Girolamo Savonarola

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Testo

Savonarola e il savonarolismo
Introduzione
Girolamo Savonarola (1452- 1498) fu impiccato e arso sul rogo a Firenze, dove si era distinto, nell'arco di pochi anni, come riformatore religioso, politico e sociale. Il suo sacrificio non fu vano, dal momento che la sua ansia di rinnovamento era condivisa da migliaia di seguaci. Dal punto di vista politico-sociale, l'azione di Savonarola andava ricondotta ad istanze antimedicee e antipapali, nonchè a rivendicazioni filopopolari ed antitiranniche. Ma molti abitanti non approvarono i metodi del frate per imporre la moralizzazione della popolazione e fare di Firenze la città eletta.
Savonarola a Firenze (1490-’94)
Il frate aveva 37 anni quando, all'inizio dell'estate 1490, mise piede per la seconda volta Firenze, dopo essere stato assegnato al locale convento di San Marco.
Egli era nato a Ferrara il 21 settembre 1452; aveva studiato morale, metafisica e filosofia e a vent'anni compose il De ruina mundi, una canzone sul degrado morale di Roma e del mondo, un problema da lui avvertito con particolare insistenza e che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Il 24 aprile 1475 Savonarola prese l'abito domenicano nel convento di San Domenico. Nel 1482 ebbe il suo primo incarico a Firenze, dove fu inviato come lettore del convento di San Marco.
Nel 1484, nel monastero di San Giorgio, ebbe la sua prima illuminazione divina in merito ai flagelli che dovevano colpire la Chiesa. Negli anni seguenti insegnò a Bologna e predicò a Ferrara e Brescia. Furono Lorenzo il Magnifico e il filosofo Pico della Mirandola a premere per l'assegnazione di fra Girolamo a San Marco; il primo era il signore incontrastato di Firenze da quando, nel 1478, era scampato alla congiura dei Pazzi ordita contro la sua famiglia. Le sue capacità di mediatore ne avevano fatto anche il principale garante dell'equilibrio tra i fragili Stati italiani, originato dalla pace di Lodi di 1454, ma destinato ad infrangersi poco dopo la sua morte.
Le istituzioni fiorentine del periodo di Lorenzo erano caratterizzate da un impianto repubblicano, ma tutte le cariche più importanti erano ricoperte da uomini di fiducia dei Medici, che così avevano il controllo assoluto sull'attività di governo e sulla magistratura. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il consenso e l'appoggio degli Ottimati, le grandi famiglie dell'oligarchia fiorentina, che vennero integrate in questo sistema di governo ottenendo incarichi politici e privilegi. Molte di esse erano famiglie di mercanti e banchieri e Firenze, nel 1490, era anche la culla della cultura umanistica. Fu questo il clima politico e culturale con il quale Savonarola dovete confrontarsi al suo arrivo a Firenze e i primi due anni furono caratterizzati da buoni rapporti con Lorenzo il Magnifico. Tuttavia già nell'aprile 1491 il frate aveva affrontato il problema della corruzione morale del clero, dei potenti e dei cittadini, auspicando una purificazione generale. Egli cominciò a riscuotere successo presso il popolo e gli uomini di cultura e l'anno dopo cominciò ad evocare la minaccia di un flagello imminente, proprio nel momento in cui si spegneva Lorenzo il Magnifico, lasciando un vuoto politico che il figlio Piero, suo successore, non seppe colmare.
Nel frattempo Savonarola mirava a quel progetto di riforma della renovatio Ecclesiae per sconfiggere la corruzione della Chiesa di Roma e dei prelati.
Il frate prese a modello la chiesa evangelica primitiva, fondata su povertà e semplicità, in aperto contrasto con il lusso e il degrado morale di quello della sua epoca. Dal 1494 il frate iniziò a promuovere l'idea che il rinnovamento poteva attuarsi soltanto con la forza e che la purificazione della Chiesa sarebbe potuta giungere soltanto mediante i flagelli inviati da Dio. Egli prefigurava la venuta di un “papa angelico”, che avrebbe incarnato i veri ideali evangelici e attuato il tanto atteso rinnovamento. Fra Girolamo rimproverava ai fiorentini una condotta troppo dissoluta, scagliandosi contro il gioco d'azzardo, le feste mondane e gli ornamenti superflui.
