Gli apostoli Pietro e Paolo

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Testo

Le figure di PIETRO e PAOLO e l’espansione del Cristianesimo

PIETRO – Pietro è l’apostolo più conosciuto e citato in tutto il Nuovo Testamento. Proprio perché è una figura di primo piano e di forte valenza teologica per il ministero affidatogli da Cristo nella Chiesa, gli autori del Nuovo Testamento ce lo presentano sotto angolazioni diverse, già cercando di «interpretare» il personaggio, ovviamente non alterando la storia.
Pietro nel vangelo di Marco - Quello che ci fornisce notizie più abbondanti, talvolta anche piccoli dettagli, è Marco che, secondo la tradizione, sarebbe stato «discepolo ed interprete di Pietro». E’ il primo a essere chiamato al discepolato insieme al fratello Andrea (Mc 1,16-18): il suo nome iniziale era Simone. Nella casa dei due fratelli, a Cafarnao, Gesù gli guarisce la suocera (1,29-31); insieme ad altri, è ancora Simone che va alla ricerca di Gesù, che si era ritirato a pregare, dicendogli che la gente lo stava aspettando (1,35-38). Quando successivamente Gesù sceglie i Dodici, perché «stessero con lui» e per mandarli «a predicare», il primo che apre la lista è Simone, che egli «soprannominò Pietro» (3,14-16). Ancora, quando Gesù entra nella casa dell’archisinagogo per risuscitargli la figlia, «non permise a nessuno di seguirlo se non a Pietro, Giacomo e Giovanni, il fratello di Giacomo» (5,37). A Cesarea di Filippo, in risposta alla domanda di Gesù relativa ai pareri della gente su «chi» lui fosse, Pietro dichiara «Tu sei il Cristo» (8,29). Poco dopo, però, quando Gesù preannuncia la sua passione, Pietro ardisce di «rimproverarlo», meritandosi a sua volta la risposta tagliente del Maestro: «Lungi da me, Satana! Perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (8,33).Nella storia della passione Pietro è il protagonista, nel bene e nel male, fra gli altri discepoli. È lui che spergiura che non abbandonerà mai il Maestro, anche se tutti gli altri lo avessero tradito (14,27-29). Però Gesù gli preannuncia che lo rinnegherà tre volte in quella stessa notte, provocandone la fallace promessa di fedeltà: «Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherei» (14,30-31). Nell’orto del Getsèmani Gesù prende di nuovo con sé «Pietro, Giacomo e Givanni», invitandoli a vegliare con lui mentre si ritira a pregare. Per ben tre volte, ritornando, li ritroverà addormentati. Amareggiato, di fatto rimprovera solo Pietro, proprio lui che poco prima si era mostrato così sicuro di sé: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola con me?» (14,32-42). Dopo l’arresto di Gesù, Pietro lo segue fin dentro il cortile del sommo sacerdote. Preso dalla paura, per ben tre volte giura di non aver mai conosciuto Gesù. Però, all’udire il gallo cantare per la seconda volta, «si ricordò di ciò che Gesù gli aveva detto: “Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte”. E scoppiò in un pianto» (14,66-72). Quasi certamente per dargli un segno di amicizia, dopo il tradimento, l’angelo della risurrezione dice alle donne, che erano andate a visitare il sepolcro, di riferire «ai suoi discepoli e a Pietro» (16,7) quello che era accaduto. Come si vede pur nella comunanza del discepolato degli altri, c’è qualcosa di «particolare» per Pietro, che a Marco piace solo accennare, e che gli altri evangelisti metteranno più in evidenza. Forse proprio perché molto vicino a Pietro egli non ha voluto esaltarne il ruolo, che del resto i primi cristiani dovevano ben conoscere. Ha preferito presentarlo così come di fatto era: con la sua generosità, il suo entusiasmo, la sua immediatezza, ma anche con le sue paure, le sue doppiezze, il suo tradimento. In altre parole, un discepolo che prova grande difficoltà a seguire il suo Maestro, «a pensare secondo Dio» piuttosto che «secondo gli uomini» (8,33).
