La vita quotidiana a Roma

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Categoria:Storia

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Testo

Riassunto di alcuni capitoli de "La vita quotidiana a Roma" di Jerôme Carcopino
Capitolo terzo (Parte prima - Sezione seconda)
L’educazione, la cultura, le credenze. Ombre e luci
Sintomi di decomposizione
Altri motivi, oltre le leggi, contribuirono a far crollare i valori della famiglia. Ci furono infatti motivi sociali, economici e morali. Durante l’impero di Traiano giunse a Roma un grande numero di schiavi e di schiave, aggravando così i grandi problemi relativi alla schiavitù, che arrivò quasi a sopprimere il matrimonio. Si iniziò infatti a preferire il concubinato, unione lecita ma inferiore. gli uomini affrancavano una loro schiava prediletta, convinti che sarebbe sempre stata rimasta fedele al patrono, e sapendo che, se fossero nati dei figli, sarebbe stato sufficiente adottarli. Questi sposi di secondo grado non lasciavano l’accesso alla loro tomba agli eredi ma ai loro liberti, preferendo ad una successione in piena regola dei loro discendenti una semplice manomissione, completata da una parte di eredità stabilita dal testamento. Questo sistema aveva accentuato la decomposizione totale. Molti, preoccupati di soddisfare i loro piaceri si circondarono di schiave che potevano mantenere con le loro ricchezze. La presenza degli schiavi turbò anche le unioni legittime: si verificarono infatti numerosi adulteri. Gli abusi dovuti alla schiavitù portarono al rilassamento della morale. Il matrimonio era ormai considerato un’esperienza passeggera.
La scuola primaria
Quando i giovani uscivano dalla fanciullezza venivano tolti dalla tutela della madre e passavano sotto quella del padre. Durante il principato di Antonino Pio, in caso di comportamento indegno da parte del padre, i figli potevano tornare sotto la tutela della madre. La donna si disimpegnava naturalmente dalle cure dell’educazione dei figli, affidandoli ad un pedagogo o, nel caso delle famiglie povere, mandandoli in una scuola a pagamento. Questa usanza danneggiava sia le donne, che cadevano nell’ozio più profondo, sia i ragazzi, poiché venivano quasi privati della figura materna. Le donne ingannavano l’ozio o con le chiacchiere dei clubs dove si riunivano o nel gineceo. I maestri dei ragazzi erano soprattutto schiavi o liberti, quindi inferiori all’allievo: questo paradosso portava a gravi conseguenze poiché il giovane aveva il diritto di respingere il maestro. Il maestro della scuola pubblica esercitava la sua autorità solo grazie alle punizioni corporali. I maestri non venivano mai pagati dallo stato, essi erano abituati ad insegnare a ragazzi e ragazze, senza distinzione di età, in locali stretti e scomodi. L’abuso delle punizioni corporali segnava profondamente gli alunni, infatti si può dire che la scuola romana danneggiava la gioventù che avrebbe dovuto istruire. Le lezioni erano tenute sotto la pensilina di una bottega, dall’alba fino a mezzogiorno, disturbate dal rumore della strada, dalla quale le classi erano separati con una tenda. Vi era una cattedra per il maestro, una lavagna e dei banchi. Il maestro si limitava ad insegnare meccanicamente ai ragazzi a leggere, a scrivere e a fare di conto. La scuola indeboliva la moralità invece di accrescerla e, pur istruendole non arricchivano le menti. L’educazione popolare deve essere considerata come fallita.
