Medioevo al femminile

Materie:Appunti
Categoria:Ricerche
Download:335
Data:16.10.2000
Numero di pagine:13
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
medioevo-femminile_1.zip (Dimensione: 12.5 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_medioevo-al-femminile.doc     41 Kb


Testo

Molti libri sono stati dedicati alle donne medievali trascurando quasi totalmente i loro scritti. In “Medioevo al femminile” si è tentato di far parlare le otto protagoniste attraverso il loro operato. “Medioevo al femminile” raffronta otto donne scelte a rappresentare simbolicamente un diverso itinerario umano e sociale. A partire da Egeria, la pellegrina del IV secolo, e per finire con Caterina, la mistica del XIV secolo, si allineano man mano, nel periodo compreso tra il VII e il XII secolo, Baudonivia la biografa, Dhouda la madre, Rosvita la poetessa, Trotula il medico, Eloisa l’intellettuale, Ildegarda la profetessa. Otto ritratti biografici e letterari che mettono in luce il molteplice volto della donna medievale.
La condizione della donna nel mondo occidentale prima dell’età medievale era, sempre o ovunque, discriminata ed emarginata. Esclusa dall’esercizio del potere nella vita religiosa, politica e sociale, la donna era considerata più debole fisicamente e inferiore intellettualmente, tuttavia le era riconosciuta l’importanza della funzione procreatrice. Soltanto verso la fine dell’età repubblicana e in periodo imperiale, sebbene ancora escluse dalla vita politica, alcune donne appartenenti ad antiche e importanti famiglie romane riuscirono a rivestire un ruolo rilevante negli affari pubblici. Tali donne diedero così inizio a un processo di graduale emancipazione, tutt’altro che gradita agli uomini.
Successivamente gli uomini del Medioevo furono influenzati dall’atteggiamento maschilista e antimatrimoniale dei Padri della Chiesa occidentale e orientale. I Padri furono appassionati sostenitori della verginità: organizzarono per la donna una rigida gerarchia di valori, che metteva al primo posto la vergine, al secondo la vedova e solo al terzo la madre. Nel matrimonio, approvato solo come remedium concupiscentiae, l’attività della donna fu di nuovo finalizzata alla sola procreazione, mentre nella vita sociale essa tornava a essere emarginata per la sua inferiorità e debolezza. La donna ebbe comunque modo di riscattare la propria debolezza e inferiorità consacrando la propria vita alla verginità.
Molte ragazze di nobili origini o benestanti sceglievano la vita monacale in quanto il convento offriva loro la possibilità di ricevere un’educazione e di raggiungere un senso di responsabilità e d’indipendenza impensabili. Diverse donne che seppero conquistarsi un posto di rilievo nella letteratura medievale provenivano dai monasteri, che tra il X e il XII secolo divennero celebri centri di cultura e di insegnamento. Dalle loro opere emerge una volontà di ripensare la vita della donna e i suoi valori in una prospettiva diversa da quella imposta dagli uomini.
Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, un’incredibile quantità di donne abbandonò casa e famiglia, per seguire san Gerolamo o Rufino d’Aquileia e spese senza esitare tutto il suo patrimonio per visitare i Luoghi Santi, testimonianza della forte emancipazione delle donne convertite al cristianesimo.
Tra le donne che traevano dalla Scrittura stimolo per vedere di persona i luoghi in essa citati o descritti si colloca Egeria, con la quale si apre il libro. Egeria visse nel IV secolo e poco più di un secolo fa fu scoperta la sua opera, che conserva ancora alcuni misteri. Valerio, un monaco di rigida formazione ascetica, alla fine del VII secolo, inviò una lettera ai suoi confratelli, in cui proponeva Egeria come modello di virtù e di spiritualità, elogiandola per il suo coraggio di aver seguito le tracce della presenza divina nella storia recandosi dalla Galizia al confine opposto del Mediterraneo.
Nel 1884 Gian Francesco Gamurrini rinvenne nella biblioteca della Fraternità “di Santa Maria” di Arezzo un codice pergamenaceo redatto verso l’XI secolo in scrittura beneventana, e nel quale apparivano insieme alcuni testi di Ilario di Poitiers e un’anonima Peregrinatio in Terrasanta, mutila però di alcune parti. L’anonimato dell’autore della Peregrinatio, alla quale si usa dare, nelle più recenti edizioni, l’appellativo di Itinerarium, suscitò accese indagini avviate dagli eruditi. Mutilo al principio e alla fine, il codice aretino rilevava, però, con chiarezza il suo carattere di diario scritto da una donna, e le notizie che forniva erano tali da farne risalire la composizione agli ultimi decenni del IV o ai primi del V secolo. Inoltre, essa si rivolgeva a un gruppo di consorelle lontane o a dame sue amiche per informarle dei suoi spostamenti e delle sue prospettive. Soltanto in un saggio del 1903, Férotin identificò l’autrice dell’Itinerarium anonimo con l’Egeria ricordata nella lettera di Valerio del Bierzo.