Nel vangelo di Matteo - E’ soprattutto Matteo a mettere in evidenza il ruolo particolare di Pietro nel gruppo dei Dodici, con alcuni episodi e alcune dichiarazioni che lui soltanto ci riferisce. Così, solo Matteo ci descrive la richiesta di Pietro di poter camminare sulle acque, dopo lo scatenamento della tempesta nel lago: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Preso però dalla paura «e cominciando ad affondare, gridò “Signore Salvami!”. E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato….?”» (Mt 14,24-33). C’è anche un altro episodio in cui Pietro è protagonista: ed è quando gli esattori della tassa per il tempio chiedono proprio a lui: «”Il vostro Maestro non paga la tassa per il tempio?” Rispose: “Si”. Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: “Che cosa ti pare Simone? I re di questa terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli altri?”. Rispose: “Dagli estranei”. E Gesù: “Quindi i figli sono esenti. Ma perché non si scandalizzino, va a mare, getta l’amo, il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala a loro per me e per te.”» (Mt 17,24-27). È interessante notare qui due cose: la prima è che Pietro funge da rappresentante di Cristo di fronte agli esattori; egli paga anche per il Maestro. La seconda è che interpreta rettamente il pensiero di Gesù, riguardo ai «figli» del re che non pagano il tributo: sembra abbastanza chiaro che Gesù alluda a se stesso come «figlio di Dio» e, in quanto tale, esente dalla tassa sul tempio, che è la «sua» casa. (cfr. 21,13). Tutto questo ci aiuta a capire meglio quello che Matteo ci aveva già raccontato nel capitolo precedente circa la confessione di fede di Pietro. Lo scenari è quello che già conosciamo da Marco. In più c’è solo una confessione di fede più accentuata. In Matteo, infatti essa è completata da un secondo titolo cristologico: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), che nell’uso del Nuovo Testamento esprime più densamente il mistero di Gesù. E soprattutto c’è in più quello che Gesù dice, in risposta, nei riguardi di Pietro, delineando, in maniera abbastanza esplicita, quella che dovrà essere la sua missione nella Chiesa: «Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietre edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del Regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,17-19). Siamo davanti a un testo di grandissimo contenuto teologico, la cui interpretazione ha provocato, fino ad oggi, più motivo di divisione che non di unione fra i cristiani, come invece sembra che esso esiga. Prima di tutto c’è da sottolineare la «beatitudine», che Gesù proclama nei riguardi dell’ardita confessione di fede di Pietro: la luce e la forza di quella confessione non derivano dalle capacità umane (carne e sangue), ma dal «Padre che sta nei cieli». Qui Pietro è il destinatario di una rivelazione, innalzato ad un piano che nessun altro discepolo può condividere con lui. È chiaro perciò che se Pietro avrà una missione nella Chiesa, questa non potrà che essere nell’ambito della «fede» e nel coraggio di professarla apertamente. Ed è proprio quello che mette in evidenza il cambiamento del nome, che Gesù impone a «Simone, figlio di Giona», intendendo con ciò indicare la sua futura missione nella Chiesa. Anche Marco e Giovanni conoscono il cambiamento del nome; però non ce ne danno la spiegazione, che invece ci fornisce Matteo, giocando sulla correlazione «Pietro-pietra». Per quanto riguarda la funzione di Pietro nella Chiesa, già accennata nel cambiamento del nome, essa sarà dunque un servizio di «presidenza» e di «magistero» nella Chiesa che Gesù affida a Pietro e che, ovviamente, esige da lui coerenza e fedeltà totale al vengelo: un servizio più da temere che da ambire, e di cui certamente Pietro non si è mai sentito all’altezza, come era giusto che avvenisse.