L’insegnamento formalista del grammatico
I grammatici si rivolgevano ad un pubblico piuttosto ristretto. I senatori avevano sentito la necessità di non far rimanere i loro figli al disotto di coloro che salivano al potere e favorirono la fondazione di scuole di tipo ellenistico, ma, rendendosi conto del successo a cui quest’istruzione apriva le porte, cercarono di tenere per sé i nuovi vantaggi. I primi professori di grammatica furono profughi d’Asia e d’Egitto: entrambi insegnavano in greco. Quando il loro posto fu occupato dagli Italici, essi iniziarono ad insegnare greco e latino nelle classi di grammatica, greco in quelle di retorica. L’eloquenza restava quindi in mano dell’oligarchia, poiché desiderava che solo i suoi figli ne conoscessero i segreti. Gli innovatori furono quindi perseguitati (non fu più pubblicata la Retorica ad Erennio). Solo sotto il regime di Cesare vennero aperte scuole di retorica in latino, anche se restavano un privilegio di pochi. La politica, poi, abbandonò anche l’eloquenza e le controversie giudiziarie cessarono di alimentarla, quando Augusto ed infine Adriano assorbì la giurisprudenza nei suoi consigli. Le scienze matematiche e la filosofia erano apprezzate solo nei luoghi di origine, soprattutto nel museo di Alessandria e ad Atene. A roma non furono mai apprezzati gli studi filosofici, banditi dal senato, che contemporaneamente scacciò alcuni grandi filosofi da Roma (Carneade, Diogene). Chi si voleva dedicare alla filosofia doveva o mantenere un maestro o trasferirsi in un’altra città. Il grammatico iniziava i giovani allo studio della letteratura greca e latina. Il grammatico aveva a disposizione due biblioteche, tuttavia dava la preferenza alle opere in greco, i testi latini erano soprattutto scritti di antichi autori (spiegati in greco). Anche quando si iniziò lo studio di autori latini più recenti l’insegnamento era legato ad una tradizione classica. I grammatici imponevano la lettura ad alta voce e la recitazione di opere a memoria, in seguito si passava alla vera e propria analisi del testo. Si passava infine alla critica e alla spiegazione del testo. I romani, tuttavia, non si preoccupavano di accrescere le loro conoscenze, preferivano trovarle già pronte sui libri.
La retorica irreale
I generi di eloquenza erano tre: provocare una decisione, giustificarne una già presa, o esporre semplicemente i fatti. Il primo genere era il più importante ma successivamente ci fu un ribaltamento di valori da parte di Ermagora. Vi erano vari tipi di esercizi: la narrazione, la sentenza, la chria, l’espressione dei caratteri la tesi e la discussione. Quando i ragazzi erano ormai pronti, spinti dal maestro, provavano la loro bravura in discorsi pubblici (Sausoriae e Controversiae). Le sausoriae si inspiravano soprattutto ad eventi passati; le controversiae, che avrebbero dovuto preparare il futuro avvocato, erano lontane dagli episodi di vita corrente (spesso erano infatti cause inventate). Se i retori rinunciavano a falsare episodi storici era solo per inventare dei “romanzi polizieschi”, dei quali andavano molto orgogliosi poiché erano ossessionati dalla ricerca dell’effetto. L’effetto era raggiunto mediante situazioni improbabili, il valore del discorso era calcolato in base al numero e alla gravità che dovevano essere superate. Questo insegnamento non preparava alla vita ma preparava alla scuola. Per questo i romani si stancarono presto del sistema scolastico, cercando nelle religioni soteriche una risposta agli interrogativi che venivano posti dalla realtà ai quali né la scienza né la letteratura avevano potuto soddisfare.
Decadenza della religione tradizionale
Durante il periodo imperiale iniziò a svilupparsi una religione personale, dovuta al misticismo orientale. Le antiche divinità furono tuttavia venerate, rispettando le festività prescritte dal calendario. La freddezza della fede romana contribuì a questo allontanamento; il popolo partecipava alle feste solo perché più allegre. Attraverso gli scritti di Giovenale possiamo comprendere come la borghesia adempiva i suoi doveri religiosi. Egli, tuttavia, non era in grado di descrivere gli dei che, ormai, erano divenuti solo entità e i loro lineamenti si erano oscurati con il tempo. Anche Tacito, pur essendo ostile agli ebrei e pur partecipando alle cerimonie religiose, loda la credenza in un dio eterno, la cui immagine non può essere riprodotta. Anche Plinio il Giovane rifiuta la libera adesione alla religione. L’ardore per il culto imperiale si era ormai spento, specialmente grazie alla caduta di Nerone. La religione imperiale sarebbe sopravvissuta ai delitti di Nerone se egli fosse riuscito a corrompere i pretoriani e la plebe con ingenti somme di denaro. Traiano fece proclamare divino Nerva, affermando che un imperatore meritava la divinizzazione solo a seconda del comportamento del successore. Inserì preghiere per la sua vita e per la sua salute, preghiere che dovevano essere esaudite solo se egli governava bene.
