la questione dell'Afghanistan, preoccuparono molto Bismarck, il quale operò attivamente per rafforzare il sistema di alleanze costruito tra il 1878 e il 1882.
di Robilant, uomo politico accorto e abile, seppe approfittare della situazione internazionale, che rimase fluida per due anni, per ottenere all'Italia quei vantaggi tangibili che non aveva avuto nel 1882. Ora che la Germania e l'Austria avevano bisogno dell'alleanza dell'Italia, non gli fu difficile pretendere e imporre che la nuova Alleanza tutelasse gli interessi italiani nel Mediterraneo e nei Balcani. La sua srategia fu semplice ed efficace: per tutto il 1886 si mostrò riluttante ad iniziare le trattative per il rinnovo dell'Alleanza e intanto non si opponeva ad una proposta francese di accordarsi sul Mediterraneo.
Il trattato, della durata di cinque anni, venne rinnovato il 20 febbraio 1887, con l'aggiunta di due trattati bilaterali, uno italo-austriaco ed uno italo-gemanico. Il primo impegnava a mantenere lo status quo in Oriente, ma aggiungeva:
"Tuttavia, nel caso che, in seguito ad avvenimenti, il mantenimento dello status quo nella regione dei Balcani o delle coste e isole ottomane nell'Adriatico e nel Mare Egeo divenisse impossibile, e che, sia in conseguenza dell'azione di una terza potenza, sia altrimenti l'Austria-Ungheria o l'Italia si vedessero nella necessità di modificarlo con una occupazione temporanea o permanente da parte loro, quest'occupazione non avrà luogo se non dopo un accordo preventivo fra le due sopradette potenze, accordo basato sul principio di un compenso reciproco per ogni vantaggio territoriale o altro che ciascuna d'esse ottenesse in più dello status quo attuale e tale da dare soddisfazione agli interessi e alle pretese ben fondate delle due Parti".
Il secondo, tra la Germania e l'Italia: impegnava le due potenze ad operare per mantenere lo status quo in Oriente; dichiarava la reciproca libertà d'azione nella questione egiziana; stabiliva che la Germania avrebbe aiutato militarmente l'Italia nel caso di guerra provocata da iniziative francesi in Marocco o in Tripolitania; prevedeva il consenso tedesco nel caso che "i risultati di qualunque guerra intrapresa in comune contro la Francia inducesse l'Italia a ricercare garanzie territoriali verso la Francia per sicurezza delle frontiere del Regno e della stabilità della pace".
Pochi giorni prima, il 12 febbraio, uno scambio di note aveva concluso un trattato italo-britannico sul Mediterraneo. Le due potenze si impegnavano:
a cooperare per il mantenimento dello status quo nel Mediterraneo, nell'Adriatico, nell'Egeo e nel Mar Rosso; l'Italia ad appoggiare l'Inghilterra nella questione egiziana; l'Inghilterra ad appoggiare, in caso dell'invadenza di una terza potenza, l'azione dell'Italia "sopra qualunque punto del littorale settentrionale dell'Africa e particolarmente della Tripolitania e Cirenaica".
A questo accordo, al quale aderì anche l'Austria il 24 marzo 1887, seguì uno in base al quale la Spagna si impegnava a mantenere lo status quo nel Mediterraneo e a non concludere alcun accordo con la Francia, riguardante i territori nordafricani, che fosse direttamente o indirettamente rivolto contro qualsiasi membro della Triplice alleanza. A questo accordo, il cui contenuto fu approvato da lord Salisbury, aderirono anche la Germania e l'Austria-Ungheria.
Gli anni di Crispi (1887-1896)
L'erede "naturale" di Depretis, morto il 29 luglio 1887, era Crispi e al politico siciliano fu affidata da re Umberto la Presidenza del Cosiglio. A quella carica Crispi assommò i ministeri dell'estero e degli interni, che avrebbe tenuto fino al gennaio 1891, cioè fino alla caduta del suo secondo ministero. Nessuno fino a quel momento aveva osato tanto.
La storia politica d'Italia subì una svolta radicale; il nuovo ministero inaugurò una politica estera di prestigio e di espansione che avrebbe aggravato la tensione con la Francia e cacciato il paese nell'avventura etiopica (in questa parte del lavoro accennerò solamente alla politica interna autoritaria che caratterizzò la svolta crispina).
Quando Crispi assunse la direzione della politica estrera, essa era caratterizzata da due fatti soprattutto: la tensione crescente con la Francia e il rinnovo della Triplice alleanza (con i trattati separati che ne erano seguiti). Inoltre sullo sfondo continuava ad agitarsi la questione balcanica, questa volta a causa di un contrasto austro-russo sorto a proposito della successione al trono di Bulgaria, rimasto vacante dopo la forzata abdicazione del re Alessandro di Battenberg.
La diplomazia italiana aveva davanti a sé due scelte:
• seguire la politica inaugurata da di Robilant e considerare la Triplice solamente uno strumento difensivo; cercare di allentare la tensione con la Francia; non sbilanciarsi a favore dell'Austria a rischio di scontentare la Russia, tanto più che l'Italia non avrebbe tratto alcun beneficio dalla prevalenza autriaca nella questione bulgara;
• chiedere alla Triplice il massimo appoggio in funzione antifrancese e assumere un atteggiamento intransigente contro la Francia che usava la questione romana per mettere in imbarazzo il governo italiano.
Nell'estate e nell'autunno del 1887 Crispi fu attivissimo: appoggiò l'Austria nella questione bulgara; sfruttò il conseguente malcontento russo per convincere Austria e Inghilterra a firmare nuovi trattati che garantissero lo status quo nel Mediterraneo. Effettivamente ottenne uno scambio di note diplomatiche in tal senso ma lord Salisbury rifiutò la proposta di concludere un'alleanza militare.
Maggiore fortuna Crispi ebbe nei rapporti con la Germania, almeno in apparenza. Nel febbraio del 1888, a conclusione di colloqui cominciati nell'ottobre 1887, Italia e Germania firmavano una convenzione militare. In essa si stabiliva che in caso di guerra della Triplice da una parte e della Francia e della Russia dall'altra, l'Italia avrebbe impegnato i francesi sulle Alpi e inviato cinque corpi d'armata a rafforzare i tedeschi sul Reno. Quando venne a conoscenza, tramite i servizi di spionaggio, della convenzione, il governo francese interruppe le trattative in corso per rinnovare il Trattato commerciale bilaterale.
Le trattative erano state avviate su richiesta del governo italiano, il 16 settembre 1887, sulla base della clausola della "nazione più favorita" e del mantenimento della tariffa convenzionale già vigente per un certo numero di merci. Il governo francese rispondeva, il 29 ottobre, chiedendo una riduzione del dazio italiano sulle lanerie, le seterie e i tessuti di cotone. Quando il governo italiano si mostrò indisponibile ala richiesta francese, il governo transalpino propose di di prorogare il trattato del 1881 per altri cinque mesi e intanto avviare nuovi negoziati. Infine, gli italiani offrirono una proroga di due mesi che i francesi accettarono. Le trattative si svolsero a Roma (31 dicembre 1877 - 18 febbraio 1888) ma con esito assolutamente negativo, dato l'irrigidimento soprattutto del governo italiano. La rottura fu così brusca che portò ad una vera e propria guerra commerciale.
La tensione italo-francese giunse ad un passo dall'irreparabile, quando la Francia concentrò la sua flotta nel porto di Tolone e a Roma e a Berlino si temette che si potesse arrivare ad un conflitto armato. Non vi fu guerra ma la politica di Crispi si rivelò ancora una volta tanto appariscente quanto dannosa. La guerra commerciale con la Francia svantaggiò più l'economia italiana, in particolare l'agricoltura del mezzogiorno, che non l'industria francese, tanto che nell'ottobre del 1889 il ministero Crispi provvedeva a rimuovere le tariffe differenziate per le merci francesi senza peraltro ottenere che la Francia facese altrettanto con quelle italiane.
Nel frattempo Crispi si era impegnato a fondo mel tentativo imperialistico in Africa orientale, la sola zona ancora aperta alla colonizzazione europea vuoi per il terreno montagnoso ed arido vuoi per la presenza di popolazioni bellicose e sufficientemente evolute ed organizzate per poter resistere ad una invasione. Come gli abissini che abitavano l'interno dell'Etiopia, divisi in tribù guidate da un re locale, il ras, e un imperatore o re dei re, il negus neghesti.
La situazione interna non era molto stabile a causa delle ambizioni di molti ras a succedere al negus Giovanni. Crispi appoggiò ras Menelik, il quale, una volta imperatore, firmò un trattato, detto di Uccialli, in base al quale il nuovo negus riconosceva le conquiste fatte dall'Italia fino al fiume Mareb ed accettava il protettorato sull'Abissinia e la Somalia (in verità la clausola del protettorato era esplicita solamente nel testo in italiano, in quello in copto c'era appena un vago accenno).
Nel frattempo il governo aveva preparato un regio decreto, emanato il 5 gennaio 1890, che trasformava i possedimenti italiani del Mar Rosso in Colonia di Eritrea, governata da un Governatore assistito da tre consiglieri, rispettivamente per le finanze, l'agricoltura e i lavori pubblici. La Colonia Eritrea passò alle dipendenze del Ministero degli Esteri (e dunque di Crispi!).
Il dominio nell'Eritrea fu consolidato rapidamente; non altrettanto accadde in Abissinia, dove il protettorato sull'Etiopia non fu accettato dal negus. Non bastò un anno intero di trattavtive a piegare Menelik. Crispi rientrò in Italia a mani vuote (era l'11 febbraio 1891, pochi giorni prima, il 31 gennaio, aveva rassegnato le dimissioni del suo ministero).
Due anni dopo, tornato al potere, Crispi riprese la sua politica coloniale in Etiopia. Le truppe italiane, dopo alcuni successi iniziali, furono sconfitte all'Amba Alagi e il maggiore Galiano fu costretto a cedere il forte di Macallé. L'opinione pubblica, indignata per l'umiliazione subita, e lo stesso Crispi attribuirono la responsabilità della sconfitta all'indecisone del governatore dell'Eritrea. Perciò fu ordinato al generale Baratieri di lanciare una forte offensiva. In realtà la sconfitta all'Amba Alagi era da addebitare alla fretta con cui era stata preparata la spedizione abissina, tant'è vero che il generale Baratieri subì una vera disfatta ad Adua, la sconfitta più grave subita dagli europei nella colonizzazione dell'Africa.
L'indignazione popolare raggiunse il culmine. Crispi diede le dimissioni e di lì a poco sarebbe morto; il suo successore, Di Rudinì, si affrettò a firmare (ottobre 1896) il Trattato di Addis Abeba, in base al quale l'Italia rinunciava ad ogni pretesa sull'Abissinia e limitava le sue colonie all'Eritrea e alla Somalia.
Dopo Crispi (1897-1906)
L'Italia non aveva una struttura produttiva e un'organizzazione militare adeguate a sostenere una politica estera aggressiva; in tali condizioni la politica di Crispi risultò piuttosto avventurosa che aggressiva. La sconfitta di Adua spense sul nascere ogni velleità di grande potenza e fino alla Guerra di Libia la classe dirigente del Regno ritornò ad una politica estera più tradizionale. Gli obiettivi principali dei governi succeduti a Crispi furono la liquidazione del fallimentare tentativo coloniale e il riavvicinamento alla Francia, pur senza modificare i rapporti di alleanza che legavano l'Italia alla Germania e all'Austria-Ungheria. Una politica estera di pace e di amicizia, dopo l'infelice parentesi della "megalomania" crispina.
Parlando alla Camera nel 1897, Giolitti sostenne che il disastro della politica estere crispina era da addebitare alla "sproporzione tra il fine che si vuole raggiungere, ed i mezzi che si vogliano adoperare".
Gli uomini politici più realistici erano pienamente consapevoli che l'Italia non era in grado di competere con le altre potenze europee nella conquista di imperi coloniali che richiedeva forze economiche e militari e non soltanto velleitarismo. All'Italia, ultima delle grandi potenze europee, superata anche da Giappone e Stati Uniti, non restava altra, realistica, possibilità che di affermare il suo modesto prestigio e di difendere i suoi interessi con una politica moderata. In questa direzione si mossero i ministri degli esteri che si succedettero dopo Crispi: Visconti-Venosta, Canevaro, Prinetti, Tittoni, Di San Giuliano, Guicciardini.
Visconti-Venosta, che era stato ministro degli esteri dal 14 dicembre 1869 fino al 18 marzo 1876; cioè fino alla caduta delle Destra, tornò agli Esteri con di Rudinì e vi restò fino al febbraio 1901, salvo una parentesi dal 1 giugno 1898 al 14 maggio 1899. Visconti-Venosta, a suo tempo, si era opposto all'alleanza con la Germania, era pertanto l'uomo giusto per operare un riavvicinamento e una riconciliazione con la Francia, dopo i rapporti di ostilità nel periodo crispino. Visconti-Venosta liquidò anche l'altra eredità crispina, la politica coloniale:
"le imprese coloniali non si possono considerare indipendentemente dalle condizioni e dai mezzi che sono loro necessari per renderle possibili e proficue. Queste condizioni e questi mezzi sono l'iniziativa ed il concorso del capitale privato, una bilancia dello Stato che conceda le spese necessarie perché le occupazioni coloniali non rimangano sterili e senza valore, e soprattutto l'appoggio del paese, perché, se vi è una politica che per essere seriamente condotta e praticata richiede il favore dell'opinione pubblica, questa è la politica coloniale. Se queste condizioni mancano, allora, tra l'obbiettivo che si persegue e i mezzi con cui si persegue sorge un contrasto alle cui spine un paese si espone a lasciare qualche brano del suo prestigio e della sua dignità".
Visconti-Venosta diede un "colpo di timone" alla politica estera:
* con gli accordi del 21 novembre 1896 portò a soluzione la questione tunisina e con il trattato commerciale del 21 novembre 1898 pose fine alla decennale guerra doganale fra i due paesi;
* avviò trattative per definire la questione della Tripolitania e delle Cirenaica, allo scopo di ottenere garanzie per un'eventuale espansione dell'Italia nelle uniche regioni dell'Africa mediterranea ancora libere dal dominio imperialista anglo-francese e rimaste fuori delle sfere di influenza definite con gli accordi del 21 marzo 1899 dopo la crisi di Fashoda fra Francia ed Inghilterra.
Visconti-Venosta trovò un interlocutore ben disposto nell'ambasciatore francese a Roma, Camillo Barrère. Gli obiettivi di Visconti-Venosta e di Barrère coincidevano su un punto fondamentale, cioè sull'affermazione del carattere difensivo che doveva avere la Triplice Alleanza e la possibilità per l'Italia di avere, all'interno di essa, una certa libertà nei rapporti con la altre potenze europee. A differenza di quanto avevano cercato di ottenere i suoi predecessori, il diplomatico francese non fece alcuna pressione per costringere l'Italia a lasciare la Triplice ma si adoperò affinché l'alleanza perdesse qualsiasi carattere antifrancese, implicito o esplicito. Su questo orientamento Barrère trovò favorevoli non solo Visconti-Venosta ma anche Zanardelli e Prinetti, successo al Visconti-Venosta, rimasto in carica dal febbraio 1901 all'aprile 1903, quando fu costretto a dimettersi per motivi di salute.
Giulio Prinetti, un ricco industriale lombardo che non proveniva dalla carriera diplomatica, non aveva molta esperienza in politica estera pur esssendo già stato ministro, ma dei lavori pubblici, al tempo del secondo governo di Rudinì. La sua politica estera non si discostò dalla linea filofrancese di Visconti-Venosta e mirò ad ottenere impegni espliciti e precisi, sia da parte degli alleati tedeschi sia da parte della Francia e dell'Inghilterra, sul rispetto degli interessi italiani. La politica di Prinetti, troppo ostentatamente favorevole alla Francia, insospettì e irritò gli alleati, in primo luogo del cancelliere tedesco Bulow, il quale si lamentò del comportamento italiano che ondeggiava, secondo la sua espressione, fra matrimonio legittimo e concubinato. Le preoccupazioni tedesche non erano dei tutto ingiustificate, anche se Prinetti si affrettò a dichiarare, per tranquillizzare gli alleati, che l'Italia non avrebbe sacrificato all'amicizia francese la Triplice, ed era pronta e rinnovare il trattato.
Il nuovo orientamento filofrancese era condiviso ed approvato non solo dal Primo ministro Zanardelli (rimasto irredentista), ma dallo stesso re Vittorio Emanuele, il quale, continuando la tradizione dei suoi predecessori, considerò la politica estera un campo di competenza della monarchia. Il re non aveva simpatia per Guglielmo II e la sua antipatia era ricambiata. Fra i due alleati vi erano diverse ragioni di contrasto e di dissenso come la questione romana, che la Germania sollevava ogni volta che voleva far pressione sull'Italia, troppo disinvolta nei suoi giri di valzer, e la scarsa considerazione che l'alleato tedesco mostrava verso le aspirazioni e gli interessi italiani.
Tutto ciò determinò, nei primi anni di regno di Vittorio Emanuele, un mutamento evidente se non negli accordi ufficiali (dato che la Triplice venne rinnovata il 28 giugno 1902, con una nota che dichiarava il disinteresse austriaco per la Tripolitania), certamente nei risultati pratici della politica estera italiana. L'Italia acquistò una maggiore indipendenza nei confronti degli alleati e cercò di difendere i suoi interessi appoggiandosi di volta in volta, a seconda delle circostanze, ora ad una ora all'altra potenza. Dopo il rinnovamento della Triplice, senza che venissero accolte le richieste di Prinetti per l'aggiunta di una clausola sul carattere difensivo dell'alleanza, il governo italiano volle consolidare i suoi legami con la Francia. Due giorni dopo il rinnovo della Triplice, con uno scambio di note segrete, fu definito un accordo italo-francese che ribadiva i punti fondamentali dell'intesa raggiunta da Visconti-Venosta. Nella sua lettera, Prinetti dichiarava che l'Italia sarebbe rimasta neutrale in caso di aggressione contro la Francia da parte di altre potenze o nel caso che la Francia fosse stata costretta a dichiarare guerra, dopo averne dato comunicazione all'Italia.

