L'Induismo

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Testo

Convitto Nazionale
Vittorio Emanuele II
Classe II B Europeo
Anno Scolastico 1999 – 2000
L’Induismo
A cura di: Per la Prof.ssa
Creazzo Luigi Palladino
Forgia Francesco
Gabriele Giuseppe
Sommario
Capitolo 1: Introduzione all’Induismo pag. 3
1.1 Origini storiche pag. 3
1.2 Similitudini fra Induismo e Brahmanesimo pag. 3
1.3 Principi e fondamenti dell’Induismo pag. 4
Capitolo 2: I testi sacri induisti pag. 6
2.1 Introduzione pag. 6
2.2 I testi vedici pag. 6
Capitolo 3: Vita e tradizioni induiste pag. 9
3.1 Vita religiosa di un induista pag. 9
3.2 Il culto e la morale pag. 10
3.3 La morte e la reincarnazione pag. 10
Capitolo 1: Introduzione all’Induismo
1.1
Origini storiche
Il vocabolo Induismo ha valore etnografico diretto a significare la religione attualmente seguita dalla grande maggioranza degli Indù. Essa viene detta anche neobrahmesimo, in quanto non è che l’antico brahmesimo, mai spento in terra indiana nonostante il temporaneo trionfo del buddismo, salvo le modificazioni e gli orientamenti nuovi verificatisi nel corso del tempo.
Questo nuovo rigoglio porta l’impronta dei fattori che lo hanno alimentato, tra cui principalissimo l’elemento popolare rimasto fedele ai vecchi dèi, al quale i brahmani restauratori fecero le più larghe concessioni per averlo alleato nel movimento di repulsione buddistica.
1.2
Similitudini tra Induismo e Brahmanesimo
L’Induismo ha mantenuto teoricamente tutto il bagaglio ideale del brahmanesimo: la visione unitaria dell’universo, la trasmigrazione delle anime o rinascita (samsãra) a norma delle azioni compiute in vita (legge del karman), la celebrazione giornaliera del sacrificio domestico, le quattro caste. Ma la speculazione brahmanica ad impronta così astrattamente monistica non era adatta a soddisfare lo spirito indù a cui erano sempre care le figure del politeismo tradizionale: ne è derivato dunque un uniforme miscuglio di divinità, di credenze e di riti. I venerabili dèi vedici ricevono una maschera grottesca che li rende irriconoscibili; la liturgia si inquina di elementi magici, il monismo filosofico del brahmanesimo classico riceve applicazioni monche e bizzarre che portano a concepire una triade puramente nominale in cui il dio creatore Brahma, proprio dèi brahmani, rimane in seconda linea, estraneo alla devozione popolare, mentre il dio conservatore Visnu edi il dio distruttore Siva diventano titolari di due vere e proprie religioniindipendenti, rispettivamente visnuismo e sivaismo. La loro vicinanza agli uomini ha suscitato l’idea dell’incarnazione (avatãra) degli dèi superiori negli inferiori e talvolta anche negli uomini, sicchè – e questo risponde alla tendenza monistica ed è insieme l’applicazione della dottrina della trasmigrazione, entrambe così caratteristiche della mentalità indiana – non v’è più distinzione netta tra i due mondi; e mentre il neobrahmanesimo di tendenze intellettuali si perde in un misticismo a tinte viacemente teosofiche, quello popolare assume un colorito bizzarramente feticistico e soddisfa la pietà del popolo con pratiche pregne di magia, che rasentino il delirio. Poiché, come si è abbassato il concetto della divinità, così si è abbassato il modo ed i mezzi di entrare con essa in comunicazione; le due vie classiche suggerite dal vedismo e dal brahmanesimo filosofico, cioè l’opera (il sacrificio) e la conoscenza (la meditazione), sono ancora aperte; ma il sacrificio è ridotto più che mai ad una cerimonia di idolatria grossolana, la meditazione si riduce ad una serie di pratiche teurgiche e mistiche della peggiore lega che tendono a far raggiungere all’individuo il moksa o la “liberazione” mediante l’assorbimento dell’anima individuale nell’anima universale. Questa seconda via ha il suo nome consacrato: bhakti ossia “devozione”, e comporta cinque gradi che dalla semplice quiete o riposo dello spirito giungono fino alla tenerezza estatica. Ma questa unione mistica con il dio si riduce di fatto ad un vero e proprio erotismo.