Progresso delle mistiche orientali
La fede romana si stava ora progressivamente spostando verso i culti orientali, dove si poteva trovare una risposta ai più grandi interrogativi. Questa trasformazione è dovuta soprattutto alla cultura ellenistica che portò al ricongiungimento della filosofia greca con le credenze orientali. Alcune filosofie negano la sopravvivenza ultraterrena ma si dichiarano comunque liberatrici dalla morte e dai suoi terrori. I vari culti orientali (che spesso mostrano caratteri identici) furono comunque influenzati dalla cultura greca. Questi culti orientali, aboliti per volere di Tiberio, furono ammessi nuovamente da Caligola, il tempio di Iside, distrutto da un incendio venne ricostruito da Domiziano. I sacerdoti dei vari culti erano separati dalla folla profana e si distinguevano per il loro particolare abito. I vari culti coesistevano pacificamente e spesso collaboravano fra di loro. Ogni culto interpretava gli astri e dava messaggi di speranza, coloro che non approvavano queste idee le criticavano profondamente. Molti autori, contrari alle religioni orientali, non hanno calcolato gli aspetti positivi di questi culti, come, ad esempio, la nuova vitalità apportata alla divinazione. Le religioni orientali hanno soppiantato definitivamente il culto romano, esercitando un’azione benefica sui praticanti. La fusione delle mistiche orientali con la saggezza romana porta alla nascita di nuove importanti credenze. Grazie alla spinta delle ideologie greche e delle discipline romane, le religioni orientali erano riuscite a sprigionare vari ideali di vita. Roma diede spazio al cristianesimo quando la chiesa cristiana si era ormai talmente ampliata e consolidata da far giungere le sue preghiere fino al trono.
L'avvento del Cristianesimo
Le prime comunità cristiane nacquero durante il regno di Claudio, e, sotto Nerone, si erano ormai già sviluppate. Con Nerone ebbe inizio la prima persecuzione. Il cristianesimo si sviluppò soprattutto grazie all’enorme importanza della colonia ebraica. All’inizio il cristianesimo poteva essere confuso con l’ebraismo (che già vantava numerosi adepti), ma conteneva un messaggio di redenzione e di fraternità. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme la chiesa si distinse definitivamente dall’ebraismo. I primi fedeli non furono solo rappresentanti popolari ma anche persone di elevata classe sociale. La chiesa era comunque esposta ai pregiudizi della massa e all’ostilità del potere, non solo perché rifiutavano di praticare le usanze religiose di un tempo, ma anche perché, quando veniva chiesta loro la loro origine, essi rispondevano di essere cristiani. Il cristianesimo opponeva al politeismo un dio unico, ai sacrifici cruenti un battesimo con acqua pura. Il più forte richiamo al cristianesimo fu comunque uno stile di vita basato sull’amore e sulla carità. La chiesa, pur essendo di scarsa importanza, aveva ormai raggiunto un elevato grado di organizzazione.
Capitolo secondo (Parte seconda)
Le occupazioni
I doveri della clientela
Le donne trascorrevano la loro giornata in casa; se erano povere, dopo aver badato alle faccende, si recavano alle terme; se erano ricche si recavano in visita alle loro amiche. Gli uomini non trascorrevano molto tempo in casa. Se lavoravano si recavano subito al foro o al senato per accaparrarsi i migliori affari, se erano oziosi erano subito presi dai doveri della clientela. Ognuno si sentiva infatti legato dagli stessi obblighi di rispetto ad uno più potente. Il patrono doveva accogliere i suoi clienti e, talvolta, li doveva invitare alla sua tavola; se ne avevano bisogno, il patrono doveva dare ai clienti delle vettovaglie o del denaro. I patroni non potevano concedersi un sonno prolungato poiché molti clienti vi si recavano molto presto. Per essere ricevuti, i clienti, dovevano indossare una toga e dovevano rivolgersi al patrono chiamandolo “signore”. Le donne non partecipavano a queste visite, con la sola eccezione delle vedove o di altre donne che accompagnavano il marito per ricevere più denaro.