L’Itinerarium è la descrizione di una serie di viaggi compiuti dapprima in Gerusalemme al Sinai e ritorno, poi al monte Nebo e in altre località dell’Arabia, ancora con ritorno a Gerusalemme, e infine in Mesopotamia, con ritorno a Costantinopoli. L’autrice compì i suoi viaggi, sembra ormai accertato, tra la Pasqua del 381 e la Pasqua del 384. Incerto è il paese di appartenenza di Egeria, che si vuole originaria del sud della Gallia (Aquitania o Narbonese) o del nord della Spagna (Galizia). La libertà di disporre a piacimento del proprio tempo libero e la possibilità di viaggiare fornita di comodità e di veri e propri accompagnatori lascia supporre che Egeria disponesse di considerevoli risorse economiche e non fosse condizionata da nessun vincolo. E’ dunque probabile che ella fosse una dama dell’aristocrazia che faceva la pellegrina laica, piuttosto che una monaca legata al convento.
Certo è che la donna vide con gli occhi della fede e del cuore, il che la indusse a sorvolare l’aspetto fisico e monumentale dei luoghi visitati per attingere al loro ruolo scritturale e, al di là di esso, per raggiungere il loro significato simbolico o mistico. Le pagine relative al viaggio in Gerusalemme, ad esempio, ci dicono poco o nulla dell’assetto urbanistico e monumentale della città che essa vide. Egeria parla della città come se le sue interlocutrici già la conoscessero perfettamente. Più che ricevere informazioni storiche e archeologiche di quei luoghi, esse infatti sono maggiormente interessate a percorrere con lo spirito e a vedere con gli occhi della fede tali luoghi, che avevano assistito alla vita, alla morte e alla resurrezione del Signore.
Il libro prosegue con il ritratto di Baudonivia, che può essere considerata come la prima interprete femminile di un genere letterario, quello delle biografia, che avrà poi larghissima diffusione nella letteratura altomedievale. Quello che si conosce di attività letteraria femminile, tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, periodo in cui operò la donna, si riduce quasi esclusivamente a poche lettere dovute per lo più a donne di grande rango. La prova letteraria di Baudonivia dunque emerge per importanza e significato. Trascorse gran parte della sua vita nel monastero di S. Croce di Poitiers, dove imparò a leggere e a scrivere. Il monastero fu fondato dalla regina Radegonga dopo il fallimento del suo matrimonio con il re merovingio Clotario. Ed è proprio la regina la protagonista della biografia della monaca, che costituisce tra l’altro la sua unica opera.
Una prima biografia sull’intraprendente regina era già stata composta da uno degli amici più intimi e fidati della donna, il celebre poeta Venanzio Fortunato. Tra Radegonga e Fortunato si era stabilito un rapporto epistolare, che documenta i comuni interessi spirituali, l’attenzione ad alcune tematiche culturali e politiche, ma che non nasconde l’intensità degli affetti. Alla morte della regina, nel 587, il poeta ne scrisse subito in prosa la vita. Fortunato definisce l’opera di Radegonga come un’opera misericordiosa, che estende il suo intervento a tutto il regno. Pur essendo la regina del palazzo, Radegonga si comportava come la serva dei poveri. Pur raccolta nell’ascesi della vita monastica, rifiutò di diventare badessa e si dedicò a servire le compagne, e attraverso lo stesso Fortunato proseguì a occuparsi delle miserie del mondo. E’ evidente il fatto che il Fortunato, a causa delle restrizioni imposte dalla regola monastica, non poté essere a conoscenza di episodi fondamentali della vita dell’amica.
Baudonivia inizia a comporre la biografia verso l’anno 600. Nel prologo dedica l’opera alle consorelle e afferma di aver accettato il difficile compito soltanto per aggiungere ciò che Fortunato ha tralasciato di dire. Il latino utilizzato dalla monaca è piuttosto rozzo. Tuttavia, l’immagine tracciata di Radegonga nella sua biografia è più interessante e varia di quella del grande letterato. Baudonivia mette in evidenza la psicologia della regina, i suoi desideri di donna e di cristiana, la sua vita mistica e insieme la sua passione politica. L’interesse politico di Radegonga è in contraddizione con i propositi del monachesimo: la regina è rimasta, in fondo, regina anche dentro le mura monastiche.