1.3
Principi e fondamenti dell’Induismo
Bisogna tuttavia distinguere tra neobrahmanesimo di tendenza individuale e neobrahmanesimo popolare. Il primo, qual è insegnato nei centri culturaliu ufficiali indù, pone sempre, come l’antico brahmanesimo, un'unica sussistenza eterna ed immutabile (brahman) da cui ogni cosa emana ed a cui ogni cosa ritorna. Questo brahman senza attributi (nirguna brahman) viene chiamato, in quanto si manifesta (saguna brahman), Isvara, il “Signore” per eccellenza dell’essere, del pensiero, della beatitudine. Egli è la radice prima della materia su cui imprime le varie forme in virtù del suo potere divino (mãyã); egli è il soffio (jivãtma) che anima il corpo umano.
Isvara è il Signore sotto il cui dominio stanno gli altri dèi (Deva) come suoi ministri, assai numerosi, ma divisi in cinque gruppi che hanno per capi Indra, già dio dei fenomeni atmosferici, ora ridotto a signore dell’aria; Vãyu dio del vento, Agni del fuoco, Varuma già dio del cielo notturno ed ora dell’acqua, Kubera della terra. Nei Purãna sono elencati i nomi degli dèi sottoposti a questi cinque, la cui natura è azione, mentre gli Asura rappresentano la resistenza o inerzia della materia.
Il brahman o Isvara supremo manifesta la sua azione nell’universo secondo tre aspetti di creatore, conservatore, distruttore, personificato in altrettante divinità: rispettivamente Brahma, Visnu, Siva. È questa la cosiddetta trinità indiana, la trimùrti, nella quale tuttavia non si tratta di tre distinte persone, ma del triplice modo di manifestarsi dell’unica sostanza divina. L’azione creatrice di Brahma è mantenuta e resa viva e cosciente da Visnu, che perciò è magnificato come il buono e generoso conservatore dei mondi, ed è distrutta da Siva, nel quale rivive il vedico Rudra; egli, dissolvendo le forme, libera le anime, chiamandole così all’unione con il tutto ed alla beatitudine.
Il neobrahmanesimo popolare, però, ha assunto un colorito bizzarramente feticistico, abbassando il concetto della divinità ed i mezzi tradizionali (sacrificio e meditazione) per entrare in comunicazione con essa e raggiungere così la liberazione.
L’Induismo non ha un aspetto unitario, ma è diviso in sette, ed i fedeli, che formano i due terzi della popolazione indiana si raggruppano intorno a quel dio che essi preferiscono: ista deva “dio di propria scelta”, secondo la teoria dei brahmani.
Capitolo 2: I testi sacri Induisti
2.1
Introduzione
Secondo il Grande Dizionario hindî (Brhat hindî kos, Benares, 1951) “un indù è un indiano che crede e si conforma nella sua vita alle regole di condotta, ai costumi, all’organizzazione sociale ed alla religione (dharma) fondati su principi esplicitamente o implicitamente enunciati dal Veda”. Questa definizione è molto restrittiva, perché respinge gran parte di ciò che viene chiamato Induismo popolare, ma ha il merito di formulare apertamente un’ortodossia. Di fatto, fra le innumerevoli sette e tradizioni che compongono l’Induismo passato e presente, le più strutturate, le più conosciute si fondano su una base scritturale. Questi “libri sacri” dell’Induismo possono suddividersi in due grandi categorie: alcuni affermano di esplicitare il Veda; gli altri si propongono di completarlo o piuttosto di integrarlo e quindi, in qualche modo, di sostituirlo. A questo titolo l’Induismo può essere inteso come una religione del libro, non certo di un libro, ma di un’immensa fioritura di testi di fondazione, molto diversi gli uni dagli altri per età, contenuto dottrinale, forma, statuto, ma che debbono trovare tutti la loro collocazione in rapporto al Veda.