Un passo decisivo per l'attuazione del programma di riforma di fra Girolamo fu la separazione del convento di San Marco dalla congregazione lombarda, dalla quale dipendeva per motivi legati alla sussistenza economica e che nel frattempo erano venuti meno. Nonostante le resistenze dei lombardi, alla fine il frate ebbe la meglio e il 22 maggio 1493 papa Alessandro VI Borgia decretò la separazione del convento dalla sua congregazione di appartenenza, ponendo San Marco alle dirette dipendenze del Generale dell'Ordine. Due anni dopo nacque la Congregazione di San Marco, guidata dallo stesso Savonarola. Il frate aveva già profetizzato l'arrivo di un sovrano straniero in Italia e così fu, quando nel settembre 1494 il Re di Francia Carlo VIII di Valois giunse fino a Napoli, rivendicando pretese dinastiche su quel regno, incoraggiato dal duca di Milano Ludovico Sforza, contro gli Aragonesi che lo detenevano. La sua discesa in Italia aveva messo a nudo la fragilità dei piccoli Stati italiani, dilaniati dalle rivalità interne da quando era venuto a mancare Lorenzo il Magnifico, che con la sua politica dell'equilibrio aveva garantito alla penisola una sostanziale stabilità. E i fiorentini non perdonarono a Piero dei Medici la condiscendenza con la quale aveva accolto il Re francese, e riconobbero nelle predicazioni del frate un tono profetico, malgrado Firenze fosse legata alla Francia da antichi legami politici. Il 9 novembre 1494 Firenze si sollevò contro i Medici, Piero non riuscì a sedare la rivolta e dovette abbandonare la città, che nei successivi 18 anni assunse un effettivo governo repubblicano. Savonarola fece parte dell'ambasceria inviata presso il Re francese, lo incontrò 3 volte e riuscì a strappare al monarca la promessa della futura restituzione di Pisa e delle fortezze, ottenendo anche il benestare alla nuova Repubblica antimedicea. Il fatto che Carlo VIII rinunciasse al temutissimo “sacco” della città venne salutato da molti fiorentini come un miracolo e l'immagine di fra Girolamo uscì assai rafforzata dal positivo esito delle trattative.
Il frate spinse per l'attuazione di un governo popolare, sciolse gli organi del potere mediceo e introdusse un Consiglio Grande ispirato al modello veneziano, molto più democratico dei Consigli precedenti. Il potere esecutivo venne affidato ad una Signoria bimestrale, composta da otto priori e guidata da un gonfaloniere di giustizia.
Tutto ciò suscitò ovviamente il malcontento dell'oligarchia fiorentina e si formarono due schieramenti contro il frate: gli “Arrabbiati” e i “Bigi” o “Palleschi”.
I sostenitori di fra Girolamo si guadagnarono, invece, l'appellativo di “piagnoni” o “frateschi”. Nelle sue prediche sottolineava più volte come fosse stato mandato da Dio e come Firenze fosse la città eletta dal Signore per compiere quel processo di purificazione e salvezza che successivamente sarebbe stato esteso anche al resto d'Italia e della cristianità. La rottura col vecchio sistema politico venne sancito il 2 dicembre 1494, quando una legge del Consiglio Grande istituzionalizzava la ricorrenza della cacciata dei Medici, proponendo un giorno di festa religiosa in occasione dell'anniversario dell'evento.