I contrasti tra AUSTRIA e ITALIA (1903-1908)
La crisi della Triplice era imputabile anche al perdurare dei contrasti fra l'Italia e l'Austria; nonostante l'alleanza, i due paesi erano divisi:
dal problema delle terre italiane tuttora soggette all'impero austro-ungarico, che rinfocolava continuamente i sentimenti antiaustriaci dell'opinione pubblica;
da conflitti di interessi nell'Adriatico e da rivalità nelle regioni balcaniche.
La questione delle terre irredente si riaccese nel 1903, in seguito agli scontri avvenuti nel maggio di quell'anno fra studenti italiani e studenti tedeschi ad Innsbruck, ed alle manifestazioni irredentiste svoltesi a Trento e a Trieste per la mancata creazione di una università italiana che riconoscesse l'autonomia culturale degli italiani soggetti all'impero austro-ungarico.
Seguirono numerose manifestazioni in tutta Italia (maggio e giugno 1903) che acuirono la crisi dei non facili rapporti fra l'Italia e l'Austria. In quel momento le relazioni diplomatiche europee erano ancora fluide e il Primo Ministro Giolitti temette che la questione irredentista potesse finire col provocare una rottura irreparabile con l'Austria e quindi con la Triplice. Interessato alla soluzione di più immediati conflitti di interesse e di egemonia fra Italia ed Austria nell'Adriatico e nei Balcani, Giolitti accantonò di fatto la questione irredentista, non tollerando manifestazioni antiaustriache e limitandosi a chiedere all'Austria, con una diplomazia conciliante, un più equo trattamento per gli italiani ad essi soggetti.
L'Italia aveva considerato sempre con timore una espansione austriaca nei Balcani, che avrebbe pregiudicato i suoi progetti di penetrazione commerciale in quelle regioni. Per evitare che l'Austria rafforzasse la sua presenza sull'altra sponda dell'Adriatico, sia Prinetti che il suo successore Enrico Morin avevano tentato di far partecipare l'Italia alle discussioni fra Russia e Austria, in seguito ad alcune azioni di guerriglia e di agitazioni in Macedonia.
L'intesa austrorussa per i Balcani risaliva al 1897 e ora si riproponeva in termini nuovi a causa della crescente crisi dell'impero turco. Da questa intesa l'Italia era e rimaneva esclusa nonostante le pressioni fatte dallo stesso re Vittorio Emanuele per impedire che l'Austria allargasse la sua influenza verso l'Albania. L'Italia non voleva vedere sventolare a Valona e a Durazzo - fu detto - una bandiera diversa da quella turca o da quella di uno Stato albanese indipendente. La politica balcanica dell'Italia prospettava la possibilità di contenere l'espansionismo austriaco e russo nei Balcani attraverso la costituzione di nuovi Stati indipendenti, senza aspirare perciò ad alcuna conquista territoriale.
Durante le trattative austrorusse l'Italia cercò inutilmente di ottenere garanzie di compensi, sulla base degli accordi della Triplice, in caso di una espansione austriaca: l'Austria si oppose con decisione alla richiesta italiana, e lo stesso fece la Russia. Nonostante la manifestazioni di simpatia espresse a Vittorio Emanuele in occasione del suo viaggio in Russia, l'accordo austro-russo fu sottoscritto a Murzsteg nell'ottobre 1903, senza alcuna considerazione per le richieste italiane.
Nonostante lo smacco subito, Giolitti e Tittoni riconfermarono la fedeltà dell'Italia alla Triplice rinnovando il patto nel giugno 1907. Ma la situazione peggiorò nuovamente nel 1908 in seguito alla crisi bosniaca.
Il 6 ottobre, prendendo a pretesto la crisi dell'Impero per la rivolta dei Giovani Turchi, l'Austria decideva di annettere la Bosnia-Erzegovina, di cui aveva l'amministrazione fiduciaria dall'epoca del congresso di Berlino del 1878. L'azione austriaca colse di sorpresa il ministro Tittoni e suscitò forti critiche all'interno sulla condotta della politica estera da parte del governo giolittiano, che sembrava non tutelare gli interessi italiani nei confronti dell'Austria. Tittoni richiese compensi dall'Austria, nel rispetto degli accordi della Triplice Alleanza, ma ottenne solamente lo sgombero del Sangiaccato di Novi Bazar e la rinuncia dell'Austria a controllare la costa adriatica del Montenegro.
La crisi bosniaca favorì tuttavia un riavvicinamento diplomatico fra l'Italia e la Russia, entrambe preoccupate per il colpo di mano austriaco ed interessate ad impedire una ulteriore iniziativa dell'Austria nei Balcani. Tittoni avrebbe voluto un accordo a tre fra l'Italia, l'Austria e la Russia sulla questione balcanica, ma il suo progetto fallì per l'opposizione del ministro degli esteri russo. Di conseguenza, per evitare che l'Italia rimanesse esclusa per il futuro da un'intesa austro-russa come quella di Murzsteg, Tittoni lavorò per concludere accordi separati con le due potenze.
L'accordo con la Russia fu stipulato il 24 ottobre a Racconigi in occasione della visita dello zar in Italia, sotto forma di scambio segreto di lettere e l'impegno reciproco a negarne l'esistenza a qualsiasi altra potenza.
Russia e Italia si impegnavano al mantenimento dello status quo nella penisola balcanica, all'applicazione del principio di nazionalità per lo sviluppo degli Stati balcanici contro interferenze di potenze straniere e ad un'azione comune contro eventuali maneggi rivolti a contrastare queste condizioni.
Le due potenze si impegnavano a non concludere singolarmente nuovi accordi con una terza potenza senza la partecipazione dell'altra.
La Russia si impegnava a considerare benevolmente gli interessi italiani in Tripolitania e in Cirenaica e l'Italia gli interessi russi nella questione degli Stretti.
Pochi mesi dopo la sottoscrizione di questo accordo, il 14 dicembre, l'Italia concluse un nuova intesa segreta con l'Austria avviata da Tittoni e portata a termine dal suo successore Guicciardini (Primo Ministro era Sonnino). L'accordo stabiliva
che una rioccupazione del sangiaccato da parte dell'Austria doveva essere preceduta da un'intesa preventiva con l'Italia per la definizione dei compensi;
che nessuno dei due governi avrebbe sottoscritto accordi con un'altra potenza sulla questione balcanica senza la partecipazione dell'altro in piena eguaglianza;
che l'uno e l'altro governo si impegnavano a comunicarsi qualsiasi proposta da parte di un'altra potenza volta a modificare lo status quo nei Balcani, nell'Adriatico e nell'Egeo e sulle coste ed isole dell'impero turco.
"Con la stipulazione quasi contemporanea dell'accordo con la Russia e di quello con l'Austria la politica estera italiana, già ambigua, era arrivata praticamente al limite del doppio giuoco", ma ciò permise all'Italia di conservare la sua posizione mediana nel difficile equilibrio europeo e, nello stesso tempo, di guadagnare solide garanzie per la riscossione della sua ipoteca sulla Tripolitania e sulla Cirenaica.
La GUERRA di LIBIA (1911-1912)
L'accordo di Racconigi completava la serie delle garanzie che l'Italia aveva ottenuto dalle potenze europee per una sua espansione in Tripolitania e in Cirenaica. L'occasione, che fece maturare in Giolitti la decisione dell'impresa, fu data da una nuova crisi rnarocchina, che mise in contrasto la Francia e la Germania. Dopo il 1906, la Francia aveva intensificato la sua penetrazione del Marocco e nel 1911, prendendo a pretesto una rivolta contro il sultano, aveva occupato militarmente Fez, la capitale del Marocco. La Germania, che si era rese pubblicamente garante della indipendenza del Marocco, rispose all'azione francese inviando un incrociatore nelle acque di Agadir (1 luglio 1911).
Seguirono alcuni mesi di tensione fra le due potenze ma alla fine, nel novembre, si giunse ad un accordo:
la Francia occupò il Marocco, lasciando la parte settentrionale alla Spagna e dichiarando Tangeri città libera;
in compenso, cedeva alla Germania alcuni territori dell'Africa equatoriale che furono annessi alla colonia tedesca del Camerun;
nel marzo 1912 la Francia imponeva il suo protettorato al Sultano.
L'incidente di Agadir fece precipitare la situazione politica nel Mediterraneo, in modo tale che appariva prossima la necessità, per l'Italia, di risolvere con una spedizione militare la questione della Libia. La rivolta dei Giovani Turchi nel 1908 aveva impresso un carattere dinamico e nazionalista al governo dell'impero. D i conseguenza, l'opera di penetrazione finanziaria e commerciale fatta dall'Italia in Libia - e in particolare modo dal cattolico Banco di Roma - veniva seriamente intralciata ed ostacolata dalla Turchia, col chiaro scopo di sottrarre la Libia all'influenza italiana.
Liberali, cattolici e nazionalisti erano favorevoli alla conquista della Libia per considerazioni di politica internazionale, per motivi di prestigio nazionale, per interessi economici, per ragioni di politica interna. Anche giornali poco inclini al colonialismo, come il Corriere della Sera di Albertini, diedero il loro contributo alla campagna a favore dell'impresa sostenendo la tesi che il territorio libico era una miniera intatta di grandi ricchezze naturali (ma non si parlava allora del petrolio), e che la sua conquista avrebbe risolto il problema principale dell'economia italiana, cioè la mancanza di materie prime e di risorse naturali. La stampa cattolica, per sostenere la penetrazione commerciale e finanziaria del Banco di Roma, alimentava la propaganda imperialista presentando la guerra contro la Turchia come una nuova crociata contro gli infedeli e l'occupazione della Libia come una conquista di anime alla cristianità, nonostante la dichiarazione ufficiale del Vaticano che la guerra era soltanto un problema politico, col quale la religione nulla aveva a che fare.
I più impegnati ed attivi furono naturalmente i nazionalisti, i quali sfruttarono tutti i motivi disponibili - da quelli politici a quelli economici, letterari e ideali - per affermare la necessità dell'impresa, attraverso il settimanale "Idea nazionale", uscito proprio in quel tempo, espressione del nuovo movimento nazionalista che faceva capo ad Enrico Corradini, Luigi Federzoni, Francesco Coppola, Roberto Forges-Davanzati. Per i nazionalisti, l'imperialismo era una legge invincibile nella vita delle nazioni e l'Italia non poteva sottrarsi ad essa. Dopo le umiliazioni di Dogali e di Adua, bisognava riscattare il prestigio nazionale ed affermare la vocazione italiana all'imperialismo con la guerra contro 1a Turchia e la conquista della Libia, la "quarta spnda", che i nazionalisti dipingevano come terra promessa, ricca di risorse agricole e minerarie, terra fertile che aspettava il lavoro fecondatore degli italiani.
Il 24 settembre Giolitti ottenne dal re il consenso per l'invio di un ultimatum alla Turchia, col quale si chiedeva al governo turco di permettere l'occupazione italiana della Tripolitania e della Cirenaica entro ventiquattro ore, motivando la richiesta con le continue ostilità manifestate dalla Turchia verso la iniziative italiane in Libia. L'ultimatum naturalmente venne respinto e il 29 settembre l'Italia dichiarò guerra alla Turchia. La dichiarazione, decisa dal re, da Giolitti e dal ministro degli esteri San Giuliano ed approvata dalle alte gerarchie militari, non fu approvata né ratificata dalla Camera, che era stata chiusa nel luglio 1911 e fu riaperta soltanto nel febbraio 1912, quando l'impresa era già un fatto compiuto.
La Germania e l'Austria, preoccupate per l'indebolimento della Turchia, che avrebbe potuto spingere la Russia ad occupare gli Stretti e ad estendere la sua influenza sui Balcani, cercarono di raggiungere una soluzione di compromesso fra l'Italia e la Turchia che ponesse fine alla guerra, proponendo una occupazione di fatto della Libia da parte dell'Italia sotto la sovranità formale dell'Impero turco. Di fronte a questo fitto incrociarsi di manovre diplomatiche che avrebbero potuto limitare l'impresa italiana, Giolitti, con una decisione che a molti parve intempestiva, ottenne dal re un decreto che proclamava la sovranità assoluta dell'Italia sulla Tripolitania e sulla Cirenaica ancor prima di aver concluso la guerra: 5 novembre 1911.
Quando Giolitti, per accelerare la coclusione della guerra e colpire l'Impero in centri vitali, prospettò la possibilità di estendere le operazioni alle isole dell'Egeo o nei Dardanelli, le altre potenze europee si opposero con forza. A cominciare dall'Austria, la quale dichiarò che l'occupazione di isole dell'Egeo da parte italiana era contraria agli accordi della Triplice.
Nel frattempo, alcuni incidenti che Giolitti definì "cause da pretura" misero in pericolo l'amicizia con la Francia. Il governo francese si sentì offeso nel suo orgoglio nazionale quando due mercantili francesi, che avevano a bordo militari turchi, furono fermati e perquisiti nel mare di Sardegna e i turchi presi prigionieri. Alle proteste francesi corrisposero tuttavia reazioni ugualmente forti nell'opinione pubblica italiana. Ne seguì un raffreddamento dei rapporti con la Francia immediatamente bilanciati dall'appoggio che il governo italiano ottenne dal kaiser Guglielmo II, il quale, incontrando Vittorio Emanuele a Venezia nel marzo 1912, si impegnò a fare pressioni sull'Austria per dare via libera all'azione militare italiana nell'Egeo. La Germania, infatti, temeva che una lunga guerra di logoramento avrebbe indebolita troppo l'Italia e messo in pericolo l'esistenza della Triplice.
Così, nel mese di aprile, l'Italia iniziava le operazioni militari nell'Egeo occupando dodici isole mentre una squadra navale comandata dal capitano di vascello Enrico Millo effettuò una audace spedizione nei Dardanelli che galvanizzò l'opinione pubblica italiana. Le cose si misero al meglio anche in Libia, dove, durante l'estate, gli italiani riuscirono a riprendere l'iniziativa e ad estendere, sia pur di poco, la zona di occupazione.
La presenza italiana nell'Egeo costituiva per la Turchia una seria minaccia e un grave pericolo nel momento in cui si preannunciavano conflitti nei Balcani a danno dell'Impero. Trovandosi isolata, la Turchia optò per un accordo diplomatico con l'Italia: la pace fu firmata il 18 ottobre:
il Sultano concedeva l'autonomia alla Tripolitania e alla Cirenaica e ritirava le truppe dalle due regioni;
l'Italia si ritirava delle isole dell'Egeo;
la Turchia dunque non rinunciava ufficialmente alla sovranità sulla Libia, ma solo all'amministrazione ed alla occupazione militare;
l'Italia, a sua volta, col pretesto che truppe turche erano rimaste in Cirenaica, mantenne l'occupazione delle isole dell'Egeo, che furono annesse dopo la prima guerra mondiale, con il trattato di Losanna nel 1923.
Si concludeva in tal modo la conquista della Libia, la prima impresa fortunata dell'imperialismo italiano.
Le fonti:
Testi usati: Storia dell'Italia moderna, Universale Economica Feltrinelli Storia d'Italia 1861-1969, Universale Laterza Storia d'Italia dall'unità alla repubblica, il Mulino Il colonialismo italiano da Adua all'impero, Editori Laterza La storia, Mursia

I problemi interni
La morte di Cavour e la proclamazione del Regno d'Italia chiudevano il periodo storico del Risorgimento e ne aprivano un altro meno esaltante ma certamente difficile e decisivo; finito il tempo degli eroismi, bisognava costruire un nuovo stato, affrontare e risolvere una lunga serie di gravi problemi organizzativi, tra i quali quelli relativi alla scuola, ai tribunali, alle vie di comunicazione, ai pubblici uffici, alle tasse e così via.
Le difficoltà maggiori derivavano dal fatto che l'Italia era stata unificata da gruppi di persone piuttosto ristretti (studenti, professionisti, etc.) i quali per lo più non costituivano neppure l'intera classe borghese in quanto una parte di essa era rimasta pressoché indifferente ai contrasti e ai conflitti per l'unità. Pochissimi poi erano gli operai e i contadini che avevano personalmente partecipato alle lotte unitarie e possedevano una sia pur pallida idea del concetto di " nazione" e di " patria".
L'Italia era ormai fatta, aveva raggiunto l'indipendenza e una parziale unità. Si trattava però piuttosto di una unità territoriale e non spirituale: espressione non già di tutto il popolo ma di una piccola parte di esso. L'Italia era stata unificata da gruppi di persone piuttosto ristretti (studenti e professionisti avanti a tutti), i quali non costituivano neppure l'intera classe borghese in quanto una parte di essa era rimasta pressoché indifferente ai contrasti e ai conflitti per l'unità. Pochissimi poi erano gli operai e i contadini che avevano personalmente partecipato alle lotte unitarie e possedevano una sia pur pallida idea del concetto di " nazione" e di " patria". Ecco spiegato perché D'Azeglio affermasse che l'imperativo in quel momento fosse quello di fare gli Italiani, di dare loro uno spirito civico e una coscienza nazionale.
Problemi del Regno d'Italia
Politica estera
Politica interna
- occupazione di Roma
- occupazione di Venezia
- difficili rapporti con le grandi potenze
- tensione con la Chiesa e lo Stato pontificio
- Austria desiderosa di rivincita
- Gelosia della Francia
- necessità di opere pubbliche
- analfabetismo
- arretratezza dell'agricoltura e dell'industria
- malattie endemiche
- deficit del Bilancio statale
- riorganizzazione dell'esercito
- unificazione di pesi, misure, leggi, ecc.