Commercianti e manovali
Nella Roma imperiale vi erano numerosi gruppi di persone di varie classi sociali che vivevano di rendita, tuttavia l’urbe conservò sempre il carattere di metropoli commerciale. Roma non era infatti il centro di speculazioni e traffici ma anche centro di vero e proprio lavoro. Una parte del foro di Ostia era infatti dedicata alle varie associazioni commerciali. A Roma, attraverso i suoi tre porti, giungevano marmi, metalli, spezie, materiali da costruzione e beni alimentari. Nell’urbe vi erano numerosi depositi e magazzini detti horrea. Alcuni di questi magazzini erano specifici per ogni tipo di alimento o merce. Roma era quindi la capitale commerciale dell’impero. I commercianti dell’urbe, nel settore dell’alimentazione, si divisero in due categorie: quelli che distribuivano le loro merci e quelli che le vendevano solo dopo averle prodotte (pescatori). Per il commercio di lusso si richiedeva invece una grande esperienza artigianale (orafi, profumieri, fiorai). Le professioni inerenti all’abbigliamento implicavano che la vendita fosse collegata alla fabbricazione. Si distinguevano due principali tipi di corporazioni: quelle che producevano da se ciò che vendevano e quelle che offrivano la loro manodopera. Tra i primi troviamo ad esempio i falegnami e i fabbri, tra i secondi le corporazioni dell’edilizia (demolitori, muratori) e le corporazioni che assicuravano i trasporti via terra (carrettieri e vetturini).I lavoratori romani non si raggrupavano in agglomerati densi e compatti, i lavoratori erano solo ed seclusivamente uomini, pur essendovi delle rare eccezioni. Alla donna venivano affidati lavori che non potevano essere eseguiti dagli uomini (sarta, pettinatrice, balia). Malgrado il livello di emancipazione raggiunto dalla donna, essa preferiva restare in casa montano dall’agitazione dei mestieri. Le donne si potevano incontrare nelle botteghe solo in alcuni casi (marmista, calzolaio, sarto). Le compere, nell’antica Roma, venivano svolte solo dagli uomini. I lavoratori si erano saputi organizzare molto bene; avevano stabilito precisi orari di lavoro (non più di 6 ore d’inverno e 7 d’estate), quindi tutti i romani avevano il pomeriggio libero.
La giustizia e la politica
Gli intellettuali erano molto più svantaggiati rispetto agli artigiani o agli operai; alcuni di loro trascorrevano infatti quasi ventiquattro ore al giorno sui libri, concedendosi solo poche ore per il pranzo e per un breve riposo. La maggior parte era soprattutto presa dagli impegni della vita pubblica, infatti i tribunali sedevano più volte in un giorno. Gli avvocati avevano a disposizione sei clessidre di tempo (una clessidra corrisponde a venti minuti) ma spesso ne ottenevano altre su richiesta. Il numero delle cause era salito in modo tale che Augusto dovette dedicarvi una buona parte del suo foro. Le udienze mettevano in agitazione tutti: dagli avvocati al pubblico. Le cause erano presiedute dai centumviri, centottanta uomini divisi in quattro gruppi che sedevano insieme o separati a seconda della causa. Spesso accadeva che la voce di difensori si poteva udire fino alle altre sale. Accadeva anche che durante i processi gli accusati assordavano e insultavano il principe con le loro chiacchiere. Gli acclamatori presenziavano sempre ai vari processi. Quando la parola spettava ad un avvocato con cui no avevano mai fatto accordi, si dedicavano ai loro passatempi preferiti, disinteressandosi completamente del processo che stavano ascoltando. L’imperatore Traiano si limitava ad ascoltare non più di una causa al giorno, tuttavia esse, specialmente quelle testamentarie, impegnavano la maggior parte del suo tempo. Spesso le cause giuridiche terminavano con delle vere e proprie scenate e anche con varie maledizioni rivolte soprattutto a Cesare. La vita dei senatori richiedeva molto più impegno, anche se con l’impero le sedute erano al massimo due al mese. Essi entravano nella curia di prima mattina e ne uscivano a sera inoltrata dopo un lungo susseguirsi di discussioni.