2.2
I testi vedici
Cos’è dunque il Veda stesso? Questo nome, che significa “sapere”, designa un corpus i cui contorni non sono ben definiti: non vi è mai stata in India un’istituzione che abbia proclamato una “conclusione” del Veda; ed è solo per un concorso empirico che si distingue ciò che è Veda vero e proprio, ciò che dipende dal Veda senza farne propriamente parte (le “membra” attaccate a questo corpo) e ciò che gli è del tutto estraneo pur essendogli conforme.
Il Veda viene anche designato come sruti (“audizione”): questo termine si riferisce al fatto che il testo vedico è destinato ad essere detto, cantato, mormorato o anche solo mentalmente pronunciato, non ad essere scritto; l’allievo impara dunque il Veda, ascoltando il suo maestro recitarlo e recitandolo a sua volta.
Inoltre il Veda è una parola (vãc) che vale non solo per il suo senso, ma anche per la forza inerente ai soffi ed alle vibrazioni sonore che la manifestano. Non è un discorso sul mondo, è la quintessenza del mondo in quanto suono (sabda). Tuttavia questa parola si fa sentire dagli uomini e può essere da loro preferita perché, in tempi immemorabili, uomini con poteri eccezionali di “veggenti” (rsi) l’hanno “vista”. Un certo rsi ha avuto la visione di una certa parte del Veda. I rsi non sono dunque, nella dottrina indiana gli autori del Veda; capita loro di trasporre e disporre in sequenza parole e frasi, in poemi, in formule sacrificali e discorsi in prosa, questa parola che hanno dapprima percepito con la vista. Ma esiste un vero autore e creatore del Veda? Il testo vedico sfugge a questa domanda: perché, nelle cosmogonie spesso reversibili del Veda in cui si vedono i creatori creati o ri-creati dalle creature, la parola vedica può essere l’una o l’altra cosa. Per la tradizione post – vedica è un’argomento controverso: alcune scuole filosofiche (quella che teorizza lo yoga, per esmpio) e la maggior parte dei movimenti religiosi dell’Induismo ritengono che il Veda sia opera di un dio, o, meglio, del sovrano (îsvara) divino; altri, che si considerano i custodi dell’ortodossia autentica (i ritualisti ed i filosofi della Mîmãmsã, o “esegesi”), insegnano che il Veda è eterno ed increato, che non è la parola di qualcuno, ma la parola in sé.
Osserviamo che, per tutti, la rivelazione o la serie di rivelazioni del Veda ai rsi non è un evento che segnerebbe una frattura nella storia umana. Questa rivelazione non determina una conversione: tutto ha inizio, per quanto si possa parlare di inizio a proposito della concezione vedica dell’azione e del tempo, da queste prese di coscienza. Gli dèi stessi devono scoprire, poco per volta, la scienza sacrificale che è il contenuto del Veda e accade loro di trovarsi in competizione, in questo ambito, con gli uomini.