- brigantaggio
Con l'espressione di Massimo D'Azeglio si riconosceva anche il profondo distacco fra le diverse parti del paese: specie tra Nord e Sud la distanza era enorme. Sarebbe stato necessario, come aveva teorizzato Carlo Cattaneo, dar vita a una forma statale su base regionale, le cui funzioni di fondo fossero cioè lasciate alle regioni stesse: esse sole avrebbero potuto essere a conoscenza delle riforme necessarie nelle singole zone e nei limiti entro i quali andavano realizzate. In tale direzione premevano sia Cavour e i liberali moderati, sia, in maniera consistente, i mazziniani, mentre si mostravano decisamente contrari i conservatori più accaniti.
La scelta centralista. In tale disputa si fronteggiarono a lungo le due anime del Risorgimento Italiano: da una parte quella borghese, sempre pronta a scelte fatte da un ristretto numero di persone culturalmente ed economicamente predominanti, dall'altra quella democratica e popolare, vivacemente espressa da Mazzini e dai suoi seguaci. Rimase, alla fine, vincitrice la tendenza borghese e venne fuori, sul modello della Francia napoleonica, uno stato accentrato (piemontesizzazione) nel quale una schiera di funzionari, per lo più piemontesi, sarebbero stati distribuiti in una rete destinata a due scopi essenziali:
a. controllare la popolazione, nel senso di garantire l'ordine pubblico e garantire ogni manifestazione di assenso e ogni volontà di distacco dal nuovo e ancor fragile organismo statale;
b. trasmettere la volontà dello stato dall'alto dei suoi vertici fino all'ultimo degli abitanti.
Il Regno d'Italia venne così suddiviso in province, il cui prefetto veniva nominato dal governo. Le province a loro volta furono suddivise in comuni con a capo un sindaco, anch'egli nominato dal governo (solo a partire dalla fine dell'800 esso sarebbe stato eletto liberamente dai consiglieri comunali e quindi, in base all'ultima riforma della legge elettorale, direttamente dagli elettori del comune). I prefetti diventarono in pratica gli arbitri della vita locale e influenzarono le elezioni appoggiando - specialmente nel sud - i candidati favorevoli al governo. Inoltre al prefetto spettava la tutela dell'ordine pubblico, la disponibilità delle forze di sicurezza, la direzione degli organismi sanitari provinciali e, più in generale, il potere decisionale in tutti i settori cruciali della vita civile, dalla scuola ai lavori pubblici. La centralizzazione significò insomma che il governo, tramite il ministro dell'Interno o dei Lavori pubblici, aveva l'ultima parola in ogni minima questione locale. Una strada o una scuola non potevano essere costruite senza il suo consenso.
L'arretratezza economica. Con il 1861 l'unificazione del mercato nazionale, una delle condizioni essenziali per lo sviluppo capitalistico, era compiuta. Ma, come si legge in un rapporto sull'economia italiana redatto per il Foreign Office inglese:
"Al momento dell'unificazione, le industrie manifatturiere erano piccine e di importanza locale. Gli stabilimenti industriali si annidavano nelle vallate, dove si trovavano la forza motrice pronta e non costosa nei torrenti e nei fiumi che la traversavano. La manodopera era composta principalmente da contadini che spesso possedevano qualcosa di loro, i salari troppo bassi, gli scioperi sconosciuti".
Il processo di industrializzazione procedeva a rilento per la limitata disponibilità di capitali offerti dalle banche ma soprattutto per la quasi totale assenza di ferro e carbone nel sottosuolo. A peggiorare la situazione contribuivano la mancanza di manodopera specializzata e le difficoltà per importare dall'estero macchine che costavano molto, mentre il poco denaro disponibile serviva per l'acquisto dei cereali.
L'Italia era un paese prevalentemente agricolo ma la grande proprietà terriera, specialmente nel sud, era largamente dominante e, nonostante le promesse, una seria riforma agraria non era nemmeno stata abbozzata. Di fronte ad una Europa occidentale decisamente avviata all'industrializzazione, l'Italia aveva un prodotto nazionale che per il 57% derivava dall'agricoltura, che impegnava il 70% della manodopera mentre un'industria in gran parte artigianale forniva solo il 20% del prodotto e impegnava appena il 18% della manodopera; il restante 12% della forza lavoro era impegnato nelle attività terziarie e produceva il 23% del prodotto nazionale.
PNL
Forza-lavoro
agricoltura
57%
70%
industria
20%
18%
terziario
23%
12%
La situazione varia a seconda delle differenti aree geografiche.
* Nell'Italia settentrionale cominciava a diffondersi un nuovo ceto di imprenditori agricoli, molto spesso fittavoli, disponibile a investire il proprio capitale nel miglioramento e nella gestione del fondo in particolare nell'allevamento, nella risicoltura, nelle piantagioni di gelsi per la seta.
* La situazione nell'Italia centrale, in particolare nel territorio dell'ex Stato della Chiesa, era più arretrata. La grande estensione delle terre ecclesiastiche, la diffusione della mezzadria e del piccolo affitto, la mancanza di innovazione determinavano una relativa arretratezza.
* Nel Sud Italia, la prevalenza del latifondo determinò un pesante stato di degradazione e di immobilismo. L'incuria dei latifondisti, l'impiego di sistemi arcaici, la mancanza d'investimenti, la miseria e l'oppressione causavano un tasso di produttività tra i più bassi.
Anche se gran parte della popolazione era urbanizzata, eccezion fatta per pochissime città come Milano o Genova, i centri urbani erano del tutto parassitari nel senso che consumavano prodotti delle campagne senza fornire in cambio prodotti industriali. Inoltre l'isolamento geografico e la mancanza di vie di comunicazione da luogo a luogo, il permanere di forme di proprietà e di gestione semifeudali e la scarsità degli investimenti avevano fatto sì che la maggior parte delle attività agricole fosse destinata all'autoconsumo.
Anche il mancato sviluppo ferroviario giocava un ruolo pesantemente negativo; di fronte ai 38.000 chilometri di ferrovia dei paesi più progrediti d'Europa, la penisola italiana poteva contare solo su 2.000 chilometri di ferrovie quasi tutte al Nord e questo non forniva certo la formazione di quel mercato a livello nazionale che l'unificazione avrebbe dovuto aver dato vita.
L'analfabetismo. Un altro fondamentale problema era quello relativo alla pubblica istruzione. Bisognava organizzare scuole e portare l'insegnamento elementare fra una popolazione che per il 78% era ancora costituita da analfabeti. Tale percentuale si elevava addirittura al 90% in certe regioni del Meridione e della Sicilia, ove i sovrani borbonici avevano deliberatamente lasciato le masse cittadine e rurali nell'ignoranza e nella superstizione, convinti come erano che "solo se abbandonata in quelle condizioni la plebe obbedisce e non si mette grilli nel capo".
Fin dal 1860 venne estesa a tutti i territori unificati la legge Casati: l'istruzione elementare, impartita gratuitamente per quattro anni, era distinta in due gradi, superiore ed inferiore, entrambi biennali, di cui soltanto il primo era obbligatorio. Erano gli asili che dovevano impartire l'istruzione elementare, ma allo stesso tempo erano considerati mezzi per la diffusione dei valori civili e patriottici.
Lingua e scuola. La scuola costituì un rimedio importante visto che l'italiano era sì la lingua ufficiale dell'Italia unita ma pochi la conoscevano, pochissimi la parlavano; ovunque prevalevano i dialetti. In dialetto poi non parlavano solo le classi popolari ma anche i ceti colti. Prima del 1860, in Piemonte si predicava in dialetto; il dialetto era d'uso nei salotti della borghesia e dell'aristocrazia milanese, a Venezia, il dialetto si affacciava e dominava perfino nelle orazioni politiche e giuridiche; anche a Napoli era d'uso normale nella corte. Il primo re d'Italia, Vittorio Emanuele, usava abitualmente il dialetto anche nelle riunioni con i suoi ministri. Cavour aveva una conoscenza molto imperfetta dell'italiano e preferiva scrivere in francese. Gli abitanti del Piemonte non capivano i Siciliani; i Veneti non riuscivano a comprendersi con i Napoletani, i Liguri con i Calabresi.
La legge Casati. Tuttavia anche se resa obbligatoria per legge la scuola accoglieva sempre una minoranza nelle aule scolastiche. Inoltre, fuori dalle aule i bambini vivevano in ambienti dove dominava il dialetto. Gli stessi maestri, per farsi capire, furono costretti per decenni ad usare nella scuola il dialetto o un misto di dialetto e di lingua letteraria.
Dal punto di vista dell'istruzione la legge Casati aveva alcuni gravi limiti:
* per quanto riguarda i maestri, vi era uno scarso controllo sulla loro formazione e qualificazione; le nomine erano decise in modo insindacabile dalle autorità comunali, soli requisiti necessari erano una "patente" di abilità e un certificato di moralità rilasciati dal comune stesso; le retribuzioni erano generalmente molto basse e venivano decise in modo arbitrario.
* l'istruzione obbligatoria, limitata alla frequenza per soli due anni, non era assolutamente sufficiente a garantire un'istruzione di base.
* le classi erano di dimensioni spropositate: la legge fissava un tetto massimo di settanta alunni per classe, che non garantiva nessun effettivo rapporto allievi docenti.
* numerosi erano ancora nei primi decenni del regno i comuni senza scuole o con scuole inadeguate, sia per mancanza di finanziamenti (per lungo tempo lo stato si sarebbe dimostrato riluttante ad assumersi grossi oneri finanziari nel settore), sia perché la norma relativa ai 50 bambini consentiva a molti enti locali di non costruire scuole e di non assumere maestri. Tutto ciò significava che i bambini dovevano recarsi a scuola a piedi nelle scuole vicine per rispettare l'obbligo scolastico.
Un primo importante progresso fu favorito dall'industrializzazione e dallo sviluppo della città.
A diffondere la lingua comune contribuirono anche la burocrazia e la leva militare. Gli impiegati dello stato furono costretti, almeno in pubblico, negli uffici, ad abbandonare il dialetto di origine. Fu un processo con influenze reciproche, nuove parole entrarono nell'uso comune. Dall'uso dei burocrati meridionali e dello spagnolo "encartamiento" dallo spagnolo "desguido" (trascuratezza), passato nel '600 nel dialetto napoletano, vengono l'italiano "disguido" e "incartamento".
Esercito e leva obbligatoria. La formazione di un unico esercito modificò questo stato di cose. Il servizio militare obbligatorio servì ad indebolire le tradizioni dialettali forti non solo fra i soldati analfabeti ma anche tra gli ufficiali.
L'organizzazione di un nuovo esercito era un altro grosso problema. Enormi difficoltà infatti dovevano essere superate per unire e fondere tra loro le forze militari provenienti dagli stati soppressi e per indurle ad accettare criteri e metodi propri dell'esercito piemontese, comandato da ufficiali di educazione aristocratica, poco adatti a suscitare attorno a sé simpatie e senso di cameratismo. Ad aumentare risentimenti e rancori contribuivano le polemiche sulla possibilità di immettere nell'esercito regio i volontari garibaldini, da molti guardati con sospetto per lo spirito rivoluzionario che li animava e considerati degli "indisciplinati sovversivi da mettersi al più presto in condizione di non nuocere". Suscitava anche grande malcontento il servizio militare obbligatorio, nel quale le popolazione centro-meridionali vedevano non già un dovere verso la patria, bensì un atto di prepotenza dei nuovi venuti, un sacrificio che senza l'animo dei "piemontesi" esse non avrebbero dovuto sopportare: in verità, la partenza di una giovane recluta recava spesso un danno economico alla famiglia povera, in quanto essa era privata per un lungo periodo del valido aiuto di due salde braccia.
Debito e finanza. Con la legge del 2 aprile 1865 venne successivamente realizzata l'unificazione legislativa, estendendo a tutto il regno il corpus giuridico piemontese, il 25 giugno dello stesso anno fu promulgato un codice civile unitario, ispirato a quello napoleonico. Va inoltre ricordato che il nuovo stato aveva ereditato la situazione finanziaria degli stati annessi, in sé e per sé quasi sempre disastrosa e per di più peggiorata dalle guerre e dai rivolgimenti degli ultimi anni. Ecco perché l'Italia, appena unita, si trovò a dover far fronte a rilevantissimi impegni finanziari senza possedere entrate sufficienti: basti ricordare che nel suo primo anno di vita il nuovo stato poté riscuotere 479 milioni di lire e ne pagò 925 con un disavanzo di ben 446 milioni, cifra enorme per quei tempi. Eppure tale situazione era destinata a peggiorare e a raggiungere nel giro di pochi anni livelli sempre più alti e preoccupanti. In più lo stato piemontese, specialmente sotto la guida di Cavour, aveva contratto debiti e aveva imposto ai sudditi forti tasse per pagarli, ma in compenso aveva creato le premesse per uno sviluppo economico di tipo di quello inglese e francese. L'unificazione significò forti tasse in tutto il paese (anche per pagare i debiti contratti durante la politica di guerra per l'unificazione d'Italia). Si trattò di imposte indirette, che ciò colpiscono i consumi e non i redditi, perché il Parlamento che le approvò e i governi che le decisero erano composti di rappresentati delle classi possidenti. Inoltre la situazione critica in cui l'economia italiana si trovava nel momento del suo inserimento nel mercato internazionale poneva l'esigenza di scelte drastiche: liberismo o protezionismo, sostegno all'industria o privilegiamento dell'agricoltura, sviluppo equilibrato Nord-Sud o primato delle aree più dinamiche, fiscalismo rigido o astensionismo statale in campo economico, sostegno alla domanda di mercato o prevalenza del risparmio e dell'investimento.
A complicare la situazione contribuiva il fatto che le varie regioni avevano pesi, misure e monete diversi, oltre che usi e costumi spesso contrastanti fra loro. Bisognava quindi ridurre a unità otto sistemi metrici e monetari diversi e fondere stati regionali da secoli strutturati in modo diverso ed amalgamare e avvicinare tradizioni, costumi morali, mentalità del tutto eterogenei tra loro.
Miseria e malattie. Anche dal punto di vista sanitario le cose lasciavano molto a desiderare. La miseria era causa di malattie particolari comela pellagra (dovuta a scarsezza di vitamine per un'alimentazione insufficiente a base di granoturco) e la malaria ( dovuta invece alla zanzara, diffusissima nelle regioni paludose della Maremma, delle Paludi Pontine, del Polesine, della Sardegna), o di malattie infettive quali il colera, che di tanto in tanto compariva e faceva strage fra la popolazione, e il tifo, diffuso per la scarsa igiene e per la mancanza di acquedotti specie nelle terre meridionali. Altrettanto grave si presentava il problema delle abitazione, spesso del tutto malsane e insufficienti alla crescente popolazione: una parte di questa era costretta a vivere in grotte, in capanne, in cantine o, nel migliore dei casi, entro misere stanze, talora addirittura prive di finestre.
Il brigantaggio meridionale. I primi anni di vita dello stato unitario furono per il Mezzogiorno continentale anni di violente, disperate insurrezioni contadine e di una lunga e sanguinosa guerra per bande nelle campagne. Le classi dirigenti definirono subito tutto ciò, sprezzantemente, "brigantaggio" e insistettero sullo stimolo e sul sostegno che ai "briganti" venivano dalla corte pontificia e da quella borbonica in esilio. Era evidente che si voleva così confermare presso l'opinione pubblica internazionale ed europea la tesi che si trattasse solo di un fenomeno di criminalità comune, al quale non si poteva rispondere che con provvedimenti repressivi e che avrebbe potuto essere stroncato solo con la soluzione definitiva della questione romana.
Guerriglie e rivolte assunsero però proporzioni tali da mettere a dura prova il nuovo stato: l'influenza borbonica sul brigantaggio e sui fatti, che esso ebbe a determinare, fu comunque di scarso rilievo e limitata nel tempo. I contadini passarono all'azione provati soprattutto dalla loro estrema miseria, dalla delusione provata dopo l'arrivo di Garibaldi, da concrete, anche se spesso confuse, rivendicazioni sulla terra. La mancanza, in Italia, di un partito che sapesse interpretare aspirazioni ed esigenze li lasciò privi di direzione e di obbiettivi politici. In quella situazione di grande arretratezza economica e sociale i contadini non potevano che dare alla loro lotta e alla loro protesta la forma della rivolta anarchica e violenta, della guerriglia o, quanto meno, dell'appoggio all'attività delle bande.
Il loro odio si rivolse innanzitutto contro i proprietari e contro i "liberali" che, spesso a ragione, identificavano con i primi; poi contro i "piemontesi", che della proprietà e dei proprietari apparivano i difensori.
Contro i "briganti" il governo scatenò una repressione feroce. Ai delitti brutali commessi nel corso delle rivolte rispose con rappresaglie atroci, alla guerriglia con esecuzioni sommarie. Le garanzie statutarie furono di fatto sospese proprio su quella parte della nazione alla quale erano state da poco estese e per le popolazioni meridionali lo Stato significò solo tribunali militari, leggi speciali, prigione, stato di assedio permanente.
Fu una "guerra" spietata - la prima dell'esercito italiano, e fu una guerra civile - fatta, più che di battaglie, di agguati e selvaggi combattimenti corpo a corpo, di stragi, di reati comuni e di vandalismi connessi da ambedue le parti. Infuriò tra l'autunno del 1860 e la fine del 1864, ma continuò, se pur in forme meno violente, fino agli inizi del 1870. Impegnò contro migliaia di "briganti" organizzati in 400 bande e guidati spesso da abili guerrieri come Crocco, Ninco-Nancò, Masini, Romano; Crocco, la Gala, due quinti dell'esercito italiano, ingenti forze di polizia, carabinieri, guardie nazionali, corpi di volontari. Devastò l'economia di intere province, provocando la distruzione di decine di paesi e la morte di migliaia di uomini.