Nel vangelo di Luca - Dopo averci riferito un disputa fra i Dodici, proprio durante l’ultima cena, su chi di loro fosse il «maggiore», Luca mette in bocca a Gesù le seguenti parole: «Simone, Simone, ecco che Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). Queste parole sono esclusive di Luca. In esse sono da sottolineare tre cose. La prima, espressa dall’immagine della «vagliatura», allude all prova della passione che metterà a rischio la fede degli Apostoli. La seconda evidenzia la particolare premura di Gesù per Pietro, garantendogli l’aiuto della sua preghiera. La terza delinea il ruolo di Pietroche è quello di «confermare» i fratelli nella fede: ovviamente ci si riferisce qui allo sbandamento del gruppo dei Dodici, durante la passione, che egli è chiamato a riaggregare dopo la risurrezione; ma l’espressione ha indubbiamente una portata anche più vasta, che va oltre quel tempo e quello spazio. In un certo senso è l’equivalente di Matteo, che Luca aveva omesso e riporta qui, in situazione diversaa e con parole diverse, per dire che il servizio della «fede» dei fratelli non è un servizio facile: perfino colui che dovrà confermare gli altri, a sua volta, è caduto e deve ravvedersi.

PAOLO – Se nella storia del Cristianesimo c’è un santo che brilla come una stella di prima grandezza, questi è sicuramente Paolo di Tarso. La sua celebrazione nella storia è frequente e varia. Lutero sosteneva non essere mai venuto al mondo nulla di tanto audace, quanto la sua predicazione. Un eretico iberico del sec. VIII, proclamava addirittura che in lui si era incarnato lo Spirito Santo; e uno studioso d’inizio XX sec. lo considerava come il secondo fondatore del cristianesimo. Altre definizioni sono più correnti, come «il più grande missionario», «il tredicesimo apostolo», o come è pure usuale nel comune linguaggio cristiano designarlo soltanto come «l’Apostolo» per eccellenza, anche se egli non ha mai fatto parte dei Dodici e anzi con alcuni di loro entrò in conflitto.
Le fonti - Conosciamo San Paolo essenzialmente da tre tipi di documentazioni: le sue lettere autentiche, le lettere dette «deuteropaoline» (perché scritte col suo nome da altri discepoli dopo la sua morte), e gli Atti degli Apostoli. Ma il loro dislivello è notevole. Le sette lettere autentiche vanno ovviamente ritenute come la fonte più interessante e utile per il semplice motivo che provengono direttamente da lui. Scritte tutte negli anni 50 del sec. I, esse riflettono immediatamente la sua personalità non solo letteraria quanto soprattutto umana e teologica. Altre sei lettere oggi vengono perlopiù sottratte alla sua paternità diretta e attribuite a varie figure di discepoli postumi, per motivi sia stilistici, sia teologici, sia di inquadramento storico. Infine gli Atti degli Apostoli ci tramandano un complesso notevole di informazioni su di lui, a pertire dalla sua conversione sulla strada di Damasco fino al suo arrivo a Roma come prigioniero.La loro valutazione storiografica però è controversa. Non viene messo in questione il quadro biografico generale che ne risulta. Ma, se confrontiamo da vicino lo scritto con le lettere autentiche constatiamo delle discordanze a livello si degli avvenimenti, sia di pensiero teologico.