In concreto, il Veda si presenta come una sovrapposizione di testi la cui composizione, per lo storico, è avvenuta nel millennio compreso tra il 1500 ed il 500 prima dell’era cristiana. Questi testi vengono elaborandosi tra i clan ãrya che in questo periodo penetrano nell’India attraverso i passi di Nord – Ovest e conquistano progressivamente il Pañjãb e la pianura indo – gangetica. La lingua di questi testi è un sanscrito arcaico. In questa sovrapposizione cronologica, alcuni tagli verticali fanno apparire tre blocchi distinti. La Sruti, infatti è una trayî vidyã, una “triplice scienza”: c’è il “Veda delle strofe” (Rg – Veda), quello delle “melodie” (Sãma – Veda) e quello delle “formule rituali” (Yajur – Veda): a ciò si aggiunge un quarto complesso, un po’ staccato dagli altri, il “Veda degli incantesimi”, noto col nome di Atharva – Veda. Questi complessi hanno tutti la stessa struttura; anzitutto, alla base si trovano delle Samhitã (“collezioni”), che formano lo strato più antico. La Samhitã del Veda delle strofe è costituita da un migliaio di inni e di preghiere, in versi, molti dei quali, nonostante, o forse per il loro aspetto enigmatico, sono pieni di forza e di sublime bellezza; le Samhitã del Veda delle melodie consistono in strofe estratte dal Rg – Veda ed adattate alla recitazione cantata; nelle Samhitã dell’Atharva – Veda, essenzialmente magica, contiene alcuni grandi inni speculativi. In secondo luogo, a ciascuna delle Samhitã sono assegnati uno o più Brãmhana, opere in prosa che trattano del sacrificio: spiegano il simbolismo e la portata dei riti e giustificano il nesso, nella liturgia, tra parole e gesti. In terzo luogo, i Brãmhana si prolungavano con gli Âranyaka (“[testi] silvestri”): esoterici, possono essere studiati e recitati soltanto nella solitudine dei boschi. Infine, le Upanisad (“equivalenze”), testi generalmente brevi, in prosa, ove si afferma il progetto di interiorizzare il rito e di mettere in luce le corrispondenze mistiche tra l’uomo ed il cosmo, insegnano l’identità ultima dell’ãtman, l’anima individuale, e del brahman, qui inteso come anima cosmica o come ”assoluto”.
Le discendenze dei brahmani ancor oggi si definiscono per la loro appartenenza ad una determinata “branca” (sãkhã) di un certo Veda: affiliazione che viene tenuta in considerazione nel funzionamento delle regole di esogamia. E ci si sdebita di un debito congenito verso i rsi ed il Veda stesso, studiando, facendo propri i testi della tradizione familiare a cui ci si ricollega.
Capitolo 3: Vita e tradizioni induiste
3.1
La vita religiosa di un induista
L’Induismo è la religione non degli induisti, ma degli Indù, e questo è quasi il nome di un’etnia. Di massima non si diventà Indù per adesione personale. Si può essere indù solo per nascita, perché si è vita la luce in una famiglia indù, cioè inclusa nel sistema delle caste. È un problema storico difficile sapere in concreto come sia avvenuta l’espansione dell’Induismo in tutto il subcontinente e di come si siano formati nell’antichità gli Stati induizzati dell’Asia del Sud – Est. Alcune popolazioni sono state assorbite dall’induismo, ed il processo non è ancora concluso, ma non si può parlare in senso vero e proprio di conversione: alcuni gruppi (tribù, fazioni di etnie) sono percepiti come caste e sono integrati di pratiche e concetti che è la civiltà indù.
Nell’Induismo generale non v’è nulla di simile al battesimo od alla circoncisione: tra gli indù le cerimonie che segnano l’inizio del ciclo vitale caratterizzano l’integrazione nel lignaggio o nella casta ed indicano che si fa parte già da prima dell’umanità indù; quanto al rito di iniziazione propriamente detto (upanayana), cui sono teoricamente sottoposti i ragazzi nati in uno dei primi tre “ordini”, o “classi” (varna), della società, esso dà loro accesso alla parola vedica e costituisce una seconda nascita che conferma la loro appartenenza a questi strati superiori, non alla società indù in quanto tale. Si esce dall’Induismo solo decidendo espressamente di lasciarlo per aderire ad una religione che si ritenga essa stessa incompatibile con l’induismo. Per contro, si può essere esclusi dalla propria casta (jãti) per decisione di organi composti da notabili del gruppo. È soltanto come conseguenza che si rischia cosi di essere respinti ai margini dell’Induismo stesso.
Dato che un’ortodossia unica non esiste, l’induismo, che peraltro pone al centro della sua dottrina e della sua pratica la nozione di gerarchia ed annette tanta importanza alla distinzione degli status, legata dalla separazione dei compiti ed alla valutazione della loro rispettiva purezza, non ha una gerarchia ecclesiastica. In nulla è assimilabile ad una Chiesa. Vi si cercherebbe invano una fonte suprema da cui emani un’autorità in tema di fede o di culto. Ma quando, in un tempio, collaborano più officianti, la gerarchia delle competenze, insieme con quella delle caste, è un principio fondamentale dei loro rapporti. E, trattandosi di devoti, è solo a prezzo di lunghe ed aspre battaglie che Gandhi ha potuto imporre l’entrata degli intoccabili nei templi.