L'azione politico-religiosa: consensi e polemiche (1495-'96)
Il popolo riponeva grandi speranze nel progetto di riforme sostenuto dal frate domenicano; gli Ottimati vedevano nel nuovo governo un mezzo per riguadagnare quel peso politico di cui erano stati privati fino al 1494. Tuttavia il frate fu criticato per l'imposizione di una tassa che ammontava ad un decimo del valore annuale dei beni immobili; egli fu contestato anche per aver decretato un'amnistia generale per tutti i filomedicei. Inoltre l'aver previsto l'appello al Consiglio Maggiore contro le delibere dell'esecutivo privava la Signoria dello strapotere precedente. Intanto i rapporti tra Savonarola e il papa Alessandro VI Borgia erano sempre più tormentati, anche perché la Repubblica di Firenze era l'unico Stato italiano che aveva rifiutato di essere coinvolto nella lega antifrancese. Il papa accusò il frate di propagare nuovi errori dogmatici, nonché di affermare false profezie, minacciando di ricondurre il convento di San Marco all'interno della congregazione lombarda. Intanto cominciò a circolare a Firenze un'Epistola responsiva a frate Hieronimo, nella quale l'anonimo autore rifiutava tutti gli argomenti del frate, battendo il tasto sulla sua deliberata disobbedienza al Papa e sul suo disprezzo per l’autorità ecclesiastica.
La risposta del frate fu affidata alla penna del canonico Benivieni, che pubblicò l'Epistola a uno amico responsiva, nella quale difendeva tutte le prese di posizione di Savonarola. Nel frattempo la delusione per le promesse non mantenute da Carlo VIII si sommava ai disagi della crisi economica che attanagliava Firenze, mentre la riforma dei costumi operata dal frate era vissuta da molti come un'imposizione repressiva e soffocante. Nella Quaresima del 1496 Savonarola poté tornare a predicare dopo lo stop imposto dal Papa e il frate esplose in nuove, rabbiose requisitorie contro i dissoluti, i tiranni ed il papa. Nel maggio 1496 il priorato passò dalle mani di Savonarola a quelle del fedele fra Francesco Salviati, mentre il frate restava Vicario Generale della congregazione. Nell'estate di quell'anno vi fu un nuovo divieto relativo alla predicazione, causato dal diffondersi della peste, per evitare gli assembramenti dei fedeli, ma al termine della stagione fra Girolamo rilanciò in grande stile la sua crociata per le riforme morali. All'interno della congregazione di San Marco Savonarola impose un modello di vita religiosa particolarmente rigoroso, che finì per essere preso ad esempio da molti altri monasteri, non solo domenicani. Il frate si occupò anche della piaga dell'usura, creando un Monte di pietà, un banco dei pegni al servizio dei meno abbienti.
Scomunica e declino (1497)
La parabola savonaroliana toccò il suo culmine nel corso dei primi due mesi del 1497.
Il periodo della sua carica, ossia il bimestre di gennaio-febbraio, fu caratterizzato da una serie di provvedimenti in linea con le aspirazioni delle ali più estremiste del movimento savonaroliano, che avevano preso il sopravvento su quelle moderate.
Così il Consiglio Grande fece passare il divieto per le donne di indossare abiti ritenuti poco austeri, il diritto dei fanciulli ad impossessarsi delle carte dei giocatori e la condanna all'esilio per i parenti dei Medici e per chi intrattenesse rapporti con loro.
In occasione del carnevale, che Savonarola già in passato aveva cercato di trasformare da festa pagana in festa religiosa, venne introdotta una nuova pratica, il “falò delle vanità”, in cui venivano bruciati, in piazza della Signoria, tutti gli oggetti ritenuti peccaminosi dal frate: opere d'arte e libri immorali, ornamenti femminili, specchi, strumenti musicali e carte da gioco. Ma molti erano i fiorentini insofferenti verso i costumi rigidi e austeri imposti dalle autorità su impulso del Savonarola; anche gli Ottimati si lamentavano, dal momento che con il governo repubblicano non avevano avuto quel potere che avevano sperato di ottenere.