La vita - Egli nacque nella città di Tarso, che all’epoca era capitale della Cilicia, nell’attuale Turchia centro-meridionale. Conosciamo questa città non tanto dall’archeologia, quanto piuttosto dalle fonti letterarie anche contemporanee, che ce la tratteggiano come vivace centro culturale, politicamente e socialmente ambiziosa. Considerando che nella lettera a Filemone, scritta verso la metà degli anni 50, Paolo si dichiara «vecchio» cioè sopra la sessantina, possiamo perciò datare la nascita verso gli inizi dell’era cristiana, qualche anno dopo Gesù. La sua famiglia era di stretta osservanza giudaica, ma il padre gli trasmise in eredità il privilegio della cittadinanza romana. Il nome romano di «Paolo» nasconde in realtà quello ebraico di «Saulo» e può derivare o da un patrono romano o da un semplice scambio per assonanza con quello ebraico, così da adeguarsi meglio al nuovo ambiente culturale ormai dominato dalla presenza romana. A Tarso Paolo trascorse la fanciullezza, forse fino ai tredici anni frequentandovi una scuola elementare sia pure in ambito giudaico, in cui imparò il greco e soprattutto la Bibbia in lingua greca, con la quale dimostra familiarità. La conoscenza della grecità dovette accrescersi anche in seguito, ma è certamente dimostrata dalle lettere su alcuni punti specifici: il tema della conoscenza naturale di Dio, il metodo retorico della diatriba, il tema stoico dell’autàrcheia o autosufficienza, un certo vocabolario antropologico, il concetto di coscienza, la conoscenza dei giochi nello stadio, il concetto di parusìa-avvento applicato al Signore, una citazione di Menandro. A Gerusalemme acquisì un’approfondita conoscenza della Toràh secondo la scuola dei Farisei, che integrava il testo della Toràh scritta con quello della Toràh orale basata su varie applicazioni di quella alla vita quotidiana. Secondo la tradizione giudaica in genere e quella rabbinica in specie, con ogni verosimiglianza egli contrasse matrimonio. In seguito potrebbe essere rimasto vedovo oppure essere stato abbandonato dalla moglie. Ciò che è certo è che era stabilmente solo, quando scrisse la prima lettera ai Corinzi verso la prima metà degli anni 50. Non abbiamo nessun indizio di qualche contatto con Gesù di Nazareth, crocifisso probabilmente nell’anno 30, anche se è verosimile che Paolo fosse a Gerusalemme per la Pasqua di quell’anno. Il suo primo approccio con il nascente cristianesimo lo ebbe, sì a Gerusalemme, ma con il gruppo giudeo-ellenistico: per lui fariseo dovette essere qualcosa di scioccante sentirli «pronunciare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio». Non poteva sopportarlo. Si infuriò e passò alla persecuzione aperta contro la nuova «setta». La sua attività persecutoria si estendeva da Gerusalemme fino a Damasco in Siria. Ma proprio là Paolo subì il capovolgimento della sua vita: egli fu «ghermito da Cristo», al punto che ciò che prima per lui era un valore divenne paradossalmente spazzatura. Da questo momento tutte le energie dell’ex-fariseo furono poste al servizio di Gesù Cristo. Il suo temperamento focoso, non alieno da momenti di tenerezza, rimase intatto, ed è la prova concreta che il cristianesimo non mortifica l’umanità di nessuno. Ma ormai la sua era un’esistenza appassionata di un apostolo che su fece «tutto a tutti». Ebbe un primo e significativo incontro con Pietro, a Gerusalemme. Strutturalmente teso verso nuovi orizzonti, e soprattutto sentendo acuto il problema dell’accesso deii Gentili al Dio biblico della grazia che in Gesù Cristo crocefisso-risorto si era reso scandalosamente disponibile a tutti senza eccezioni, egli non trovò vita facile all’interno della Chiesa-madre di Gerusalemme, di tendenza giudeo-cristiana conservatrice; fu costretto perciò a rifugiarsi nella città natale di Tarso, dove restò per circa otto anni. Intanto, a seguito della persecuzione insorta a Gerusalemme contro Stefano e i suoi compagni. Fu Barnaba che si recò a Tarso a prelevare Paolo perché collaborasse alle promettenti prospettive missionarie nella città siriana. Qui si