Destra e Sinistra
I deputati al primo Parlamento italiano furono eletti da appena 300.000 votanti. La cartina, pubblicata da un giornale del tempo, Il Fischietto intende, divide i deputati in quattro gruppi. Le caselle bianche indicano i sedili in soprannumero.
Nei primi decenni dell'Italia unita, il Parlamento fu diviso in due grossi schieramenti: Destra e Sinistra. Questi nomi definivano due diverse correnti che in momenti diversi avevano assunto denominazioni diverse: moderati, monarchici, liberali o cavouriani, gli uni; democratici, repubblicani, mazziniani e garibaldini, gli altri.
Gli uomini della Destra erano i "moderati", espressione della cultura borghese e quindi delle classi più elevate seguaci delle idee politiche di Cavour, di cui intendevano continuare l'opera seguendone i metodi e lo spirito decisamente liberale e monarchico. Si trattava di un ceto politico omogeneo e compatto, composto da una stretta élite, "espressione di una società dominata dalla proprietà terriera e, in subordine, dalla banca" (G. P. Carocci), con una limitata rappresentanza di industriali tessili del nord. Ne facevano parte uomini come Urbano Rattazzi e Alfonso La Marmora, già protagonisti del connubio cavouriano; imprenditori come Quintino Sella e Giovanni Lanza (tutti piemontesi); i moderati toscani, che nel 1859 avevano svolto un ruolo decisivo nel determinare l'annessione al Piemonte (in primo luogo Bettino Ricasoli soprannominato il "barone di ferro "); infine i moderati emiliani Marco Minghetti e Luigi Farini. Il loro modello di gestione del potere si fondava su una base di rappresentanza estremamente ristretta e su un sistema elettorale che ammetteva al diritto di voto meno del 2% della popolazione, cioè solo l'aristocrazia del censo, del sapere e delle alte cariche pubbliche.
anno
popolazione
elettori
votanti
1861
25.017.000
400.000
200.000
1882
28.500.000
2.000.000
1.200.000
1913
35.000.000
8.400.000
5.100.000
1919
37.000.000
10.200.000
5.700.000
1946
45.500.000
29.000.000
27.000.000
Esso escludeva dalla vita politica la stragrande maggioranza dei cittadini e affidava alla classe politica un notevole potere di decisione e di governo, oltre a garantire una particolare stabilità grazie alla quasi assoluta omogeneità tra elettori e rappresentanti sia sul piano della composizione sociale sia su quello degli interessi e delle opinioni. In queste condizioni l'esercizio di un governo forte poteva essere conciliato con un moderato liberalismo, cioè col sopravvivere del regime parlamentare, evitando il ritorno della monarchia costituzionale e il primato del re sul parlamento. In politica economica essi erano rigorosamente liberisti in materia doganale, mentre caldeggiavano una relativa ingerenza dello stato nelle decisioni economiche e nel controllo delle strutture essenziali come le ferrovie e le banche, al fine di accelerare la formazione di un mercato unificato.
Gli uomini della Sinistra, tutti di tendenze progressiste, provenivano invece dalle file dei mazziniani e dei garibaldini, erano espressione della cultura democratica e per tanto ogni loro atteggiamento risentiva di uno spirito vivace e battagliero. Per il momento essi si trovavano in un raggruppamento, il Partito d'azione, che non era un partito organizzato nel senso moderno della parola ma un insieme di gruppi abbastanza simili nei loro propositi ideali e legati ad alcune personalità di rilievo. Appartenevano a questa corrente uomini come Domenico Guerrazzi, che era stato membro del "triumvirato toscano" nel 1849 insieme a Montanelli; Francesco Crispi, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella rivoluzione siciliana e che aveva preparato il terreno alla Spedizione dei Mille; i fratelli Cairoli, che avrebbero dato tanta parte di sé a nuove imprese per il completamento dell'unità; lo stesso Garibaldi, che più di ogni altro costituiva il simbolo di un'Italia creata per forza di popolo con l'entusiasmo e con l'ardimento eroico.
Un posto particolare occupava Urbano Rattazzi, l'uomo del famoso "connubio", il quale, pur simpatizzando per la sinistra, si mostrava propenso ad imitare i metodi di Cavour senza però averne le capacità realizzatrici.
Tutti costoro avversavano la politica della Destra: essi infatti avrebbero voluto risolvere le questioni rimaste sul tappeto ( prime fra tutte quelle che impedivano la completa attuazione dell'unità territoriale) con i metodi e l'impegno della Spedizione dei Mille.
La politica interna della destra
Lo schieramento politico che assunse la direzione del governo dopo l'unificazione, fu quello della Destra: né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il peso economico e militare del rinascimento era stato sostenuto soprattutto dai moderati liberali uniti alla monarchia sabauda. Rimasti al potere per circa 15 anni dal 1861 al 1876, essi però suscitarono un diffuso malcontento a causa del modo in cui affrontarono i numerosi e gravi problemi del nuovo stato.
Una delle prime scelte di politica interna riguardò l'applicazione a tutto il territorio nazionale, senza alcuna gradualità, della tariffa doganale del Piemonte, inferiore quasi dell'80% rispetto a quelle degli stati preunitari più protetti, come il Regno delle due Sicilie. Quella scelta, inserendo i produttori italiani nel contesto europeo liberoscambista, spingeva le aree agricole più dinamiche - pianura padana ed emiliana - ad accelerare il processo di modernizzazione già avviato; però nello stesso tempo esponeva le aree più arretrate e meno competitive a contraccolpi disastrosi e sacrificava le già deboli industrie meccaniche e metallurgiche, incapaci di reggere la concorrenza delle imprese europee, più sviluppate.
La seconda grande scelta riguardò la politica di bilancio: si trattava di decidere se puntare sull'ampliamento del mercato, scontando anche un prolungamento del deficit ed affidando al successivo sviluppo il compito di eliminarlo, oppure se perseguire una rigorosa politica di pareggio di bilancio. Gli uomini della destra "in base ai dettami delle teorie allora in auge secondo cui il pareggio di bilancio o, meglio ancora, le eccedenze attive di esso erano l'indice più sicuro della prosperità e della forza di un regime", scelsero la seconda soluzione, "anche a costo di impoverire i capitali destinati alle imprese agricole e industriali e di rendere più drammatica la povertà in cui si dibattevano i ceti sociali inferiori " (T. Nada).
Tuttavia il carico fiscale non fu distribuito in misura proporzionale rispetto al censo dei vari strati sociali. Mentre si mantenne decisamente bassa l'imposta fondiaria, favorendo così la grande proprietà terriera e la rendita, furono colpiti in misura maggiore i redditi dei settori industriali e commerciali, ma soprattutto, con il ricorso alle imposte dirette, si colpì indiscriminatamente tutta la popolazione, in particolar modo le masse contadine più povere. Su queste ultime pesava la famigerata "imposta sul macinato" del 1868, che incideva direttamente sul prezzo del pane. Questa imposta doveva essere pagata al mugnaio da colui che aveva portato il grano alla macina, prima del ritiro della farina: essa comportava quindi un aggravo di costi per i coltivatori, che si ripercuoteva inevitabilmente sul prezzo del pane e quindi sul tenore di vita dei ceti più bassi, della cui dieta il pane rappresentava una parte consistente.
La pesantezza di questa politica e del carico fiscale fu ulteriormente accentuata dal carattere statale e legislativo della via piemontese all'unificazione. Il riconoscimento del debito pubblico e degli impegni finanziari assunti dagli stati preunitari, la sopravvivenza delle vecchie burocrazie, determinata dalla volontà di non rompere con alcuna frazione delle classi proprietarie, fece sì che il deficit di bilancio aumentasse enormemente. Inoltre la classe politica della Destra storica non ricorse all'aiuto dei privati, ma impegnò direttamente lo stato nella costruzione e nel finanziamento delle infrastrutture essenziali all'unificazione economica: nelle ferrovie furono investiti ben 1.850 milioni e in un ventennio la rete rotabile raggiunse gli 8.700 Km, le strade 3.500 Km. Tutto ciò, sommato agli investimenti su poste e telegrafo, impose ulteriori carichi all'erario.
La questione meridionale
All'atto dell'unificazione italiana, tra il 1860 e il 1861 era generale la convinzione che tra le due maggiori parti del paese - l'area padana e l'area meridionale - le differenze di vita fossero dovute unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. Secoli di dominazione straniera e di malgoverno, culminati in ultimo nel disastroso regime borbonico degli ultimi anni, avevano "annichilito la prosperità e l'indole degli abitanti di un paese naturalmente felice e fortunato, favorito fin troppo dalla natura per il suo clima e per la prodigiosa fertilità delle sue terre. [...] Un regime di libertà, un riscatto nazionale, la penetrazione non più impedita della civiltà in tutti i suoi angoli avrebbero, anche in breve tempo, restituito al Mezzogiorno l'antica prosperità di cui raccontavano le storie della Magna Grecia, della Sicilia mussulmana, della monarchia normanna e sveva".
In realtà poco fu fatto dai governanti del regno a vantaggio del Mezzogiorno d'Italia. Il sistema fiscale, il regime di liberismo negli scambi interni ed internazionali, gli ordinamenti amministrativi, la legislazione penale e civile furono adeguati a quelle del Piemonte sabaudo. Non si tenne conto che il Mezzogiorno era vissuto fino ad allora in un regime di lieve pressione fiscale e aveva potuto mantenere una moneta forte e stabile ed anche accumulare riserve bancarie di tesoreria non perché fosse ricco e la sua ricchezza non fosse appieno sfruttata, ma solo perché un regime politico fortemente conservatore aveva ridotto al minimo gli impegni dello stato nei lavori pubblici e nella costruzione delle grandi infrastrutture di un paese moderno (strade, ferrovie, scuole, etc.). La pressione fiscale si scaricò così su un'economia che per la sua sostanziale fragilità e precarietà non era in grado di sostenerla. Il regime liberistico travolse quel po' di sviluppo manifatturiero che molto faticosamente aveva attecchito intorno alla capitale negli ultimi tempi dei Borboni.
Dopo due o tre decenni di vita unitaria si cominciò, pertanto, a parlare di una "questione meridionale" e prese l'avvio il "meridionalismo", ossia una riflessione organica sui problemi che si ponevano nell'Italia unita per il forte dislivello fra le due sezioni del paese, che con gli anni, invece di diminuire, andava crescendo.
Alla prima fase del pensiero meridionalistico appartiene la riflessione di Giustino Fortunato. A lui è dovuta la più convinta e appassionata adesione all'dea dell'unità d'Italia contro i nostalgici della secolare indipendenza napoletana, che attribuivano all'unità i mali del Mezzogiorno su cui si alzava ora un velo di cui non si era sospettata l'esistenza. Fortunato affermò con fermezza che, se non si fosse legato allo Stato italiano, il Mezzogiorno non avrebbe potuto essere sottratto a un destino africano o balcanico data la scarsezza delle sue risorse naturali e la debolezza della sua struttura sociale. E alla chiarificazione della povertà naturale del Mezzogiorno Fortunato dedicò tutte le sue migliori energie mettendo in luce come, malgrado la "dorata menzogna" il Mezzogiorno fosse in realtà un paese di aspre e brulle montagne, con pochissime pianure, largamente disboscato e perciò preda dell'erosione naturale, con un regime pluviale e idrologico disastroso, condannato ad una lunga siccità estiva, con terreni argillosi e calcarei perennemente frananti, incapaci di garantire l'humus necessario ad un'agricoltura degna di questo nome. Perciò Fortunato raccomandava estrema prudenza nel governo economico e fiscale di un paese così diverso dall'immagine che se ne aveva, sollecitando un trattamento che permettesse di alleggerire la condanna della natura e di facilitarne la relativa fioritura come ne era possibile.
Intanto però grandi trasformazioni non mancavano di aver luogo nel Mezzogiorno; le varie province si scioglievano dall'antica soggezione e dipendenza verso Napoli e, in Sicilia, verso Palermo; un progresso agrario importante aveva luogo in alcune zone come le pianure campane e pugliesi, la conca di Palermo, la piana di Catania; la commercializzazione dei prodotti agrari si faceva sensibile; si sviluppava, oltre alle due capitali, tutta una serie di altri ragguardevoli centri urbani (specialmente Bari e Catania); veniva creata una rete ferroviaria, sia pure estesa di gran lunga più in senso longitudinale che latitudinale, e cioè volta più a collegare il Sud con il Nord, che le varie parti del Sud tra loro; migliorava il livello dell'istruzione e della vita pubblica. Proprio questo miglioramento rendeva, peraltro, più traumatica la constatazione dell'impotenza con cui la differenza tra le due Italie si andava sempre più palesando.
Alla fine degli anni 80 i contrasti che portarono a una vera e propria guerra economica con la Francia - maggior cliente del Mezzogiorno agrario di allora - inflissero un duro colpo all'agricoltura meridionale nella parte che di essa di era più sviluppata. In quegli stessi anni la reazione alle nuove condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno - che fra il 1860 e il 1865 si era manifestata con il vasto movimento di un brigantaggio in parte mosso da manovre clericali e borboniche in parte dal disagio per l'ampia alienazione dei demani comunali e dei beni confiscati al clero a favore della borghesia meridionale - trovò sbocco nel movimento migratorio torrenziale che nel giro di un paio di decenni portò alle lontane Americhe alcuni milioni di meridionali e di Siciliani.
Fu dinanzi a queste contraddizioni e a questi più urgenti e stringenti problemi che maturò alla fine del secolo lo sforzo di riflessione di Francesco Saverio Nitti. La tesi principale di Nitti era che lo sviluppo settentrionale e il sottosviluppo meridionale dopo l'unità fossero stati determinati fondamentalmente, nella loro relazione, dal forte drenaggio dei capitali meridionali attraverso il fisco e il credito e dall'indirizzo della politica doganale, prima liberistico e poi, con la conseguente rottura con la Francia, protezionistico nei settori (siderurgia, zucchero, grano, etc.) più gravosi. Nitti perciò proponeva una politica di intervento e una politica sociale in grado di avviare una vera e propria industrializzazione del Mezzogiorno a partire da Napoli.
Puntare sull'industrializzazione rappresentò la maggiore novità. Nello stesso tempo la corrente degli economisti favorevoli al libero scambio sviluppava in particolare il tema contro il protezionismo. Il Socialismo italiano aveva dedicato poca attenzione, nel complesso, al problema meridionale vedendo il nodo della questione sociale in Italia là dove si affrontavano un proletariato e un capitalismo moderno, ossia nell'Italia settentrionale e, ciò malgrado i Fasci siciliani nel 1892-1894 e gli episodi meridionali della crisi del 1898 avessero dimostrato che il Mezzogiorno era un punto estremamente critico dell'organismo nazionale. Gaetano Salvemini assunse perciò una posizione assai originale quando vide nella questione meridionale una causa che andava differenziata anche secondo le classi sociali; individuò nella grande borghesia agraria che si avvantaggiava del dazio sul grano e nella piccola borghesia urbana le zone da combattere nella società meridionale; e prospettò un'alleanza di classe fra contadini del Sud e operai del Nord e il suffragio universale (a cui si giunse nel 1913) come elementi decisivi per far contare le masse rurali del Sud e dar luogo alla soluzione del problema meridionale.
LA QUESTIONE ROMANA
Alla questione sociale, costituita dalla rivolta meridionale, si affiancava, senza tuttavia intrecciarsi, la questione del completamento dell'unità, a cominciare dalla questione romana, resa incandescente dalla decisione del primo Parlamento italiano di dichiarare, nella seduta del 27 marzo 1861, Roma capitale d'Italia mentre ancora la città era saldamente in mano al papa, garantito dall'appoggio delle principale potenze europee.
A favore di una sua rapida conquista si erano mobilitati in particolare il Partito d'azione e più in generale i democratici. Dopo che i moderati erano riusciti a dirigere e controllare pienamente il processo di unificazione, per la corrente democratica risorgimentale la questione romana era rimasta praticamente l'unico cavallo di battaglia, l'unico tema qualificante per conservare e recuperare un'identità e una presenza politica significativa. In effetti essa si prestava particolarmente allo scopo: in primo luogo la rilevanza internazionale della questione romana la poneva al centro di difficili equilibri della complessa rete di alleanze tessuta dai moderati nel contesto europeo. Far precipitare la situazione accelerando e forzando il processo di unificazione -ponendo, cioè la questione in termini rivoluzionari- avrebbe significato mettere in gravissima difficoltà la destra, farne emergere le contraddizioni e porne in crisi l'intera politica estera. Tanto più che l'ondata di generale simpatia di cui aveva goduto tra le potenze liberali la rivoluzione italiana era andata rapidamente spegnendosi e l'Italia, costituitasi più grande del previsto, era ora guardata con generale diffidenza.
In secondo luogo, l'inseparabilità della questione romana dalla più generale problematica politico-religiosa esasperava la contrapposizione tra l'intransigente anticlericalismo (e per certi aspetti anticattolicesimo) dei democratici e la logica più mediatrice e compromissoria di parte della destra. La formula separatista cavouriana "libera chiesa in libero stato" si basava infatti sull'idea di un compromesso stabile tra Stato liberale e Chiesa cattolica, fondato sulla rinuncia da parte della seconda al proprio potere temporale in cambio del dominio spirituale, e sull'impegno del primo a garantire non solo la piena libertà religiosa ma il "primato etico-civile del cattolicesimo come base della vita nazionale". In questo senso si erano orientate le trattative avviate da Cavour con la Santa Sede. E nella stessa direzione si era mosso Bettino Ricasoli, che il 12 giugno 1861 gli successe alla giuda del Governo. Cattolico praticante, il barone Ricasoli aveva tentato sia di convincere Pio IX a una soluzione negoziata, sia di ammorbidire la posizione francese sulla questione. Ma aveva ricevuto un doppio rifiuto: Pio IX difese il proprio potere temporale con intransigenza, opponendo un netto "non possumus" alle ipotesi diplomatiche italiane; Napoleone III protrasse ulteriormente la permanenza delle truppe francesi nello Stato Pontificio, avvertendo nel contempo che un'iniziativa italiana su quel territorio sarebbe stata considerata come un'aggressione diretta. Contestato sia dalla destra, che avrebbe preferito maggiore cautela, sia dalla sinistra, che caldeggiava una politica estera più aggressiva minacciando il ricorso all'azione diretta di tipo garibaldino, dopo appena nove mesi di governo, il 3 marzo del 1862, Ricasoli dovette rassegnare le dimissioni.