Le lettere pubbliche
Roma era dotata di varie biblioteche di stato, la prima di queste era stata fondata da Cesare, seguendo l’esempio di Alessandria. Con lo sviluppo delle biblioteche aumentò anche il numero delle librerie editrici. Gli editori vendevano i loro libri a prezzi piuttosto alti. Essi si dedicavano soprattutto alla copiatura e non erano tenuti a concedere alcun diritto all’autore dell’opera. Per questo molti autori trovavano nelle letture pubbliche un buon espediente per sfuggire alle pretese degli editori. Inoltre essi avevano anche il compito di diffondere gli scritti favorevoli al regime. Augusto si mostrò ben disposto ad ascoltare coloro che gli volevano leggere storie e poesie, anche suo figlio Tiberio amava infatti leggere i sui scritti in pubblico. Divenuto imperatore Tiberio aprì la sua corte alle letture altrui. Anche Adriano si mostrò favorevole alle letture pubbliche, tanto da dedicarvi un intero edificio (Athenaeum). Ogni letterato poi, se ne aveva la possibilità, destinava una stanza della sua casa alle letture (auditorium). Dietro di lui vi erano coloro che volevano ascoltare senza farsi vedere, davanti a lui coloro che aveva invitato. gli autori poveri dipendevano dalla generosità dei ricchi disposti a prestare il loro auditorium. Coloro che non potevano permettersi l’affitto di un’auditorium approfittavano degli assembramenti che si formavano in strada. La maggior parte delle letture pubbliche avveniva però di pomeriggio, quando gli uomini d’affari e i lavoratori avevano il tempo a loro completa disposizione. Per alcuni, però un solo pomeriggio non era sufficiente, essi speravano di poter continuare le loro letture anche nei giorni successivi. Gli ascoltatori assumevano a poco a poco forme di indifferenza, essi, infatti, o si dedicavano a conversazioni private o se ne andavano via prima della fine della lettura. Succedeva anche che alcuni spettatori manifestavano silenziosamente il loro disinteresse, altri si addormentavano. Le pubbliche letture, invece che aumentare l’interesse dei cittadini per le lettere, lo sminuivano. Per rendere meno noiose le letture, esse erano state rese eterogenee. Molti infatti non esitavano a proporre pubblicamente i discorsi funebri preparati per il funerale di un parente, gli autori più famosi trovavano modo di procurare successo alle loro opere più piccole, terminate le varie arringhe e i vari discorsi si passava alla lettura dei vari libri di storia, molto più graditi poiché narravano fatti molto lontani e nessuno aveva il motivo di vergognarsene. Le letture pubbliche, con l’estrazione delle opere dal loro naturale ambiente, ruppero definitivamente i legami che c’erano fra la letteratura e la vita.
La cena
Ufficialmente i pasti, nell’antica Roma, erano tre: jentaculum, prandium, cena. Alcuni reclamavano almeno quattro pasti al giorno, ma, generalmente, i romani, dopo aver bevuto un bicchier d’acqua, rinunciavano ad uno dei primi due pasti, spesso sotto il consiglio del loro igienista. Il jentaculum era costituito principalmente da pane e formaggio, il prandium da pane, carne, frutta e verdura accompagnati da un po’ di vino. Questi primi due pasti erano molto brevi e non vi era nemmeno la necessità di apparecchiare la tavola. L’unico pasto degno di questo nome era quindi la cena, che si svolgeva circa all’ora ottava, dopo il bagno. La regola stabiliva che la cena sarebbe dovuta terminare prima che fosse notte fonda, tuttavia c’erano numerose eccezioni. La cena ha sempre luogo in una parte della casa chiamata triclinium, che prende il nome dai letti su cui i convitati si sedevano per mangiare. Poter mangiare sdraiati era un vero e proprio onore, gli schiavi potevano farlo solo nei giorni di festa, con il permesso del padrone. Intorno ad un tavolo quadrato erano disposti tre letti, ricoperti da cuscini, coperte e materassi. I commensali giacevano sul letto appoggiandosi con il gomito sinistro. Un maggiordomo annunciava il nome degli invitati e gli assegnava il posto sul triclinio. Poiché i romani mangiavano con le mani (le posate erano: stuzzicadenti, cucchiai, coltelli), c’erano degli schiavi che versavano acqua fresca sulle mani dei commensali. Essi si portavano sempre appresso un fazzoletto che stendevano sulle coperte per non farle sporcare o per portare via qualche avanzo. Dopo aver terminato il pasto vero e proprio e dopo un bagno caldo i convitati si recavano in un’altra stanza, per bere un po’ di vino. Una offerta dava inizio al pranzo. I maggiordomi presenziavano durante i pasti e rifornivano gli ospiti di pane e di vino. Il vino era tuttavia molto forte e quindi veniva mescolato assieme ad acqua fredda o neve. Dopo cena c’era invece la commissatio, cioè una serie di coppe di vino vuotate d’un fiato. Spesso il padrone di casa invitava molta gente solo per vanità e non trattava gli ospiti allo stesso modo, la cena non era inoltre considerata completa senza gli scherzi dei buffoni. A roma giungevano alimenti diversi da ogni parte dell’impero e ognuno di questi aveva un suo particolare amatore. Il pasto finale della giornata, per la maggior parte di romani si era trasformato in una piccola festa sobria, discreta e piacevole. Anche i plebei, durante i pasti in comune osservavano una grande moderazione.

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  1. andrea

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