La maggior parte dei membri del Consiglio Grande cominciò a vagheggiare un nuovo regime repubblicano, senza Savonarola e meno democratico di quello voluto dal frate. Nel frattempo il francese Carlo VIII non mantenne le sue promesse nei confronti di Firenze, non avendo nessuna intenzione di restituire Pisa e le fortezze o di intraprendere azioni politico-militari contro il Papa. A fine febbraio, in occasione dell'elezione della nuova Signoria per marzo ed aprile, ebbero la meglio gli antisavonaroliani e fu eletto il pallesco Bernardo Del Nero. Alla fine di aprile Piero de’ Medici, porta dell'appoggio di una signoria largamente filo-medicea, si avvicinò a Firenze con un piccolo esercito, ma senza riuscire a sollevare il popolo e così dovette ritornare indietro. Intanto la nuova signoria eletta era ancora sfavorevole a fra Girolamo, tanto che il primo provvedimento fu quello della proibizione delle predicazioni. Così il 4 maggio fra Girolamo fece la sua ultima predica.
L’8 maggio compose l'Epistola a tutti gli eletti di Dio e fedeli cristiani. E tra il 12 e il 13 maggio papa Alessandro VI emanò due brevi contenenti la scomunica di Savonarola, con l'accusa del rifiuto di fra Girolamo di andare a Roma e la diffusione di dottrine perniciose. Così molti furono costretti a scegliere tra la fedeltà al predicatore di Ferrara e l'obbedienza all'autorità ecclesiastica. Il frate affidò alla penna di Giovanfrancesco Pico della Mirandola la sua difesa dalla scomunica, dimostrando che non poteva essere valida. In quel periodo diversi scritti furono redatti e inviati al papa Alessandro VI, per sostenere che il frate non era né eretico, nè sedizioso.
In quell'estate, a Firenze, giunse anche il flagello della peste; ma i Piagnoni riconquistarono la maggioranza in tre signorie consecutive, nella seconda metà dell'anno. Tuttavia a Firenze si era diffuso il timore che alla scomunica potesse fare seguito l'interdetto della città e poiché il provvedimento papale avrebbe comportato la paralisi degli scambi commerciali, il rischio andava scongiurato.
Processi e morte di fra Girolamo (1498)
All'inizio del 1498 non mancarono i tentativi di riconciliazione con Alessandro VI: ma il Papa condizionava l'annullamento della scomunica all'entrata di Firenze nella Lega santa, un ricatto ritenuto inaccettabile da Savonarola e dalla signoria guidata dal gonfaloniere Giuliano Salvati, per non tradire l'alleanza filo-francese e il legame con Carlo VIII. L’11 febbraio 1498 fra Girolamo salì sul pulpito di Santa Maria del Fiore, dopo nove mesi di silenzio e trasferendo così il divieto papale. Il frate continuava a sostenere l'invalidità della scomunica e affermava che quelli che non erano dalla sua parte si mettevano contro la verità e contro Cristo, trasformando la scelta tra lui e il Borgia in uno scontro tra bene e male. Il 25 febbraio la reazione del Papa portò alla minaccia dell'interdetto, se il frate non avesse smesso di predicare.
All'inizio di quell'anno fra Girolamo aveva composto in volgare il Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, una sorta di manifesto del suo pensiero politico, auspicando un governo civile di tutti i cittadini quale unico modello politico che garantiva il perseguimento del bene comune. Era il Consiglio Grande a detenere il potere del popolo. Dopo 4 signorie consecutive in mano ai frateschi, a fine febbraio venne letto un esecutivo in maggioranza ostile al domenicano, guidato dal gonfaloniere filomediceo Piero Popoleschi. All'inizio di marzo il ferrarese rilanciava in grande stile il suo attacco al pontefice, ponendo il Borgia in una linea di continuità con i papi corrotti del passato. Il 3 marzo la Signoria difendeva le ragioni del frate, che provocò la reazione del Papa, il quale condannò la difesa del frate.
Così il 17 marzo la Signoria si piegò alla volontà del Papa e ordinò al domenicano di Ferrara di cessare la predicazione. Contro il frate si pose pietro Delfin, che nel suo Dialogus affermò che opporsi all'autorità ecclesiastica equivaleva ad opporsi a Dio e che il disprezzo della scomunica era un comportamento da eretici. Il frate meditò di convocare un concilio per deporre Alessandro VI, sostenendo che il Borgia non era realmente cristiano e che la sua elezione era stata simoniaca.