Lo sostituì Urbano Rattazzi, più vicino alle posizioni della sinistra e comunque convinto dell'opportunità di ripetere la mossa cavouriana del 1860 attraverso uno spregiudicato uso dell'azione extra-governativa garibaldina. Così Garibaldi si diede ad organizzare gruppi di volontari nel Veneto, incoraggiato dal tacito assenso del governo italiano che, secondo una tecnica sperimentata, sperava di poter trarre vantaggio dall'azione dal basso senza compromettersi. Ma il clima internazionale era cambiato. L'appoggio dell'Inghilterra non era più incondizionato come un tempo. E l'atteggiamento della Francia, fattasi ben più guardinga nei confronti della potenza cresciutale ai confini meridionali, rimaneva intransigente. Perciò, quando Napoleone III dichiarò la sua aperta ostilità a ogni iniziativa, Rattazzi e il re intervennero sciogliendo con la forza le organizzazioni dei volontari.
Ancora più energicamente il governo intervenne quando Garibaldi, pochi mesi più tardi, tentò l'avventura dal sud, concentrando i propri volontari in Sicilia e puntando su Roma, nel tentativo di ripetere la gloriosa impresa di due anni prima, portandola questa volta al suo estremo compimento (liberazione di Roma: «O roma o morte!»). Il governo italiano, pressato dalla Francia, proclamò lo stato di assedio, ordinando alle truppe regolari di fermare i volontari garibaldini con la forza. Lo scontro avvenne il 29 agosto sulle pendici dell'Aspromonte, in Calabria, dove l'esercito italiano, intercettate le colonne in marcia, non esitò ad aprire il fuoco. Garibaldi fu ferito (come recita il canto popolare dedicato all'episodio: «Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda i suoi soldà»), arrestato e rinchiuso nel forte Varignano. Ma il governo Rattazzi non sopravvisse alla crisi che ne nacque e pochi mesi più tardi, l'8 dicembre 1862, fu costretto a dimettersi.
Dal fallimento dell'avventura romana erano usciti sconfitti tanto i moderati (i cui tentennamenti avevano inferto una ferita profonda all'orgoglio nazionale), quanto i democratici (i cui metodi rivoluzionari si erano rilevati inefficaci). Soprattutto era risultato impraticabile, nella nuova situazione nazionale, quell'intreccio tra diplomazia moderata e azione diretta democratica che aveva invece dominato la fase precedente. Da quel momento in avanti i governi dovettero adottare una tattica del tutto diversa, fatta di tante trattative diplomatiche e attenta a sfruttare gli spiragli aperti nel quadro europeo dalle contraddizioni tra le potenze dominanti.
Questa via seguì il ministero presieduto dal moderato bolognese Marco Minghetti, succeduto nel marzo 1863 al governo di transizione di Luigi Carlo Farini. Convinto della necessità di una soluzione consensuale della questione romana, Minghetti si mosse sul piano diplomatico con l'obbiettivo prioritario di rassicurare le grandi potenze e in particolare la Francia. Il 15 settembre del 1863 questa politica diede un primo significativo risultato, con la firma di un accordo (la Convenzione di Settembre) con Napoleone III, in base al quale il governo italiano si impegnava a difendere i confini dello stato pontificio e a stabilire la propria capitale a Firenze (si trattava di una implicita rinuncia a Roma capitale), in cambio del ritiro delle truppe francesi entro due anni. In questo modo ci si garantiva la benevolenza di Napoleone III (il cui presidio di Roma incominciava a costare eccessivamente) e contemporaneamente si ponevano i democratici di fronte al fatto compiuto.
Ma l'ondata di impopolarità di tale soluzione travolse il governo. I democratici denunciarono con forza il carattere di definitiva rinuncia a "Roma capitale" della Convenzione e il rischio di un "Aspromonte permanente" implicito nell'impegno italiano a tutelare i confini pontifici. Torino insorse il 21 settembre contro la decisione di trasferire la capitale; ci fu una sanguinosa repressione che causò 30 morti. Minghetti fu così costretto alle dimissioni (23 settembre 1864) e venne sostituito alla guida del governo dal generale La Marmora (28 settembre 1864).
Il Vaticano, allarmato dalle possibili conseguenze dell'accordo italo-francese, accentuò ulteriormente il proprio atteggiamento di intransigente chiusura, ribadendo duramente la condanna del liberismo e di ogni forma di modernizzazione. Nel dicembre 1864 fu pubblicata l'enciclica papale Quarta Cura, insieme ad un Sillabo di errori che comprendeva tutti i principi essenziali del liberismo. Tra le tante proposizioni enunciate, la settantanovesima asseriva che la libertà di discussione corrompe le anime e la trentaduesima che il clero ha un diritto naturale ad essere esentato dal servizio militare. La tolleranza religiosa, la libertà di coscienza e di stampa, la legislazione eversiva, furono tutte condannate, insieme con il socialismo, il razionalismo e le associazioni per la diffusione della Bibbia, ed era recisamente negato che il Papa dovesse o potesse scendere a compromessi "col progresso, col liberismo, colla moderna civiltà".
Il Sillabo suscitò enorme indignazione, e per quanto la parte meno illiberale del clero si affrettasse a mettere in dubbio sia il significato di esso che la sua autorità, la maggior parte della gerarchia ecclesiastica lo accolse come un pronunciato infallibile (in base al dogma dell'infallibilità del papa in materia di dottrina). In seguito non mancarono alcuni suoi difensori che affermarono che esso non impediva ad un cattolico di definirsi liberale in politica. In effetti, dato che le proposizioni condannate si stavano diffondendo rapidamente, c'era da aspettarsi che la chiesa cambiasse metro e venisse a patti con il liberismo e la civiltà moderna in un futuro non troppo lontano. La sua pubblicazione originaria comunque, apparve come un grave colpo inflitto alle tendenze favorevoli al compromesso e provocò un'ondata di anticlericalismo.
Francesco Crispi annunciò al Parlamento che la cristianità doveva venir purgata dai vizi della Chiesa romana o altrimenti perire. Successivi governi conservatori proposero che i seminari fossero sottoposti a controllo governativo, che i prefetti potessero, quando necessario, interferire perfino nella celebrazione dei riti religiosi e che i sacerdoti potessero essere rinviati a giudizio qualora rifiutassero l'assoluzione a quanti fossero stati scomunicati per motivi politici. La successiva legge del 1866 soppresse quasi tutti gli ordini e le congregazioni religiose e confiscò i loro beni. Circa 13.000 enti ecclesiastici erano stati soppressi e in base a questa nuova legge altri 25.000 seguirono la stessa sorte. A parziale giustificazione venne fatto osservare che era giusto che una parte dei beni della Chiesa passasse allo Stato ora che questo intendeva assumersi la responsabilità dell'istruzione e della pubblica beneficenza. I redditi delle parrocchie vennero lasciati intatti, ma i capitoli delle chiese cattedrali ed i vescovi furono anch'essi costretti a cedere allo Stato le loro proprietà ricevendo in cambio il 5% (dopo aver operata la deduzione di tre decimi per scopi educativi e di pubblica beneficenza). I seminaristi furono tenuti a compiere il servizio militare ed il nuovo codice civile non diede sanzione legale ai matrimoni che non fossero stati celebrati secondo il rito civile.

La terza guerra di indipendenza
Dal 1861 in poi, Venezia e Roma furono la preoccupazione costante della politica estera italiana; l'unico dubbio era quanto a lungo sarebbe stato necessario attendere prima di combattere la terza guerra di liberazione contro l'Austria. Ma il passaggio a Grande Potenza non era per nulla facile.
Cavour aveva desiderato una guerra generale europea che gli desse agio di esplicare la sua consumata abilità diplomatica e consentisse all'Italia di esercitare un certo peso sulla bilancia dell'equilibrio politico. Ma neppure sarebbe arretrato al pensiero di affrontare l'Austria anche senza alleati, in quanto calcolava che l'Italia avesse comunque più da guadagnare di quanto l'Europa potesse consentire che perdesse. Invece dopo la sua morte la politica estera italiana divenne assai più timida. L'appoggio della Francia era ormai meno deciso, in quanto Luigi Napoleone preferiva mantenersi la simpatia dei clericali francesi e l'Italia d'altra parte era già grande abbastanza da far concepire qualche dubbio alla sua vicina d'oltralpe.
Mazzini e Garibaldi invitavano il re a marciare su Venezia, minacciando di riprendere la propaganda repubblicana. Mazzini argomentava che l'Austria era alle prese con una grande crisi finanziaria e il re, convinto a metà, entrò nel 1863-1864 in segreta relazione con Mazzini stesso. I suoi ministri, completamente all'oscuro delle iniziative di Vittorio Emanuele, stavano nel frattempo tentando di attirare le potenze occidentali in una guerra con la Russia nella speranza che l'Italia potesse approfittare in qualche misura del rimescolamento generale.
Il re, sapendo che gli Inglesi volevano un'Austria forte per la conservazione della stabilità europea, pretese dapprima che le intenzioni dell'Austria fossero sondate per via diplomatica. Dall'altra parte alcuni uomini di stato e finanzieri austriaci si rendevano conto che la minaccia prussiana e la crisi finanziaria messe insieme rendevano consigliabile tenere buona l'Italia. Dato che fra i due paesi non esistevano ancora normali relazioni diplomatiche, i negoziati vennero aperti attraverso privati; ma le trattative fallirono perché l'Italia (o quantomeno la monarchia) voleva la guerra. La Marmora intanto aveva contemporaneamente avviato delle conversazioni con la Prussia, un fatto questo di cui l'Austria era perfettamente a conoscenza grazie a dei messaggi che era riuscita ad intercettare e a decifrare, e inoltre stava già mandando degli ufficiali travestiti al di là della frontiera austriaca per preparare le ostilità.
L'errore dell'Italia di voler trattare contemporaneamente con l'Austria e con la Prussia divenne palese quando l'Austria all'ultimo momento offrì di cedere pacificamente Venezia in cambio della neutralità italiana. La Marmora fu costretto a respingere questa saggia e generosa offerta in quanto riteneva che l'onore italiano fosse ormai impegnato ad aiutare la Prussia nella guerra. In quanto soldato che voleva dirigere una campagna, l'idea di un compromesso non gli andava a genio, ed inoltre egli calcolava, a torto, che la guerra avrebbe fruttato il Trentino oltre al Veneto.
Un trattato segreto di alleanza con la Prussia venne così firmato nell'aprile 1866: nel caso di una guerra vittoriosa contro l'Austria, l'Italia avrebbe ottenuto il Veneto ma non il Trentino che Bismarck aveva escluso dagli accordi sostenendo che si trattava di territorio tedesco. La Marmora aveva l'intenzione di combattere la sua guerra per conto proprio e respinse per tanto il suggerimento di firmare pure una convenzione militare e collaborare ai piani strategici prussiani (era noto che Bismarck, d'accordo con Garibaldi, desiderava che gli Italiani varcassero l'Adriatico e incitassero gli Slavi e gli Ungheresi alla rivolta).
Una clausola del trattato segreto prevedeva, inoltre, che nessuno dei due paesi potesse concludere un armistizio o la pace senza l'assenso dell'altro. Il trattato si sarebbe dovuto considerare decaduto se entro tre mesi la Prussia non avesse dichiarato guerra all'Austria.
Quasi contemporaneamente alla firma del governo italiano iniziò la mobilitazione dell'esercito; 130.000 riservisti furono richiamati, mentre numerosi volontari accorrevano alla chiamata di Garibaldi che si era messo a disposizione del re. Quando il 17 giugno del 1866 la Prussia dichiarò guerra all'Austria il presidente del consiglio italiano, La Marmora, si dimise per raggiungere lo stato maggiore al fronte, cedendo la guida del governo a Bettino Ricasoli. Il 20 giugno anche l'Italia entrò ufficialmente in guerra: l'inizio delle operazioni militari, la cui guida fu assunta formalmente da Vittorio Emanuele II, fu fissato per il giorno 23. Le cose assunsero ben presto una brutta piega, nonostante che gli Austriaci fossero duramente impegnati sul fronte settentrionale dai Prussiani e potessero contare sul fronte italiano su scarse risorse. La Marmora, superato il fiume Mincio alla testa di forze numericamente superiori, fu affrontato a Custoza il 24 giugno dagli Austriaci, comandati dal duca Alberto d'Asburgo, mentre avanzava a ranghi dispersi e senza avere un'esatta cognizione della dislocazione del nemico, e costretto a una disonorevole ritirata.
All'origine dell'indecorosa sconfitta vi furono clamorosi errori strategici, ingenuità, disorganizzazione; ma un ruolo decisivo fu giocato dalla rivalità che divideva i due comandanti di fatto dell'esercito, il generale La Marmora (che guidava il grosso delle truppe attestato sul Mincio) e il generale Cialdini (schierato sul basso Po); tale rivalità continuò ad impedire una controffensiva italiana, nonostante il numero delle perdite fosse stato fino ad allora limitato (714 caduti italiani e 1.170 austriaci).
Solo i volontari di Garibaldi si fecero onore in quella campagna, sconfiggendo gli Austriaci il 3 luglio e penetrando profondamente nel Trentino: il 21 luglio dopo una seconda vittoria a Bezzecca, si aprirono la strada verso Trento.
Ma una seconda catastrofe militare gettò una profonda ombra di discredito sull'Italia: il 20 luglio, nei pressi dell'isola dalmata di Lissa, la flotta comandata dall'ammiraglio Carlo Pellion di Persano fu clamorosamente sconfitta dall'ammiraglio austriaco Wilhelm Von Tegetthoff, perdendo la cannoniera Palestro e la nave ammiraglia Re d'Italia. Ciò indebolì gravemente la posizione italiana nei confronti dell'alleato prussiano: Bismarck, infatti, raggiunti i propri obbiettivi, scelse di non umiliare eccessivamente l'Austria e firmò l'armistizio il 26 luglio senza neppure interpellare il governo italiano (in aperta violazione del trattato dell'8 aprile). Questo si trovò a dover scegliere se proseguire la guerra da solo o rassegnarsi a chiedere un poco onorevole armistizio separato, rinunciando a parte delle conquiste.
Fu questa la soluzione prescelta: l'8 agosto il governo ordinò a Garibaldi di ritirarsi dal Trentino, che aveva in buona parte occupato con i suoi volontari. Garibaldi rispose, a malincuore, con il celebre telegramma: "Ho ricevuto il dispaccio n° 1073. Obbedisco". L'armistizio fu firmato il 12 agosto a Cormons, vicino a Gorizia.
Il trattato di pace tra Prussia e Austria, siglato a Praga il 23 agosto 1866, non prenderà neppure in considerazione l'Italia, riservando alla questione del Veneto una soluzione umiliante: esso sarebbe stato ceduto formalmente dall'Austria a Napoleone III, il quale avrebbe provveduto a trasferirlo all'Italia; Trentino e Venezia Giulia sarebbero rimasti all'Austria. Questa soluzione venne approvata e sanzionata anche dal trattato di pace tra Austria e Italia, siglato a Vienna il 3 ottobre 1866, con cui l'imperatore austriaco riconosceva anche il Regno d'Italia.
Il 19 ottobre 1866 il generale austriaco Karl Maring consegnò ufficialmente Venezia al generale francese Edmondo Le Boeuf, il quale a sua volta la cedette ai rappresentanti della città lagunare. Due giorni più tardi, il 21 ottobre, un plebiscito sanzionò l'unione del Veneto al Regno d'Italia; furono solo 69 i voti contrari su 647.426 votanti (la popolazione della regione era di 2.603.009 abitanti).

LA PRESA di ROMA
La conclusione disonorevole della terza guerra d'indipendenza non passò senza conseguenze sulla situazione politica interna. Da una parte i mazziniani, dall'altra i cattolici, lanciavano violente bordate contro l'amministrazione moderata. A ciò si aggiunse la crisi del governo Ricasoli, formalmente determinata da un voto di sfiducia sul divieto di tenere comizi sulla legge ecclesiastica, e la sua sostituzione con un gabinetto presieduto da Rattazzi (10 aprile 1867).
Fu in questo clima politico, avvelenato dalle polemiche e segnato dalla crescente impopolarità del governo, che maturò l'ultima impresa del Partito d'azione, intenzionato a far marciare su Roma un piccolo esercito di volontari comandato da Garibaldi e a giocare la carta dell'insurrezione popolare nella capitale. Ancora una volta Rattazzi assunse un atteggiamento ambiguo, prima approvando tacitamente l'impresa, poi (richiamato da Napoleone III agli impegni assunti dal governo italiano), facendo arrestare Garibaldi a Sinalunga, in provincia di Siena (24 settembre) e costringendolo al soggiorno obbligato a Caprera.
Ciò tuttavia non riuscì a fermare l'azione. Pochi giorni più tardi, infatti, eludendo il blocco navale intorno all'isola, Garibaldi riuscì a raggiungere la Toscana e a prendere il comando di oltre 9.000 volontari. Contemporaneamente Napoleone III, ritenendo violati gli accordi, ordinò la partenza da Tolone di un corpo di spedizione di 20.000 uomini diretti a Roma per garantire la protezione al Papa.