impegnarono insieme per un intero anno. Poi, ancora insieme, mandati dalla Chiesa antiochena, intrapreso un viaggio missionario come nuova esigenza di espansione del vangelo. Tornati sui propri passi ad Antiochia di Siria, alcuni cristiani venuti dalla Giudea si opposero alla loro metodologia missionaria, che prescindeva dalla circoncisione e in genere della legge mosaica; il contrasto rese necessario quello che viene chiamato il concilio di Gerusalemme. Qui, per l’intervento di Pietro si giunse a un compromesso: fu riconosciuta l’attività apostolica di Paolo, ma ci si accordò che egli si rivolgesse ai pagani, purchè si impegnasse a fare collette per i poveri della Chiesa gerosolimitana. Paolo ritornò ad Antiochia di Siria, dove in una non meglio precisata circostanza rimproverò energicamente Pietro, in nome della «verità del vangelo», per la sua doppiezza a proposito delle prescrizioni dietetiche giudaiche. Il suo metodo di evangelizzazione lo portava a privilegiare i grandi agglomerati urbani del tempo, dove egli si rivolgeva in ordine di preferenza ai poveri, agli intellettuali e ai benestanti. Un secondo e più impegnativo viaggio missionario, questa volta senza Barnaba, ebbe un vasto itinerario, e aveva come ultima tappa la città di Corinto. In quest’ultima città si fermò un anno e mezzo, scrisse la prima òettera ai Tessalonicesi. In seguito tornò ad Antiochia di Siria. Di qui intraprese il terzo viaggio missionario: attraverso la Galazia e la Frigia, giunse ad Efeso. Qui, abbandonata la sinagoga, «continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certo Tiranno». Da Efeso intrattenne una nutrita corrispondenza con la Chiesa di Corinto, dove si recò una seconda volta via mare, subendo una non meglio precisata offesa. Di qui scrisse anche probabilmente la lettera ai Galati, vero manifesto della libertà cristiana. Lasciata forzatamente la città, Paolo si diresse verso il Nord e attraversata la Macedonia, raggiunse la Grecia, da dove scrisse la sua lettera teologicamente più impegnativa, quella ai Romani, in cui tra l’altro annunciò il progetto di recarsi poi in Spagna. Ripartito dall’Acaia in direzione settentrionale, giunse finalmente a Gerusalemme. Qui si ripresentò il contrasto con Giacomo e l’interpretazione giudeo-cristiana del vangelo. È in occasione di un subbuglio suscitato contro di lui da alcuni giudei della provincia d’Asia, con l’accusa di aver violato l’area sacra del Tempio con l’introduzione di alcuni gentili, venne sottratto al linciaggio mediante l’arresto da parte da parte del tribuno della corte romana. Paolo si difese ripetutamente, sia in pubblico di fronte ai giudei della città, sia di fronte al Sinedrio. Dopo due anni di prigionia Paolo, cittadino romano, si appellò all’imperatore e, dopo una comparizione di difesa davanti al re Agrippa II e a sua sorella Berenice, venne deferito a Roma. Vi trascorse sotto custodia militare un biennio nella casa che aveva preso a pigione. A seconda della cronologia adottata, questa scadenza ci porta all’anno 58 oppure all’anno 63. Dopo questa data non abbiamo più notizie sicure, non sapendo con esattezza se il processo ebbe esito positivo o negativo. La morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma sotto l’imperatore Nerone e fu violenta, un martirio, verosimilmente con l’accusa di appartenere a un gruppo sovversivo. Secondo la tradizione, il corpo dell’apostolo sarebbe stato sepolto un po’ più vicino a Roma, sull’Ostiense nel podere di una certa Lucina, dove oggi si erge la basilica di San Paolo Fuori le Mura. Durante le persecuzioni dell’imperatore Valeriano, il 29 giugno 258, il corpo venne traslato insieme a quello di Pietro nelle catacombe di San Sebastiano Sull’Appia, per maggior sicurezza. Nel secolo IV Costantino, fatto riportare il corpo da Papa Silvestro I alla sepoltura originaria, vi fece erigere una prima chiesa trasformata alla fine delle stesso secolo in basilica; devastata da un furioso incendio nel 1823 essa fu ricostruita come si vede oggi.

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