Il 25 marzo il frate francescano Francesco di Puglia sfidò i savonaroliani ad entrare nel fuoco per dimostrare la falsità delle dottrine di fra Girolamo.
Il frate Domenico da Pescia raccolse la sfida e chi sarebbe passato illeso attraverso il fuoco avrebbe dimostrato la bontà delle proprie tesi. Ma davanti alla prova del fuoco nessuno dei frati designati affrontò le fiamme e il popolo accusò Savonarola del fallimento e del mancato miracolo. L'otto aprile gli arrabbiati e i palleschi raccolsero i frutti politici del malcontento seminato con la prova del fuoco, provocando una sollevazione armata contro i frateschi. La Signoria emise un bando che imponeva al frate di Ferrara di lasciare Firenze entro 12ore, un’opportunità che il domenicano decise di non sfruttare. Egli decise di consegnarsi agli assalitori insieme a Domenico da Pescia; il frate fu incarcerato al palazzo della Signoria. Nella notte tra il 7 e l'8 aprile era intanto morto, in Francia, Carlo VIII, il sovrano nel quale fra Girolamo aveva riposto tutte le sue speranze in politica estera. E uno degli uomini di cultura più in vista della città, Ugolino Verino, accusò Savonarola di essere un ipocrita ingannatore dei fiorentini. Anche un altro dei fedele di fra Girolamo, fra Silvestro Baruffi, venne imprigionato e il processo ai tre fu celebrato a Firenze e non a Roma, come avrebbe voluto il Papa. Si tennero due processi civili ed uno ecclesiastico tra la metà di aprile e la fine di maggio, in realtà semplici interrogatori con un’unica sentenza finale, nel corso dei quali gli esaminatori fecero ampio ricorso alla tortura.
Appariva chiaro che le autorità cittadine volevano arrivare alla condanna del frate e ottennero una sua confessione riguardo il fatto di non avere mai avuto ispirazioni profetiche e di essersi mosso politicamente solo per accrescere il suo potere personale e la sua gloria terrena. Invece Domenico da Pescia difese strenuamente l'operato di fra Girolamo e la sincerità della sua ispirazione divina.
Il 22 maggio fra Girolamo fu formalmente condannato a morte e il giorno dopo i tre condannati vennero portati in una piazza della Signoria gremita di folla, dove vennero privati dell'abito religioso e degradati. Poco più tardi Savoanrola e i suoi due confratelli furono impiccati e arsi sul rogo.
Culto post mortem e repressione nel periodo repubblicano
La morte di fra Girolamo non mise fine nè al movimento savonaroliano, né all'interesse per la figura e per il messaggio del frate. Nell'immediato le autorità estesero l'ondata repressiva a molti seguaci, dando sfogo al risentimento accumulato negli anni in cui Firenze aveva subito l'influenza del frate. Vennero puniti gli esponenti più vicini a fra Girolamo e le stesse ceneri dei tre frati mandati al patibolo furono disperse nell'Arno, per impedirne il culto post mortem. Anche il convento di San Marco venne fatto oggetto delle attenzioni politiche, impedendo ai frati di allontanarsi dal convento per i successivi due mesi. Alla resa dei conti, molti seguaci furono esiliati e oltre 50 esponenti frateschi vennero estromessi dal Consiglio Grande.
Nel 1500 Giovanni da Pescia, altro frate di San Marco e savonaroliano radicale, redasse l’Operecta interrogatoria, un violentissimo atto d'accusa nel quale chiariva come tutte le confessioni di fra Girolamo erano state estorte con la tortura e che nessuno poteva negare che la Chiesa fosse corrotta e che dovesse essere riformata. Molti dei cosiddetti piagnoni erano rimasti legati all'eredità del frate e contribuirono a diffonderla, confluendo in massa nel convento viterbese di Santa Maria della Quercia. Anche molti conventi domenicani aderirono entusiasticamente all'idea di riforma monastica promossa da fra Girolamo.

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