Un primo tentativo di insurrezione fallì tra il 22 e il 23 ottobre: un gruppo di volontari, penetrati nella città alla guida dei fratelli Enrico e Giovanni Cairoli con l'obbiettivo di portare armi agli insorti, si scontrò con le guardie pontificie a Villa Glori. I morti furono 76, compresi i due comandanti. Tre giorni più tardi Garibaldi, raggiunto Monterotondo, a pochi chilometri da Roma, costrinse il presidio pontificio alla resa; ma il 3 novembre a Mentana - l'ultimo avamposto sulla strada della capitale - subì una dura sconfitta ad opera della guarnigione francese sbarcata nel frattempo a Civitavecchia, superiore di numero e soprattutto armata dei nuovissimi fucili a retrocarica Chassepots. Costretto a ripiegare in territorio italiano, Garibaldi fu arrestato dalle truppe regie e rinviato a Caprera.
L'ondata di indignazione dell'opinione pubblica contro il governo presieduto dal generale Luigi Menabrea (succeduto a Rattazzi il 27 ottobre 1867, nel pieno della crisi romana) e contro la Francia fu fortissima. Essa si saldò alla crisi sociale aperta dalla legge sul macinato. Il 14 dicembre 1869 il governo Menabrea fu costretto a dimettersi sostituito da un ministro presieduto dal piemontese Giovanni Lanza, che si avvalse, come ministro delle finanze, dell'opera particolarmente efficace di Quintino Sella. Si trattava di una svolta rispetto ai precedenti governi, retti da uomini di fiducia del re (il "partito della corte"), spesso senza grande esperienza politica ed economica. Esso si dedicò in primo luogo al risanamento finanziario e al pareggio di bilancio, assumendo provvedimenti assai severi (tra cui inasprimenti delle imposte dirette e indirette, tagli alla spesa militare, riduzione degli uffici centrali e periferici).
Il governo Lanza godette anche di una situazione internazionale particolarmente favorevole e ne approfittò per risolvere definitivamente la questione romana. Il conflitto scoppiato il 19 luglio 1870 tra Francia e Prussia creò le condizioni per un facile intervento militare italiano.
Già all'inizio di agosto Napoleone III fu costretto a ritirare il piccolo corpo di spedizione di stanza nel Lazio, mentre in tutta l'Italia cresceva la richiesta popolare affinché il governo accelerasse una soluzione di forza. Il primo settembre l'imperatore francese cadde prigioniero dei Prussiani e il 4 fu proclamata a Parigi la repubblica; il 5 il governo italiano decise all'unanimità di occupare Roma.
Il conte Gustavo Ponza di S. Martino fu inviato nella capitale con l'incarico di tentare di concordare una soluzione pacifica con Pio IX: il re Vittorio Emanuele II offriva al Papa "tutte le garanzie necessarie all'indipendenza spirituale della santa Sede". Ma il pontefice respinse recisamente ogni trattativa e l'esercito italiano, comandato dal generale Cadorna, invase lo Stato Pontificio senza incontrare resistenza. Solo per penetrare nella città fu necessario usare la forza: il 20 settembre 1870 l'artiglieria italiana aprì una breccia nelle mura presso Porta Pia e la città fu conquistata. Caddero 49 soldati italiani e 19 soldati pontifici. Il 2 ottobre un plebiscito sanzionò l'annessione di Roma e del Lazio all'Italia: su 135.188 votanti 133.681 furono favorevoli, 1.507 contrari.
Un mese più tardi Pio IX emanò l'enciclica "Respicientes" con cui dichiarò "ingiusta, violenta, nulla e invalida" l'occupazione italiana, denunciò la condizione di cattività del pontefice e scomunicò il re d'Italia. Per parte sua il senato italiano votò, il 27 gennaio 1871, il trasferimento della capitale da Firenze a Roma con 94 voti favorevoli e 39 contrari.
Finiva così l'ultimo brandello del potere temporale della Chiesa e al movimento democratico venivano sottratti un obbiettivo e un argomento di agitazione politica che ne avevano qualificato l'azione. Da allora la sinistra muterà la propria identità assumendo connotati profondamente diversi. I cattolici, invece, non modificarono la loro posizione di rigida contrapposizione nei confronti del nuovo stato italiano, nonostante che il parlamento avesse garantito per legge («legge delle guarentigie», del 21 marzo 1871) alla Chiesa l'assoluta libertà di culto e la sovranità sui palazzi vaticani, del Laterano e della villa di Castel Gandolfo considerati fuori del territorio (extraterritorialità), assegnandole una congrua donazione annua pari a quella che l'erario pontificio versava per il mantenimento della corte papale. Occorreranno alcuni decenni perché venga rimosso l'esplicito e tassativo divieto di Pio IX di partecipare anche solo con il voto alla vita politica (il non expedit).

Gli ultimi anni della destra:
il rallentamento dello sviluppo
La decisione di fare di Roma la capitale nazionale creò dei problemi particolari. La città era divisa in "neri" e "bianchi", un po' come i Guelfi e Ghibellini di un tempo (salvo che in questo caso i papalini sono i neri). L'aristocrazia "nera", che a dire il vero aveva fatto ben poco per difendere il papa, si rifaceva adesso tenendosi in disparte dalla corte anteponendo il suo sentimento religioso ai suoi doveri civili. Certo vi era un graduale processo di conversione all'idea nazionale italiana ma per molti anni vi furono a Roma due società distinte, due corti e due corpi diplomatici.
I governi che si susseguirono si sforzarono con ogni mezzo di conquistare le simpatie del popolo della capitale. Grandi somme vennero spese nella costruzione di edifici spettacolari in modo da dar lavoro alla gente e da "addolcire la pillola" dell'occupazione. Bisognava dare alloggio in qualche modo a 4.000 impiegati dello stato e il tentativo che ne seguì di modernizzare la vecchia città segnò l'inizio di un'ondata di speculazione sulle aree edilizie: i Romani scoprirono presto che le imposte che pagavano erano salite da 64 a 145 lire a testa, mentre gli affitti erano cinque volte più alti che prima del 1870. Corti e principi facevano a gara nel comprare i grandi parchi privati sul Quirinale e l'Esquilino e rivenderli poi vantaggiosamente come aree edificabili. I risultati furono notevoli, anche se non sempre di buon gusto: antichi palazzi furono trasformati in ministeri, la vegetazione del Colosseo venne distrutta e furono iniziati gli scavi dei fori.
I tentativi di fare di Roma una capitale sul tipo di Parigi erano destinati a fallire, dato che la concorrenza del Vaticano rappresentava una difficoltà insuperabile. A questa si aggiungeva un forte sentimento regionale per cui Milano e Torino continuarono ad essere altrettanto importanti come centri della vita nazionale. Roma mancava dei requisiti necessari per industrializzarsi e rimase provinciale sul piano della cultura. La sua università non aveva grande fama e la città non divenne mai il centro nazionale del giornalismo e dell'editoria. Roma rimase una città del passato, non era una città di teatri e di banche, era di chiese, palazzi e monumenti. Lo stesso Parlamento, che vi aveva la sede, era in un certo senso tagliato fuori dalla vera vita dell'Italia.
Fortunatamente la vita politica rimase in quegli anni tranquilla alla superfice. Lanza succedette a Menabrea per un lungo periodo, dal 1869 al 1873, e cadde soltanto quando Depretis della Sinistra e Minghetti della destra si unirono nel votare un aumento di quattro volte dello stanziamento proposto per il nuovo arsenale di Taranto. Minghetti, che sostituì Lanza, rimase anch'egli al potere per l'inconsueto periodo di tre anni.
Nonostante tutto gli statisti della destra, la cui permanenza al potere stava ora volgendo al termine, avevano dato prova di patriottismo e di abilità politica. Durante i primi difficili anni avevano fatto quanto era stato loro possibile per instaurare una tradizione di governo parlamentare e di integrità politica. La destra aveva al suo attivo numerose realizzazioni: l'annessione di Venezia e di Roma aveva completato l'unificazione del regno; la rivoluzione agraria e industriale aveva avuto inizio; nel giro di quindici anni le entrate erano state triplicate e nel 1876 fu finalmente raggiunto il pareggio formale di bilancio. In contrasto con queste realizzazioni stava il fatto che il paese sosteneva il più pesante onere tributario in Europa, un onere che nemmeno andava a beneficio del benessere economico generale. La maggior parte dei beni demaniali ed ecclesiastici erano stati ormai venduti e ciononostante si era accumulato un ingente debito pubblico che distoglieva somme sempre maggiori dall'industria e dalle opere di trasformazione fondiaria. Francesco Ferrara, il più insigne economista del tempo, lamentava che non vi fosse alcun segno nella vita economica del paese che stesse ad indicare che la nazione era finalmente una. Anche nelle scienze, nelle lettere, nell'industria, nel commercio, nell'istruzione pubblica l'Italia era indietro rispetto agli altri paesi civili, pur insistendo a ritenersi superiore (in nome di un passato di cui peraltro non restavano tracce).
La spesa pubblica per voci principali (1866-1912)
anno
% spesa pubblica
sul PIL
composizione % spesa publica
opere pubbliche
istruzione
spese militari
1866
16,8
03,2
2,3
33,9
1870
14,4
14,2
3,2
14,1
1880
13,7
13,3
5,8
14,9
1890
18,4
12,9
5,6
15,9
1900
16,2
08,2
6,5
15,0
1912
18,3
11,4
8,7
21,1
Fonte: G. Bosio, C. Marchese, Il potere di spendere, Bologna 1986
Il debito pubblico (1866-1906)
anno
totale
% PIL
% interessi
1866
06.121
077
22,4
1870
08.342
096
38,7
1880
09.999
087
35,5
1890
12.613
116
29,0
1900
13.921
111
33,5
1906
14.504
100
25,0
Dal totale sono esclusi i titolo depositati preso le banche di emissione.
Fonte: Vera Zamagni, Dalla periferia al centro, Bologna 1990
Il "modello" della Destra aveva cominciato a mostrare segni di cedimento fin dall'inizio del decennio soprattutto per quanto riguarda la politica economica, inperniata su due principi guida: liberismo integrale nel commercio con l'estero (con il conseguente rifiuto di ogni tipo di misure protezionistiche) e statalismo rigoroso in politica fiscale e nel controllo dei centri vitali dell'economia (ferrovia, infrastrutture, sistema bancario, etc.).
Nonostante si fossero raggiunti risultati apprezzabili nella costruzione delle infrastrutture essenziali per l'unificazione del mercato italiano (i cosiddetti "prerequisiti dello sviluppo"), la crescita economica e soprattutto la modernizzazione dell'apparato produttivo erano ormai a livelli insufficienti: tra il 1861 e la metà degli anni settanta la partecipazione dell'industria alla formazione del prodotto lordo si era addirittura contratta, scendendo al di sotto del 20% e la classe operaia si era accresciuta solo di poche decine di migliaia di unità.
Ancora nel 1880 la siderurgia italiana non superava le 100.000 tonnellate annue di acciaio, mentre l'inchiesta industriale promossa dal parlamento nel 1871 e conclusa nel 1873 "ebbe a documentare più la condizione di lenta agonia cui sembrava votato l'apparato produttivo italiano che non le sue doti di vitalità e di resistenza". Mancavano i capitali capaci di alimentare lo sviluppo industriale e l'intervento del governo non era stato sufficiente a rivitalizzare l'economia. Il regime monetario, che stabiliva la facoltà, per alcune banche riconosciute dallo stato, di emettere una quantità di cartamoneta superiore alle loro riserve auree, costituiva un'eccezione al principio, sacro nell'ottocento, in base al quale la cartamoneta doveva essere sempre convertibile in oro a richiesta del portatore. Il corso forzoso della moneta ebbe l'effetto di creare una condizione di maggiore liquidità e quindi di maggiore disponibilità di capitali per gli investimenti e la circolazione delle merci; esso tendeva contemporaneamente a favorire una moderata inflazione e a determinare, di fatto, una svalutazione della lira rispetto all'oro (che raggiunse circa il 10%), rendendo più facili le esportazioni (che venivano pagate in oro). Tuttavia fu tutto insufficiente, sia a fornire alla nascente industria italiana contro la concorrenza delle merci straniere, sia a garantirle la quantità di capitali necessari per svilupparsi. Anzi il corso forzoso adottato finì per scoraggiare l'afflusso di capitali stranieri diretti all'investimento.
L'agricoltura non si trovava in condizioni migliori. La "scommessa" liberista secondo cui la immissione dell'agricoltura italiana senza protezioni sul mercato internazionale avrebbe dovuto stimolare i settori più dinamici dell'economia, appariva sempre meno credibile, anche perché si mostravano i primi sintomi di quella crisi agraria che sarebbe scoppiata pochi anni dopo per effetto della concorrenza dei prodotti agricoli americani.
Produzione industriale in Italia (1890-1910)
anno
indice della produzione
1890
72
1891
67
1892
64
1893
70
1894
72
1895
73
1896
75
1897
78
1898
86
1899
92
1900
100
1901
104
1902
109
1903
114
1904
117
1905
126
1906
139
1907
152
1908
163
1909
163
1910
169
Fonte: A. Gerschenkron, Il problema storico dell'arretratezza economica, Torino 1965
LA SINISTRA STORICA AL POTERE
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L'opposizione alla dura politica tributaria voluta da Quintino Sella e l'ostilità ai provvedimenti con cui i ministri Quintino Sella prima, Marco Minghetti poi, accentuarono il controllo pubblico sulla ferrovia, finirono per intrecciarsi con le istanze di riforma avanzate dalla Sinistra e tendenti da un lato ad ampliare le basi di consenso dello stato, attraverso l'estensione del suffragio, dall'altro ad allentare la tensione sociale. La caduta del debole governo Minghetti, il 18 marzo 1876, non sorprese nessuno.
Il re Vittorio Emanuele incaricò della formazione del nuovo governo Agostino Depretis, il leader della Sinistra, il cui ruolo venne sanzionato pochi mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, da una netta vittoria elettorale.
La "rivoluzione parlamentare" modificava l'equilibrio del blocco dominante a favore della componente finanziaria e commerciale, mentre gli interessi dei proprietari terrieri venivano, ridimensionati, sia pure parzialmente. Il nuovo governo si mostrò più attento ai problemi della mediazione tra Stato e società civile, sia sul versante della politica economica, sia su quello della politica sociale. Iniziò allora quella stretta compenetrazione tra Stato e forze economiche che avrebbero caratterizzato il capitalismo italiano, creando aree di interesse protetto e determinando una forte interdipendenza tra sfera politica e sviluppo economico. Difatti, soprattutto a partire dall'inizio degli anni ottanta, la politica del governo andò identificandosi in modo sempre più netto con gli interessi delle forze economiche emergenti, in particolare delle banche di emissione e dei principali istituti di credito, mentre la spesa pubblica registrò un tremendo aumento (in particolare per iniziativa del ministro delle finanze Agostino Magliani) a favore dei gruppi agrari e industriali più potenti. Rispetto al modello economico della Destra, caratterizzato da un rigoroso uso dello Stato "come pressione dall'alto sulla società" al fine di indirizzarne i processi, si trattava di un'inversione di tendenza nettissima in quanto lo Stato si poneva, per così dire, al servizio delle forze economiche consolidate, assecondandone le tendenze.
La forza politica salita al potere nel 1876 era composta da tre correnti principali. La prima, la "sinistra storica piemontese", derivava dal vecchio "centro sinistra" di Urbano Rattazzi (componente di sinistra del "connubio" cavouriano) e si collocava su una posizione liberale prudentemente progressista: essa faceva capo a A. Depretis.
La seconda componente di cui facevano parte uomini come Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli, costituiva la vera e propria "sinistra storica nazionale", prodotto dell'evoluzione delle vecchie componenti risorgimentali mazziniane, garibaldine e federaliste disponibili a un compromesso con la monarchia e a una parlamentarizzazione dell'azione politica. Intorno ad essa gravitava, benché su posizioni più accentuatamente democratiche e radicali, anche un'estrema sinistra assai combattiva guidata da Agostino Bertani e Felice Cavallotti.
La terza corrente, infine, era rappresentata dalla "sinistra meridionale", composta sia dalla cosiddetta "sinistra giovane", i cui principali esponenti, De Luca e Francesco De Sanctis, erano su posizioni decisamente moderate, sia da uomini come Giovanni Nicotera, l'antico compagno di Pisacane, appartenenti alla "sinistra storica", ma spostatisi via via su posizioni di conservazione sociale. Quest'ultimo gruppo era inoltre intenzionato a dare rappresentanza politica "alle aspirazioni della borghesia terriera del Sud, malcontenta del governo della Destra e desiderosa di ristabilire su basi per lei più vantaggiose l'alleanza con la borghesia centro - settentrionale". Si trattava, dunque, di un fronte ampio di posizioni, in cui le spinte democratiche e innovative già presenti nel Risorgimento convivevano con le tendenze conservatrici e clientelari proprie della debole borghesia italiana. Tuttavia, fu proprio su quest'ultimo terreno, nella sua capacità di legarsi ai settori sociali più desiderosi di assicurarsi la protezione statale e più disposti a pratiche clientelari, che la sinistra poté ampliare la propria base di consenso e conquistarsi, soprattutto al Sud, l'appoggio di un vasto elettorato e quella forza politica che le permise di essere scelta per andare al potere.