Nell’Induismo non si trova nulla che ricordi la piramide delle parrocchie, diocesi, province. Vi sono , certo, culti locali divinità e santuari di villaggio, di quartiere, con i loro addetti, ma si tratta di unità autonome, non di divisioni di circoscrizioni più vaste. Vi sono d’altra parte, grandi templi, luoghi di pellegrinaggio: essi sono focolaio di attività religiosa, culturale ed economica nella loro regione e recano senz’altro i segni del loro radicamento locale; ma, di fatto, il loro potere di attrazione si estende a tutto il mondo indiano, nella sua geografia mitica e rituale, l’India indù, continente del Melo rosa (jambudvîpa), è veramente una: disseminata di poli che non tracciano attorno ad essi zone di influenza, ma sono contemporaneamente centri per tutto l’insieme.
3.2
Il culto e la morale
Il culto pubblico degli Indù, come già detto, si svolge non all’aperto, come nei tempi vedici, ma nell’interno dei templi, dove solo il brahmano entra durante la cerimonia. I brahmani portano il distintivo della setta a cui appartengono, passano la vita nella lettura dei libri sacri e presiedono, specialmente alle cerimonie del culto privato, nei momenti importanti della vita: nascita, iniziazione giovanile, matrimonio. Il sacrificio giornaliero nell’Induismo è di cinque specie e si offre: 1° ai Veda mediante lo studio e l’insegnamento dei medesimi; 2° ai Deva mediante il riconoscimento dei loro benefici; 3° ai Padri, cioè agli antenati della famiglia; 4° agli uomini, praticando l’ospitalità; 5° alle creature o spiriti minori, offrendo loro parte dei pasti giornalieri. Questo insieme di doveri costituisce la legge (Dharma).
La morale dell’Induismo è in conformità alla sua visione dell’universo, fondamentalmente monstica, nonostante la molteplicità delle forme e degli oggetti del culto. L’unità assoluta ed eterna dell’uno universale e dell’Io obbliga l’individuo a rispettare gli altri, perché un’offesa ad un singolo ricade su tutti, mentre tutto ciò che favorisce l’armonia e l’unione va costantemente perseguito. Per ottenere ciò è necessario il controllo della mente, della parola e del corpo, che non devono essere lasciati incustoditi, sotto pena di soggiacere a desideri smodati che turbano la pace, mentre è la rinuncia che dà la pace allo spirito.
3.3
La morte e la reincarnazione
Dopo il decesso la salma viene lavata, le si radono capelli e barba, si esegue su di essa il compianto e quindi viene condotta al rogo per l’incinerazione, che è il rito normale degli Indù a qualunque condizione sociale appartengano. Essi ritengono che la distruzione rapida del cadavere affretti la liberazione dell’anima e la sua rinascita o reincarnazione in un altro corpo. Un animale viene immolato sul rogo insieme con le armi dal defunto adoperate.
La reincarnazione in India è diffusa presso le larghe masse della popolazione. L’origine di tale credenza è molto dubbia: i Veda non la conoscono affatto; i primi accenni si trovano nella letteratura brahmanica. Essa ha fin dall’inizio accentuato carattere pessimistico. Nello Satapatha brãhmana si parla di sacrifici con cui si possono evitare le rinascite. Ma già nelle Upànisad si presenta il concetto del karman, per cui non solo le rinascite, ma anche il destino delle singole vite sono irrevocabilmete determinati dalle azioni compiute nelle vite precedenti.
BIBLIOGRAFIA
- Enciclopedia multimediale ENCARTA ‘98, EDITORE Microsoft Corporation voce: Induismo, New York, 1998
- Enciclopedia LA PICCOLA TRECCANI, EDITORE Istituto della Enciclopedia Italiana voce: Induismo, Roma, 1996
- Enciclopedia LE RELIGIONI DEL MONDO, EDITORE U.T.E.T., Voce: Induismo, Torino, 1997
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