Nel suo latino ancora incerto, Baudonivia la biografa riesce a manifestare una coscienza insieme spirituale e politica di alto significato.
La terza protagonista del libro è Dhouda. Si è concordi nel fissarne la nascita verso l’803 da un casato aristocratico dell’area settentrionale del regno franco. Nell’826 Dhouda ebbe il primo figlio, Guglielmo, da Bernardo di Settimania (nominato governatore della Marca ispanica dall’imperatore Ludovico il Pio), costretto a vivere lungamente lontano da casa. Bernardo si distinse per le gesta militari ed entrò nelle grazie dell’imperatrice Giuditta, seconda moglie di Ludovico il Pio, che lo fece nominare ciambellano e gli affidò la tutela del piccolo Carlo il Calvo. Nell’841 Dhouda ebbe il secondo figlio, Bernardo, che le fu subito sottratto dal marito. Guglielmo era già da tempo lontano e faceva forse il paggio presso qualche nobile di corte. Nell’844 Bernardo fu condannato a morte per tradimento da Carlo, proprio dal giovane sovrano del quale era stato tutore. E quattro anni dopo, il primogenito Guglielmo venne decapitato perché ritenuto colpevole di alto tradimento.
In questo contesto si svolge la vita di Dhouda, una vita fatta di solitudine e malinconia. Probabilmente la necessità di spezzare la barriera di solitudine e di incomunicabilità che la opprimeva la indusse a scrivere il Manuale dedicato al figlio Guglielmo. Il Manuale si distingue in quanto scritto da una donna (di ceto aristocratico, ma sempre donna) e, soprattutto, in quanto dedicato da una madre angosciata a un figlio lontano freddamente e ruvidamente strappatole. Essa lo avviò poco dopo che il secondo figlio le veniva tolto, e lo completò il 2 febbraio dell’843. Dhouda esorta il figlio ad amare e rispettare Dio, il padre e Carlo il Calvo, suo signore. Egli vi avrebbe trovato, come afferma la donna nel prologo, tutto quello che desiderava conoscere; il manuale sarebbe stato per lui uno specchio, in cui contemplare la salvezza della sua anima. In esso confluiscono morale laica e morale religiosa, poiché Dhouda, con grande nobiltà, esorta il figlio al rispetto di quelle regole e convenzioni familiari, sociali e politiche, delle quali anche la donna è vittima innocente. Nei testi altomedioevali i sentimenti degli autori solitamente vengono manifestati secondo regole precise. Dhouda esprime forse il suo amore per il figlio, il suo desiderio di sentirlo comunque vicino. Affidarsi a un libro è forse, per Dhouda, una misura estrema, un modo per mantenere un legame. E’ impossibile per noi decodificare l’amore d’una madre per un figlio nel IX secolo. Possiamo soltanto sottolineare il fatto che Dhouda è dotta; nella sua opera si riflettono le Scritture, Agostino, Gregorio Magno, Isidoro, Alcuino, Prudenzio, Donato e conosce, pur non citandoli, alcuni autori classici quali l’Ovidio degli Amores.
Anche Rosvita apparteneva con ogni probabilità a una famiglia nobile. Nacque intorno al 935 in Sassonia e operò nella seconda metà del secolo X tra la corte degli Ottoni e il convento di Gandersheim, nel quale era canonichessa. Dedicò l’intera sua vita allo studio e all’attività letteraria. Versificò otto leggende agiografiche, due poemi in esametri per celebrare rispettivamente le imprese di Ottone I e le origini del proprio convento; ma l’opera grazie al quale è conosciuta sono i sei dialoghi drammatici, elaborati col dichiarato proposito di combattere le pericolose commedie terenziane contenenti “oscene sconcezze di donne senza pudore”.
Rosvita non scrive opere di teologia, ma piuttosto di edificazione e di spiritualità, il cui fine ultimo è l’esaltazione di Dio e di chi ha fede in lui. La castità rimane per la poetessa il più alto ideale di vita: solo grazie alla forza che deriva dalla comunione con Cristo, la donna è infatti in grado di vincere la sua innata debolezza e la naturale inferiorità nei confronti dell’uomo.