LE ELEZIONI DEL 1874
Destra Sinistra
aree regionali voti % seggi voti % seggi
Italia settentrionale
Italia centrale 58.131
30.705 50,1
26,5 220 24.104
12.606 24,0
12,5 085
Italia meridionale
Italia insulare 21.224
06.069 18,2
05,2 56 43.558
20.082 43,5
20,0 147
Totale 116.129 100 276 100.350 100 232
Se si considera la geografia politica italiana nel periodo immediatamente precedente la svolta di governo, assumendo come fonte i dati relativi alle elezioni politiche del 1874, che rappresentarono un notevole successo per la sinistra, si può notare come il Meridione fosse l'area di maggiore concentrazione dei consensi. Mentre la destra raccolse circa il 76,6% dei propri voti nell'Italia centro settentrionale e solo il 23,4% nel Sud e nelle isole, la sinistra concentrò il 63,5% dei propri suffragi nell'Italia meridionale e insulare contro il 36,5% nel centro-nord. In questo senso il suo ingresso al governo può essere definito una forma di "meridionalizzazione" della vita politica italiana, in quanto per la prima volta la classe dirigente meridionale "abbandonò l'atteggiamento protestatario tenuto fino allora, si inserì nello stato e arrivò a diventare man mano il nerbo della maggioranza parlamentare" (G. Carrocci).
Il programma con cui la sinistra si era candidata a divenire la forza di governo e che era stato esposto da A. Depretis in un famoso discorso tenuto il 10 ottobre 1875 a Stadella (Pavia), aveva un carattere nettamente laico, democratico e progressista, incentrato su alcune grandi riforme: istruzione elementare obbligatoria, gratuita e laica; decentramento amministrativo; redistribuzione del carico fiscale a favore delle aree meno favorite; e soprattutto riforma elettorale con un ampliamento del suffragio. Esso risentiva ancora dei grandi ideali della Sinistra risorgimentale, nonostante quell'epoca fosse ormai chiusa e i suoi stessi simboli andavano rapidamente scomparendo: Giuseppe Mazzini era scomparso nel 1872, Vittorio Emanuele e Pio IX sarebbero morti nel 1878 e Giuseppe Garibaldi nel 1882.
In verità quel programma politico venne in seguito progressivamente ridimensionato: la riforma scolastica intervenne a stabilire l'obbligatorietà dell'istruzione solo fino alla seconda classe elementare e in materia fiscale l'abolizione della tassa sul macinato (1880-83) attenuò solo in parte il pesante carico fiscale che gravava sulle masse contadine. Tuttavia i provvedimenti scolastici ebbero inoltre critiche. Alcuni settori cattolici sostenevano che si doveva lasciare alle famiglie di decidere come istruire i loro figli. Alcuni esponenti liberali affermavano che era inutile imporre la scuola a tutti, quando mancavano gli edifici e i maestri. In realtà i governi dell'epoca concepivano astrattamente la scuola come un servizio che il cittadino deve allo Stato e non viceversa.
ANALFABETISMO in ITALIA negli anni dei CENSIMENTI
(valori percentuali)
nati negli anni: 1871 1881 1901 1911
M F M F M F M F
1817-1826 61 80 60 82 62 80 62 76
1827-1836 60 78 58 78 59 78 58 75
1837-1846 58 74 54 74 54 74 52 70
1847-1856 58 69 49 68 47 68 45 64
1857-1866 66 72 49 60 40 59 37 55
1867-1876 63 61 36 49 31 45
1877-1886 35 41 26 36
1887-1896 49 39 25 30
1897-1906 31 29
La pressione delle forze della sinistra in favore di una piena statalizzazione trovava ulteriore resistenza negli ambienti cattolici e tra le forze politiche più conservatrici convinte che, lasciando la gestione della scuola ad amministrazioni comunali spesso in difficoltà economiche, la legge Casati servisse ad impedire un "eccesso" di investimenti nel settore e scoraggiasse l'afflusso troppo massiccio nella scuola dei ceti più poveri. Il progetto di piena nazionalizzazione dell'istruzione, proposto e sconfitto più volte, avrebbe trovato attuazione solo nel 1911, con l'approvazione della legge Daneo-Credaro. Solo da quella data sarebbe stata avviata la formazione di un ente di controllo, i consigli scolastici provinciali, con il compito di controllare le nomine dei maestri; lo stato inoltre avrebbe dovuto sostenere l'intero costo dell'istruzione elementare.
Anche sui programmi, e in particolare sull'insegnamento della religione, il dibattito fu intenso e accanito. Esso vide contrapporsi da un lato le tendenze "laiche" liberali e radicali, che miravano a rendere "non confessionale" tutto l'insegnamento e cercavano di dare ampio spazio alle materie scientifiche e dall'altro ancora una volta un'alleanza tra conservatori e cattolici, i quali intendevano assegnare un ruolo essenziale nell'insegnamento ai valori religiosi e patriottici. La legge Coppino del 1877 rese facoltativo l'insegnamento del catechismo nella scuola elementare.
Nel 1888 fu varata una riforma radicale dei programmi scolastici in senso laico e filoscientifico, che prevedeva tra l'altro l'"educazione al dubbio", cioè un insegnamento fondato sul metodo sperimentale e critico nei confronti di tutte le forme di dogmatismo. Le forti resistenze incontrate dai programmi del 1888 trovarono uno sbocco nella successiva riforma del 1894. Questi lasciavano nuovamente ampio spazio all'educazione religiosa, definita come "la parte più nobile dell'educazione domestica", e al tempo stesso riducevano fortemente lo spazio riconosciuto alle discipline scientifiche.
Nel 1882 venne approvata la nuova legge elettorale che non introdusse, come era stato richiesto dall'estrema sinistra, il suffragio universale, tuttavia estese significativamente la percentuale degli aventi diritto al voto: dal 2,2% della popolazione (circa 600.000 elettori) al 6,9% (2.000.000 circa), in tal modo inserendo nel sistema politico una più ampia sezione di società. Il diritto di voto venne stabilito per tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni e che avessero superato l'esame di seconda classe elementare o che pagassero un'imposta diretta annua di almeno 19,80 lire.
Questa riforma modificò nella sostanza il carattere della vita politica italiana e del sistema di governo: essa segnò la rottura di quel rapporto organico tra elettori ed eletti che aveva caratterizzato l'età della destra e assegnò alla classe politica compiti di rappresentanza e di mediazione di interesse molteplici e articolati spesso contraddittori, ben più ampi di quelli delle antiche élite. Ciò rafforzò il ruolo del Parlamento, che divenne l'ambito privilegiato di contrattazione e ridefinizione delle alleanze sociali. Venne riformato poi il Codice penale approvato nel 1889 ed entrato in vigore l'anno dopo.

IL TRASFORMISMO
L'avvento della Sinistra al potere mostrò al paese tutto che il parlamentarismo stava mettendo radici. Tecnicamente, in base allo statuto del 1848, non c'era alcun obbligo per i governi di considerarsi responsabili nei confronti delle Camere, ma il re riconobbe abilmente i vantaggi di un ampiamento della base della classe politica. Egli assicurò privatamente i suoi amici che avrebbe continuato a tenere le redini del governo e che per tanto non avevano nulla da temere da Depretis al potere.
Nel gruppo degli uomini di governo furono inseriti alcuni dei radicali più famosi e rumorosi, come Nicotera e Francesco Crispi, e il Mezzogiorno ottenne una più larga rappresentanza nel nuovo ministero. La maggior parte dei membri dei nuovo gabinetto non erano mai stati ministri prima d'allora e il sistema di ripartire le spoglie fra i vincitori condusse molta gente nuova a ricoprire uffici minori. Con Agostino Depretis come presidente del consiglio c'era ben scarso pericolo che si dicesse che la sua parte politica fosse accusata di curare solo gli interessi dei suoi aderenti, in quanto egli cercò di promuovere, forse con eccessiva facilità, la fusione fra gruppi e interessi di ogni sorta. La Sinistra si rivelò ancora più della Destra un partito politico privo di una composizione stabile e di una linea precisa.
La tattica politica di Depretis diede origine al fenomeno definito con il termine di "trasformismo". Esso si manifestò apertamente con l'accordo stipulato tra lo stesso Depretis e Marco Minghetti, alla vigilia delle elezioni dell'ottobre 1882, al fine di unire le forze contro l'estrema sinistra, ma esprimeva una più vasta tendenza spontanea "di molti candidati conservatori o moderati ad assumere l'etichetta governativa (quindi di sinistra moderata) sulla base di compromessi locali con le varie clientele elettorali da un lato e con i rappresentanti del governo centrale dall'altro".
Il trasformismo si basava su maggioranze sempre diverse e provvisorie, sui rapporti personali, su interessi ristretti e corporativi, sul "clientelismo" fenomeno diffuso soprattutto nelle regioni meridionali ma non esclusivamente meridionale (si ha clientelismo quando un partito o persone singole cercano appoggi, non sulla base di idee e di programmi, ma per mezzo di favori e di raccomandazione di vario genere). In queste condizioni i governi non avevano programmi precisi, si ricomponevano di volta in volta con uomini della Destra o della Sinistra. Così le differenze fra gli esponenti dei due gruppi, che non erano mai state rilevanti per quanto riguarda la loro origine sociale, lo divennero ancora meno in seguito alla politica di compromessi e di favoritismi grazie ai quali il governo di Depretis si garantiva l'appoggio dei deputati dell'opposizione, annullando i contrasti derivanti dalla diversità delle idee che esistevano, per esempio sulle riforme da fare o sulla politica estera. Quindi nel "trasformismo" si manifestava il venir meno dell'antico contrasto di principi tra Destra e Sinistra storica di fronte all'emergere di nuovi comuni avversari, il socialismo e il movimento operaio.
Contrariamente all'Inghilterra e alla Francia in Italia non si realizzò un'alternanza di forze al potere, ma il blocco dominante finì per assorbire le forze politiche alla propria destra fino a rimanere, su questo versante, privo di opposizione. Gli unici che forse avrebbero potuto costituire una valida resistenza in parlamento erano i cattolici, i quali tuttavia, nella loro componente "intransigente", rispettavano rigorosamente il "non expedit" astenendosi al voto (mentre i cattolici "transigenti", conservatori e moderati, aderivano alla maggioranza governativa). L'unica opposizione, costretta in gran parte per la limitatezza del suffragio a operare al di fuori del sistema politico, rimase quasi radical-socialista.

La Sinistra e il protezionismo
La scelta protezionistica in materia economica è esemplare sia in riferimento alle tendenze involutive che il governo della Sinistra storica venne evidenziando, sia per quanto riguarda il blocco sociale formatosi e rafforzatosi in quel periodo come intreccio di conservazione (il latifondo meridionale) e di novità (la nascente industria pesante).
Il dominio incontrastato del credo liberista aveva cominciato ad incrinarsi già alla fine degli anni sessanta, quando l'Esposizione Internazionale di Parigi del 1867 aveva messo in risalto la drammatica arretratezza industriale dell'Italia rispetto alle altre potenze europee, in particolare alla Germania bismarckiana. Erano stati, allora, ristretti gruppi di economisti a segnalare l'importanza che l'azione dello stato avrebbe potuto assumere nel favorire un più rapido sviluppo industriale. Ma queste riflessioni non avevano raggiunto la classe politica che restò, nella sua componente di destra come di sinistra, rigorosamente liberista.
In seguito tuttavia un piccolo ma combattivo gruppo di imprenditori, tra cui spiccava la figura di Alessandro Rossi, tessile vicentino, iniziò una battaglia per affermare un punto di vista "industrialista", cioè favorevole a un forte impegno dello stato nel sostenere la nascente industria, sia mediante una diversa politica doganale sia mediante l'affidamento di commesse pubbliche. L'"Inchiesta industriale" rappresentò un momento importante nella battaglia industrialista-protezionista, in quanto registrò un vero e proprio plebiscito da parte del mondo imprenditoriale a favore di una maggiore protezione doganale dei prodotti italiani e servì inoltre come efficace strumento di propaganda nei confronti dei più scettici. L'accentuarsi della crisi economica a partire dal 1875 rafforzò queste posizioni e nel 1878 si giunse ad adottare un primo provvedimento protezionista, applicando una tariffa volta principalmente a proteggere i prodotti tessili e, in parte, quelli siderurgici. Non si trattava ancora di una "scelta strategica", tale da qualificare il modello economico, quanto piuttosto di un provvedimento assunto sotto la spinta della situazione contingente.
In seguito, l'approfondirsi della crisi industriale e soprattutto le crisi agrarie spinsero alla creazione di barriere doganali sempre più solide. L'invasione dei mercati europei da parte del grano americano andava infatti sconvolgendo il mondo agrario: nella seconda metà degli anni settanta determinò una diminuzione della produzione superiore al 20% e un aumento delle importazioni da 1,5 a 10 milioni di quintali, che indussero profonde trasformazioni nella società rurale. Ciò portò ad un ampliamento del fronte protezionista: non solo più il gruppo industrialista, ma anche le grandi imprese capitaliste agrarie della Pianura Padana e gli esponenti della proprietà terriera meridionale incominciarono a rivendicare energicamente il dazio sul grano.
La protezione sul grano, incidendo direttamente sul prezzo del pane e in generale degli alimentari, tendeva a innescare una pressione verso l'alto dei salari industriali. Tuttavia le agitazioni sociali che seguirono all'aumento del costo della vita furono affrontate con mano dura da imprenditori e governo, cosicché il protezionismo agrario si risolse più in un peggioramento delle condizioni dei lavoratori che in un aumento dei costi di produzione. Non mancarono effetti negativi; per quanto riguarda l'agricoltura, il dazio sul grano contribuì a frenare, piuttosto che a stimolare, la modernizzazione. Furono infatti favorite la granicoltura (produzione protetta), accrescendo "il peso specifico di una coltura relativamente povera ed estensiva", e la coltivazione delle barbabietole da zucchero, creando una grave crisi di sovrapproduzione; furono invece danneggiati, a causa della guerra commerciale con la Francia, i produttori di vino, olio e agrumi.
Da questa politica trasse quindi vantaggio la grande proprietà assenteista meridionale, specializzata nella produzione cerealicola, mentre furono rallentati i processi di modernizzazione delle imprese capitaliste agrarie del Nord, caratterizzate da una diversificazione produttiva e da coltivazioni intensive. Un gran numero di piccoli proprietari dovette soccombere e fu definitivamente chiusa ogni prospettiva di "democrazia rurale", fondata sull'impresa agricola familiare, assunta come sede privilegiata dell'accumulazione. Eppure va sottolineato che il rifiuto del protezionismo agricolo, in un paese gremito di piccoli e minimi produttori di cereali, avrebbe comportato in ogni caso una crisi sociale assai più vasta e più rovinosa, per le masse contadine, di quella che pur si ebbe e che cacciò dalle campagne e dall'Italia tanti milioni di braccia inutilizzabili (si leggano le schede relative all'emigrazione).
Il punto massimo di protezionismo si ebbe nell'aprile del 1887 quando furono adottate delle nuove tariffe doganali che aumentavano sostanziosamente i dazi per le importazioni di prodotti di cotone e di lana, e stabilivano nel contempo nuove protezioni per l'industria siderurgica e chimica e per alcuni settori della meccanica.
Si veda anche la scheda: Liberismo e protezionismo

La politica estera della Sinistra
La politica estera della Sinistra fu caratterizzata inizialmente dall'assenza pressoché totale di ogni pretesa d iintervento in campo internazionale. Invitato al congresso di Berlino del 1878, in mezzo a tante pretese territoriali, a tante ambizioni di conquista più o meno soddisfatte, il presidente del consiglio italiano Benedetto Cairoli fu l'unico che ne uscì con "le mani nette" ovvero senza aver nulla preteso e nulla ottenuto, non tanto perché i nostri governanti mancassero allora di una chiara visione della politica internazionale, quanto per la diffusa convinzione che il popolo italiano, dopo aver a lungo lottato per liberarsi dall'oppressione straniera, non potesse moralmente pretendere di imporre il proprio dominio su altre terre, su altre popolazioni.
Esistevano tuttavia due questioni che stavano a cuore all'Italia ma la delegazione italiana a Berlino non fu sufficientemente ferma: non seppe imporre il problema dei territori ancora tenuti dall'Austria (Trentino e Venezia Giulia) e ancor meno seppe difendere gli interessi dell'Italia nella questione della Tunisia, dove lavoravano da tempo molte decine di migliaia di emigrati italiani. Ecco perché la linea di condotta seguita dal Cairoli a Berlino non venne approvata da una consistente parte del Parlamento e dell'opinione pubblica italiana.
Ciononostante il governo della sinistra continuò nella sua politica di non impegno internazionale, favorendo di fatto le mire imperialistiche degli altri paesi, in particolare della Francia, la quale nel 1881 occupò la Tunisia. A peggiorare la situazione e ad aggravare il dissidio con i vicini d'oltralpe contribuì il nuovo orientamento del governo di Parigi, molto sensibile alla crescente influenza dei cattolici francesi che andavano rivendicando una specie di "guerra santa" per la restituzione di Roma alla chiesa. Il distacco dalla Francia fu pertanto inevitabile.
Contro il pericoloso isolamento internazionale, nel quale l'Italia rischiava di ritrovarsi, si adoperò Agostino Depretis, nel frattempo tornato al governo. Egli infatti si era convinto che senza l'appoggio di qualche grande potenza Roma non avrebbe potuto far valere le sue ragioni in campo internazionale. Purtroppo erano ormai chiuse tutte le vie della tradizionale alleanza italo-francese, e l'Inghilterra, che pure aveva visto con simpatia l'unificazione della penisola come elemento di equilibrio nel Mediterraneo, non intendeva prendere ufficialmente posizione a favore dell'Italia; perciò a Depretis non rimase che rivolgersi a Bismark, avviando una politica di accostamento alla Germania e, conseguentemente, all'Austria che già dal 1879 le si era unita nella Duplice Alleanza; era una politica evidentemente in aperto contrasto con le aspirazioni nazionali per quanto riguarda il problema delle terre irredente, tuttavia, in quel momento, non vi erano alternative.
Si giunse così (20 maggio 1882) alla triplice alleanza fra Italia, Austria e Germania. Il patto rinnovabile ogni 5 anni:
* garantiva all'Italia un valido aiuto austro-tedesco in caso di aggressione da parte francese,
* la liberava da ogni ulteriore minaccia austriaca sulla frontiera veneta
* la favoriva nell'esportazione dei propri prodotti in Germania in un momento difficile per la sua economia ormai tagliata fuori dai ricchi mercati francesi;
* isolava di fatto il pontefice, posto di fronte ad una alleanza tra una nazione cattolica come l'Austria e il Regno d'Italia, "usurpatore" dei "sacrosanti diritti" della Chiesa.
La firma del trattato provocò un'esplosione di sdegno negli ambienti nazionalisti e in particolare nelle associazioni irredentiste, ai quali la Triplice Alleanza sembrò un'aperta rinuncia alle terre del Trentino e della Venezia Giulia ancora irredente dalla dominazione straniera. In questo clima di tensione maturò il progetto di Guglielmo Oberdan (Oberdank), un giovane triestino esule a Roma, il quale nel dicembre 1882 meditò un attentato contro l'imperatore Francesco Giuseppe in visita a Trieste: scoperto venne arrestato e impiccato dagli austriaci.
Una politica estera così condotta costringeva il governo a mettere la sordina al problema delle terre irredente e nello stesso tempo lo sollecitava a spostare le proprie mire di conquista in una diversa direzione che non urtasse gli interessi sia dei paesi alleati, sia della Francia e dell'Inghilterra.
Negli stessi anni, negli ambienti della maggioranza così come nella minoranza, aumentava il numero di quanti, rilevando l'assenza dell'Italia dalla frenetica gara di penetrazione ed espansione coloniale attuata ormai da tempo dalle maggiori potenze europee e temendo di vedere l'Italia ridotta a Stato di seconda importanza, premevano per una politica estera decisamente colonialistica.
Le sollecitazioni della corte e dei militaristi, e ancor più le insistenti pressioni dell'opinione pubblica nazionalista, che voleva vedere l'Italia in qualche modo ricompensata per la mancata conquista della Tunisia, spinsero il governo Depretis all'avventura coloniale. Anche il pretesto di trovare territori capaci di accogliere e dare lavoro a parte della popolazione, già da qualche tempo in costante e progressivo aumento, svolse un ruolo importante.
Infine Depretis, malgrado la ferma opposizione dell'Estrema Sinistra, si decise ad avviare una timida politica di espansione coloniale, orientando le sue mire verso le coste etiopiche del Mar Rosso, che l'apertura del canale di Suez (1869) aveva valorizzato e reso più facilmente raggiungibili e sulle quali nessuna potenza europea aveva ancora avanzato pretese. D'altra parte, dallo stesso 1869, la compagnia di navigazione Rubattino, d'accordo con il governo, aveva ottenuto a titolo oneroso da un capo locale la baia di Assab da utilizzare come scalo carbonifero per le proprie navi dirette nell'Oceano Indiano.
Nel frattempo esploratori italiani, come Guglielmo Massaia, Antonio Cecchi, Giuseppe Giulietti, Gustavo Bianchi si erano spinti all'interno della regione etiopica, dove trovarono però quasi tutti una tragica morte nel corso di sanguinosi conflitti con gli indigeni. Fu proprio traendo pretesto dall'eccidio della piccola spedizione Bianchi e dopo che lo Stato Italiano aveva acquistato dalla Rubattino la baia di Assab che alcuni nostri reparti occuparono nel 1885 il porto di Massaua e i suoi immediati dintorni. L'azione militare si svolse con il consenso di Depretis e degli Inglesi, i quali addirittura la sollecitarono, al fine di servirsi dell'Italia per diminuire il raggio di azione della Francia in Africa e di soffocare la rivolta suscitata tra il 1884 e il 1885 nel vicino Sudan dagli indipendentisti seguaci di Mohamed Ahmed, detto il "Mahdi" (il Benguidato).
Una volta occupata Massaua gli Italiani presero a spingersi verso l'interno in direzione dell'Etiopia o Abissinia, un vastissimo impero di antica origine ad ordinamento semifeudale, abitato da bellicose popolazioni rette da un "negus" (imperatore), dal quale dipendevano numerosi "ras" o governatori di province, quasi tutte in stato di permanente ribellione. L'avanzata italiana incontrò subito grosse difficoltà in quanto ad essa si oppose fieramente il popolo etiopico guidata dal negus Giovanni. Il 26 gennaio 1887 il luogotenente del negus, ras Alula, sorprese a Dogali una nostra piccola colonna al comando del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis e la massacrò.
Il tragico evento ebbe una vasta eco nel paese: molti chiesero a gran voce l'abbandono dell'impresa, mentre gli altri reclamarono un'azione più energica e decisiva. Il momento era molto delicato; nel paese veniva maturando un clima nuovo, favorevole al ritorno dell'autoritarismo di un capo carismatico: proprio in quel frangente, era il luglio 1887, Depretis moriva a 74 anni e gli succedeva il Ministro degli Interni Francesco Crispi.

IL «LUNGO GOVERNO» CRISPI
Francesco Crispi, ex-mazziniano dal temperamento fortemente individualistico e insofferente di ogni dissenso, nel 1859 aveva organizzato la rivoluzione siciliana preparando così il terreno alla Spedizione dei Mille; nel 1865 aveva aderito alla monarchia ("la repubblica ci dividerebbe mentre la monarchia ci unisce") ed era stato poi tra i più fieri oppositori di Depretis. Benché fosse giunto alla presidenza del consiglio ormai settantenne dimostrò subito di non aver perso nulla del proprio carattere aspro e autoritario, che lo portava ad essere un grande ammiratore del Bismack e del militarismo prussiano, e quindi un deciso sostenitore della politica legata alla Triplice Alleanza.
Convinto avversario del parlamentarismo e delle "astratte" ideologie liberali, egli svolse fra il 1887 e il 1896 una luna pratica di governo, che può essere divisa in due fasi ben distinte. Iniziata nell'agosto del 1887 e conclusa nel 1891, la prima fase fu contraddistinta da un indirizzo in buona parte diverso rispetto a quello seguito da Depretis. Sotto la sua direzione la trasformazione dello stato, già avviata nell'epoca del trasformismo, giunse a una compiuta maturazione: lo stato fu concepito come uno strumento finalizzato alla politica di potenza e all'estensione del prestigio internazionale e, in quanto tale, legittimato ad esercitare una dura pressione sulla società civile.
In questo intreccio di autoritarismo e imperialismo emergeva il segno delle crescenti difficoltà incontrate dalla nascente nazione italiana in una fase di pesante congiuntura economica e politica. L'aggravarsi della crisi agraria, l'espandere della crisi edilizia e i fallimenti della banche più esposte nel settore delle costruzioni, le difficoltà dell'industria, favorite anche dalla "finanza allegra" praticata negli anni precedenti dal ministro Agostino Magliani, avevano creato una situazione di acuta tensione sociale, caratterizzata da scioperi e tumulti nelle città e nelle campagne. Inoltre la difficile situazione internazionale e i fallimenti della spedizione militare nel Mar Rosso andarono accentuando il clima di malessere e di frustrazione rischiando di ridare fiato ai gruppi irredentisti. A ciò si aggiungeva la crisi istituzionale approfonditasi negli ultimi anni del governo Depretis con il rafforzamento di quel che la destra definì il "mostruoso connubio" tra accentramento e parlamentarismo, che comportava una sempre più estesa invadenza del personale politico (deputati e autorità di governo) nelle questioni amministrative e una pericolosa degenerazione clientelare. Influiva inoltre sul nuovo modello politico, il carattere "strutturale" che andava assumendo il blocco sociale protezionista industriale-agrario, interessato ad una politica di potenza e di riarmo.
L'attività di governo di Crispi si orientò subito verso una profonda riforma dello stato, una connotazione in senso aggressivo delle alleanze internazionali e una decisa espansione coloniale in Africa. Nel periodo dei primi due ministeri da lui presieduti, fu approvato un elevato numero di provvedimenti legislativi di grande importanza al fine di completare l'opera di accentramento dello stato già avviata negli anni precedenti. L'ordinamento e la funzione dei prefetti dipesero dal governo centrale in misura superiore al passato, e si configurarono come strumento di controllo politico del potere centrale nella periferia.
Con la legge del 12 febbraio 1888 sul riordinamento dell'amministrazione centrale dello stato furono rafforzati i poteri dell'esecutivo rispetto al parlamento e quelli del presidente del consiglio all'interno del governo.
Con la riforma sanitaria del 22 dicembre 1888, al vecchio concetto della "carità legale" subentrò il moderno principio dell'interesse pubblico alla tutela della salute dei cittadini, anche se ciò fu realizzato nell'ambito di una concezione che vedeva l'attività di prevenzione e di intervento sanitario più come un'attività di polizia che non di assistenza.
Appartiene a questo periodo la riforma del codice penale (1889), rimasta legata al nome del ministro della giustizia Giuseppe Zanardelli. Essa prevedeva tra l'altro:
1. il tacito riconoscimento dello sciopero, che, non risultando menzionato dal nuovo testo legislativo, non poteva essere più considerato illegale e come tale vietato;
2. l'abolizione della pena di morte e la sua sostituzione con l'ergastolo per i reati più gravi: il che poneva l'Italia al primo posto tra le nazioni civili nella pratica attuazione di quanto Cesare Beccaria aveva sostenuto nel '700.
Non meno importante fu anche -quale prima concreta soddisfazione offerta alle aspirazioni e alle richieste dei partiti democratici- la nuova legge comunale e provinciale del 10 febbraio 1889. Essa estendeva l'accesso ai consigli comunali ai rappresentanti della minoranza fino ad allora esclusi in quanto tutti i posti in consiglio venivano riservati alla lista vincente, e istituiva la nomina del presidente delle Amministrazioni provinciali da parte non più del prefetto bensì dei consiglieri eletti; parimenti i sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti furono eletti dai Consigli Comunali e non più investiti da un Regio Decreto su designazione di un prefetto.
Il Testo Unico del 28 marzo 1895 determinando un sensibile aumento del numero degli elettori e dei deputati da eleggere, contribuì ad avvicinare le classi popolari alla vita pubblica e a favorire la nascita di formazioni politiche decisamente più democratiche rispetto a quelle del recente passato. Inoltre al fine di dare una struttura più organica e accentrata allo stato, fu unificata la Corte di Cassazione; venne istituita una quarta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni non semplicemente consultive come le prime tre, bensì giurisdizionali; fu organizzato il corpo delle guardie di Pubblica Sicurezza allo scopo evidente di consolidare l'esecutivo, la cui inefficienza ed incisività rispondeva pienamente a una concezione borghese dello stato, ampiamente diffusa tra i politici del tempo a qualunque gruppo appartenessero.
Crispi tentò anche un riavvicinamento tra Stato e Chiesa, che per la verità fallì miseramente. Il problema era tornato allora di grande attualità per le tendenze "conciliaristiche" manifestatesi in seno alla comunità ecclesiale da parte di alcune personalità di primo piano nel mondo cattolico, quali l'arcivescovo il Milano Geremia Bonomelli e lo storico Luigi Tosti, abate di Montecassino. Costoro, preoccupati per le continue manifestazioni di reciproca intolleranza fra mondo laico e mondo cattolico, avevano aderito al cosiddetto "partito della conciliazione", erede in un certo senso del neo-guelfismo risorgimentale, e nello stesso tempo avevano assunto una posizione critica nei riguardi del "non expedit". La reazione dei cattolici intransigenti fu dura e ribadì il rifiuto dello stato liberale e di ogni contaminazione fra liberismo e cattolicesimo trovando autorevole espressione nell'"Osservatore Cattolico" e nel suo direttore Davide Albertario, il quale non indietreggiò neppure di fronte al Vaticano, allorché il nuovo papa, Leone XIII, giudicò le sue posizioni troppo radicali.
Il nuovo papa, infatti, già durante il periodo trascorso come vescovo a Perugia, aveva dato prova di una certa apertura nei riguardi di una possibile soluzione della "questione romana", forse anche perché memore della positiva esperienza vissuta come nunzio apostolico del Belgio, una nazione a regime liberale e pertanto aperta al progresso moderno, nella quale i cattolici partecipavano attivamente alla vita pubblica e dove tra mondo laico e mondo cattolico erano più le convergenze che le divergenze. Leone XIII lasciò ai "conciliataristi" la possibilità di esprimere voti di pacificazione e di prendere iniziative che risolvessero quello che nel concistoro del 23 maggio 1887 egli aveva definito un "funesto dissidio", auspicando che potesse essere tolto di mezzo al più presto, purché fossero salvaguardate "la giustizia e la dignità della Sede Apostolica" e purché il Papa "non fosse soggetto alla potestà di alcuno e godesse di una piena e vera libertà come postulano i suoi diritti". Fu appunto in tale circostanza che Luigi Tosti, incoraggiato dalla posizione assunta dal pontefice, procedette alla pubblicazione di un opuscolo, divenuto ben presto famoso, dal titolo "La Conciliazione", il cui testo, auspicante un rapido accordo tra il Vaticano (residenza del Papa) e il Quirinale (residenza del re d'Italia), era stato stesso da Tosti direttamente con Crispi, ugualmente desideroso di tentare il "miracolo della conciliazione" non riuscito né a Cavour, né ai suoi successori.
Tale aspirazione non si realizzò sia per l'intransigenza di alcuni ambienti ecclesiastici, fermamente decisi a richiedere il riconoscimento del potere temporale e la restituzione di Roma al suo "legittimo sovrano", sia per le pressioni esercitate sul papa da alcune potenze straniere prima tra esse la Francia. Di fronte a tale atteggiamento, aggravato da una netta presa di posizione del Vaticano nei confronti dell'opuscolo di Tosti, Crispi si riarmò del suo antico anticlericalismo rendendo di nuovo particolarmente acuta la tensione fra Stato e Chiesa:
fu abolito, ad opera del ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli, l'insegnamento religioso nelle scuole primarie;
le istituzioni di beneficenza (le cosiddette "opere pie" già "Congregazioni di carità") furono sottratte alla sorveglianza delle autorità ecclesiastiche e vennero da allora in poi amministrate da autorità civili e poste sotto il diretto controllo dei prefetti;
fu istituita la punibilità per i ministri del culto che si fossero comportati in modo sleale e oltraggioso nei confronti dello Stato e dei suoi legittimi rappresentanti;
infine nel 1889 nel Campo dei Fiori a Roma fu eretto un monumento a Giordano Bruno, simbolo della inconciliabilità fra pensiero laico e pensiero religioso.
Sul piano della politica estera il principio informatore dell'azione di Crispi fu costituito dal permanente tentativo di rovesciare il segno decisamente difensivo della Triplice Alleanza in direzione offensiva, così da farne un utile strumento di sostegno all'espansione italiana nel Mediterraneo. In questa prospettiva egli scelse di appoggiare apertamente l'Austria nella "questione balcanica" anche a costo di inimicarsi definitivamente la Russia e abbandonò la politica perseguita nel passato dal ministro degli esteri Carlo Felice di Robilant, volta a favorire l'allentarsi delle tensioni. Egli anzi tese ad esasperarle, accentuando anche i contrasti commerciali e politici con la Francia e puntando così a collocare l'Italia al centro di un sistema politico-militare mediterraneo di cruciale interesse per gli equilibri europei. A sostegno di questa politica egli accentuò la repressione contro i movimenti irredentisti antiaustriaci, aprì le frontiere alla penetrazione del capitale tedesco, assunse pesanti oneri finanziari per far fronte ai crescenti impegni militari richiesti dagli alleati, pagando nel contempo un durissimo prezzo economico a causa della paralisi del commercio con la Francia (che il 27 ottobre 1888 decise l'applicazione delle tariffe di guerra contro l'Italia). Crispi quindi, preoccupato di rialzare le sorti del conflitto etiopico, conclusosi con l'eccidio di Dogali, inviò rinforzi in Africa orientale, dando allo stesso tempo inizio ad un'azione diplomatica a vasto raggio, che si concluse con il Trattato di Uccialli (1889) stipulato con il negus Menelik asceso al trono nel 1889 dopo la morte di Giovanni Cassa. In base ad esso erano definiti i limiti della zona che gli Italiani avrebbero occupato sulla costa del Mar Rosso e nel retroterra e veniva riconosciuto il protettorato dell'Italia su tutta l'Etiopia: subito dopo poteva essere proclamata la costituzione della colonia Eritrea (1890). Quasi contemporaneamente Crispi si accordava con il sultano di Zanzinbar per l'acquisto di Benadir e con i sultani dell'Obbia e della Migiurtina per il riconoscimento del protettorato italiano sulla costa somala, dando così origine al primo nucleo della Somalia Italiana.
All'iniziativa che aveva offerto all'Italia la possibilità di registrare un notevole successo e di guadagnare una insperata posizione d'influenza e di prestigio in un territorio esteso dal Mar Rosso all'Oceano Indiano, corrispose un atteso contraccolpo: la Francia, proprio mentre erano in atto trattative economiche importanti e delicate per l'Italia, decise di interrompere ogni rapporto con la controparte, creando le premesse di quella "guerra delle tariffe" che, protrattasi dal 1888 al 1892, danneggiò gravemente il nostro Paese. Crispi, però, piuttosto che cedere alle pressioni francesi e giungere ad un compromesso manovrò in modo da ovviare gradatamente ai danni arrecati all'economia italiana, intensificando i rapporti economici e politici con la Germania ed opponendosi con successo -grazie all'appoggio delle altre potenze europee- al tentativo fatto dal governo di Parigi di trasformare in possedimento il protettorato sulla Tunisia.

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  1. gabriele

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