Un fascino misterioso circonda l’enigmatica figura di Trotula, vissuta forse nel secolo XI e legata alla Scuola medica salernitana. Nei secoli XIII-XV, quando il suo nome raggiunse la massima celebrità, le venne attribuita la paternità di due opere: “Come rendere belle le donne” e “Le malattie delle donne prima, durante e dopo il parto”. Il primo è un trattato di cosmesi, in cui vengono dati consigli utili alle donne per mantenere e potenziare la propria bellezza e per curare le malattie della pelle. Il secondo è un vero e proprio manuale di ostetricia, ginecologia e puericultura, e il primo trattato di ginecologia attribuibile a una donna. Nel tardo Medioevo, quando si parlava di disturbi e di malattie oppure di cosmesi, si faceva riferimento a Trotula come a un’autorità indiscussa. L’essere donna le assicurava la fiducia delle altre donne, mentre l’appartenenza alla Scuola medica salernitana era garanzia della qualità e della validità delle terapie da lei suggerite.
Le due opere che le sono state attribuite per secoli e che sono state pubblicate sotto il suo nome, in realtà non furono materialmente scritte da lei, mentre l’unica sua opera autentica è tuttora inedita. La sua figura divenne oggetto di dibattiti polemici tra convinte femministe, pronte a designarla come precorritrice del movimento e studiosi più o meno misogini, pronti a negarne addirittura l’esistenza.
Eloisa è la prima donna a cui è possibile attribuire il titolo di intellettuale. A soli sedici anni (nata nel 1100, forse a Parigi) si innamorò follemente del suo maestro, di quarant’anni circa, Abelardo. I due si amarono senza discrezione: non usarono nessun accorgimento per tenere nascosto il loro amore, in questo fuori dal tempo e ben consapevoli, soprattutto Eloisa, della loro singolarità. Ma ciò non poteva avvenire senza conseguenze. La reazione della famiglia di lei fu immediata: lo zio tutore li separò, ma la separazione materiale avvicinò ancor più i loro cuori. Senza timori Eloisa comunicò, per via lettera, al suo amato di aspettare un figlio. Abelardo la rapì e la portò nella lontana Bretagna in casa della sorella. Dopo la nascita del bambino, lo zio, impazzito per la vergogna minacciò di uccidere la donna, poi convinto dallo stesso Abelardo accettò la proposta di un matrimonio riparatore. Eloisa non vedeva nella gravidanza un motivo per sposarsi, vi scorgeva solo il segno chiaro e splendido del suo legame con Abelardo, e rifiutò il matrimonio. In seguito Eloisa dovette rassegnarsi a sposarsi, ma la famiglia della donna per ottenere completa riparazione divulgò il segreto. Abelardo la rapì ancora una volta e la portò al monastero di Argenteuil vestita da monaca. I parenti di Abelardo vi videro un tradimento alla parola data e, durante una notte, tagliarono quella parte del corpo che era stata strumento del suo peccato. Più per vergogna che per vera vocazione, e dopo aver fatto prendere il velo all’Argenteuil a Eloisa, Abelardo si rifugiò in un monastero, nella vicina abbazia di Saint-Denis.
A distanza di dieci anni della loro separazione i due sposi si incontrano e riprendono a vedersi molto spesso. Ma una nuova e definitiva separazione era prossima: Abelardo divenne abate in un monastero lontano, nella Bretagna dove era nato. Tra i due iniziò allora uno scambio di lettere, che rappresentano alcune delle più celebri testimonianze d’amore e filosofia. Nel linguaggio curato, ricco di citazioni, di finezze stilistiche si riflette tutto l’universo della cultura del secolo. Il carattere appassionato e “profano” delle lettere di Eloisa è stato giudicato estraneo all’epoca. La loro autenticità è ancora oggi argomento di discussioni e polemiche accese, ma la singolarità di Eloisa fu appunto quella di essere la prima “donna intellettuale”, proprio negli anni in cui la fisionomia di questa figura si veniva delineando. L’intellettuale è, di solito, un uomo, chierico: Eloisa era una donna e, all’epoca della sua prima formazione culturale, aveva ricevuto un’educazione decisamente laica. L’esperienza vissuta e, soprattutto, il modo di essere davvero singolare per la sua epoca, fanno di Eloisa una donna davvero eccezionale.
La penultima figura femminile ad essere proposta è quella di Ildegarda. Nata nel 1098 a Bermesheim, in una famiglia nobile e numerosa, a soli otto anni venne affidata al convento benedettino di Disidodenberg per ricevere un’accurata educazione. Fin dalla tenera età di cinque anni era soggetta a visioni soprannaturali e, soltanto a quarantatre anni, per ordine divino, rese pubblico il contenuto di tali visioni. Per trascriverne il contenuto si servì dell’aiuto di diversi segretari e aiutanti. Nel corso di trent’anni di intensa attività, scrisse ispirata da Dio opere di grande mole: Scivias, Liber vitae meritorum, Liber divinorum operum. Affrontò con decisione e fermezza anche questioni al di fuori dello stesso monastero e, caso unico per una donna, predicò non all’interno della chiesa, ma direttamente davanti al popolo. Nonostante la monaca si ritenesse ignorante e incolta, altre opere rivelano che Ildegarda aveva buona conoscenza non solo della Bibbia, ma anche delle scienze naturali, degli autori latini e della filosofia neoplatonica.
L’itinerario si conclude con il ritratto della patrona d’Italia, Caterina da Siena, che praticamente analfabeta, come Ildegarda, imparò a leggere miracolosamente. Penultima di venticinque figli, di modeste origini, spinta dall’impulso divino iniziò la sua esperienza mistica entro le mura domestiche, senza sentire il bisogno di ritirarsi in convento. Verso i quindici anni Caterina uscì dal suo isolamento e si dedicò a opere di misericordia. Dal 1370 la sua vita mutò radicalmente: in una visione, Gesù le aprì il petto, ne estrasse il cuore e lo sostituì con il suo. Da questo momento, come lei stessa affermerà, la sua cella eremitica sarà solo interiore, sarà solo il suo cuore e la sua mente, mentre l’intera sua esistenza verrà proiettata nella vita pubblica e nella storia. Guidata da Dio intervenne con decisione nella vita politica del suo tempo, dapprima per sedare le discordie tra Siena e Firenze, poi per indurre il papa a lasciare l’esilio di Avignone e far ritorno a Roma. Morì a soli trentatre anni lasciando un vero e proprio modello di santità vissuta.
Restituendo la voce alle donne medievali si è dimostrato che il Medioevo, diversamente da quello che si suppone, fu la prima età storica in cui le donne raggiunsero un notevole grado di emancipazione sociale e culturale e iniziarono a porre le basi di quelle richieste di parità e uguaglianza che sono ancor oggi oggetto di scontri.
La condizione della donna nella società contemporanea è sicuramente migliorata ma, esiste ancora un enorme divario che, sia pure a livelli diversi a seconda dei continenti, esiste tra uomini e donne nell’intero nostro mondo. Questo perché, a mio avviso, non si è mai intervenuti nel problema “famiglia e divisione del lavoro al suo interno” e, soprattutto, senza un profondo cambiamento nelle convinzioni più antiche e radicate, non si riuscirà mai a ottenere una reale parità tra il sesso maschile e quello femminile. Il maggior ostacolo che esiste tra la donna e la sua possibilità di avere una vita di “prima” e non di “seconda” serie è infatti quello che viene definito il suo “ruolo di sposa e di madre”.
Poche generalizzazioni sono così vere per il mondo intero: le cure del ménage, non retribuite, sono dappertutto considerate come lavoro di donne. La donna di casa fa un lavoro “invisibile”, di scarsa soddisfazione e terribilmente ripetitivo. Un lavoro non socialmente riconosciuto benché rappresenti un contribuito enorme alla vita collettiva. Comunque sono milioni le donne che, oltre al lavoro in casa, ne hanno uno fuori casa e retribuito. Poco tempo fa mi è capitato di leggere uno dei tanti sondaggi che si trovano abitualmente su ogni giornale: in Italia l’85% delle donne con bambini e un lavoro a tempo pieno fuori casa sono sposate a uomini che non si occupano mai del ménage. Ma non va molto meglio negli altri paesi tanto che il risultato di questa scarsa collaborazione è che le donne europee hanno la metà del tempo libero rispetto ai loro compagni di vita. Il lavoro fuori casa delle donne penso sia assolutamente indispensabile, nella maggior parte dei paesi, per la sopravvivenza della famiglia, sia che si tratti di occuparsi del raccolto nei campi, che di battere a macchina in un ufficio o di lavorare in fabbrica. Ed è questa la ragione fondamentale per la quale, ormai, il pretendere che il lavoro domestico sia la sola ed esclusiva responsabilità delle donne diventa inaccettabile e irrealistico.
Molte volte mi domando se l’attuale sforzo di liberazione della donna, da parte delle più accese femministe, non rischi di fallire: negarsi come donna, appagarsi nel copiare i comportamenti dell’altro sesso, cercare di riprodurlo come una specie di modello ideale e perfetto si traduce in una negazione della propria originalità. Eppure il mondo rigorosamente maschile, fin dai tempi più antichi, ci appare contestabile ed è infatti contestato. E’ paradossale il fatto che alcune donne si accontentano di essere degli uomini mancati…
MEDIOEVO AL FEMMINILE

1

Esempio