L'io dell'artista

Materie:Tesina
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Testo

Elaborato pluridisciplinare per l’esame di Stato
- LICEO SCIENTIFICO -
L’IO DELL’ARTISTA
L’importanza del ricordo nel processo della creazione artistica

A cura di Sara P.
PERCORSO

PREFAZIONE
Prima di trattare in modo specifico l’Io dell’artista è doveroso spiegare cosa intendiamo con la parola Io in filosofia. Questo pronome, con cui l’uomo designa se stesso, è diventato oggetto di investigazione filosofica dal momento in cui il riferimento dell’uomo a se stesso, come riflessione su di sé o coscienza, è stato assunto a definizione dell’uomo. Abbiamo quattro diverse definizioni:
1. Definizione cartesiana: “Che cosa dunque sono io? Una cosa che pensa. Ma che cos’è una cosa che pensa? E’ una cosa che dubita, concepisce, afferma, nega, vuole o non vuole, immagina e sente. Certo non è poco se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma perché non le apparterebbero?… E’ di per sé evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero e che non c’è bisogna di aggiungere nulla per spiegarlo.” (Mèd., II).
2. Io come autocoscienza (Kant): l’Io viene visto “come oggetto della percezione o del senso interno e l’io come soggetto del pensiero o dell’appercezione pura, cioè l’io della riflessione” (Antr., I)
3. Io come unità (Locke, Hume): Hume aveva paragonato l’io a “una repubblica, che può mutare gli uomini che la governano, come pure nella sua costituzione e nelle sue leggi, senza perdere la sua identità. L’uomo, allo stesso modo, può mutare le sue impressioni e le sue idee, rimanendo lo stesso io” (Teatrise, I, 4, 6)
4. Io come rapporto (Kierkergaard): definì l’io come “un rapporto che si rapporta a se stesso. L’uomo è una sintesi d’anima e di corpo, d’infinito e di finito, di libertà e di necessità, (…) Una sintesi è un rapporto; e il ritorno su questo rapporto, cioè la relazione del rapporto con se stesso, è l’io dell’uomo. (Die Krankheit zum Tode, 1849, cap 1).
Bibliografia
“Dizionario Filosofico”, Abbagnano
MARCEL PROUST: LA TEORIA DELLA MEMORIA
“(…) Ma quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’edificio immenso del ricordo” - (Marcel Proust, La strada di Swann, traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi – 1946)
La reminiscenza per Proust è frutto della memoria involontaria, lo spazio e il tempo in cui la vita acquista la profondità dell’arte. Proust distingue, infatti, tra memoria volontaria, quella suscitata dall’intelligenza e quindi povera e limitata, e memoria involontaria, debitrice dei soli sensi, quella sublime della sensazione. E’ a quest’ultima e alla sua casualità che si deve il recupero di un passato altrimenti perduto per sempre. La memoria funziona come una metafora, che avvicinando due momenti analoghi ce ne restituisce l’uno dentro l’altro. Crechiamo ora di spiegare come i ricordi diventano Arte:
“Per studiare l’opera della memoria Proust deve prima riprodurre quella dell’oblio. Si vede spesso un personaggio del suo libro cercare in se stesso la traccia di ciò che ha amato, e sorprendersi di non trovare che indifferenza: Swann dimentica Odette, il narratore la nonna o Albertine. Così il ricordo, felice o crudele, porta la sua luce in una zona oscura: questo stupore si chiama Arte” - (Thierry Laget, Du côté de Swann de Marcel Proust)
Risulta chiaro, quindi, la grande importanza che Proust attribuisce alle reminiscenze durante il processo creativo, come conferma in questi suoi appunti:
“Da aggiungere nell’ultima parte per la mia concezione dell’arte. Ciò che si presenta così oscuramente al fondo della coscienza, prima di realizzarlo all’esterno bisogna fargli attraversare una regione intermedia tra l’io oscuro, e l’esterno, la nostra intelligenza, ma come condurlo fin là, come afferrarlo” - (Marcel Proust in Carnet 1908, Cahiers Marcel Proust nouvelle série, #8)
Proust arriva addirittura a considerare i ricordi involontari come unica materia prima delle opere d’arte:
“Vedete, io credo che sia solo ai ricordi involontari che l’artista dovrebbe domandare la materia prima della sua opera. In primo luogo, perché essi sono involontari, si formano da sé, attratti dalla somiglianza di un minuto identico, essi soli hanno la firma dell’autenticità. Poi, essi ci riferiscono le cose in un dosaggio esatto di memoria e di oblio. - (intervista concessa da Proust a Le Temps in occasione della pubblicazione del Du côté de chez Swann”)
Paul Valéry nell’“Hommage à Marcel Proust” così commenta la teoria del romanzo e l’uso particolare che ne fece Proust:
“Il romanzo può dunque ammettere tutto ciò che richiede e ammette ogni sviluppo ordinato della nostra memoria, quando essa riprende e commenta un tempo che abbiamo vissuto: non solamente ritratti, paesaggi, e la cosiddetta “psicologia”, ma anche ogni sorta di pensieri, allusioni a tutte le conoscenze. Può agitare, compulsare l’intero spirito. Sotto questo aspetto il romanzo si avvicina al sogno, da un punto di vista formale; di entrambi si può dire, a causa di questa curiosa proprietà, che tutti i loro scarti gli appartengano ... Proust ha tratto uno straordinario profitto da queste condizioni così semplici e così ampie. Non ha colto la “vita” mediante l’azione, l’ha raggiunta, e come imitata, mediante la sovrabbondanza delle connessioni che la più insignificante immagine trova con tanta facilità nella sostanza propria dell’autore. Era capace di dare delle radici infinite a tutti i germi di analisi che le circostanze della sua vita avevano seminato nella sua durata. L’interesse delle sue opere risiede in ogni frammento"
Bibliografia
www.proust.it
IL SOGNO E IL PRODOTTO ARTISTICO
Freud afferma:
"...la psicoanalisi è iniziata come terapia, ma non è questa la ragione per cui ho inteso raccomandarla al vostro interesse, bensì per il suo contenuto di verità, per quanto ci insegna su ciò che riguarda più da vicino lo uomo - sulla nostra essenza - e per le connessioni che mette in luce fra le più diverse attività dell'uomo." (Introduzione allo studio della psicoanalisi, 1933)
Per Freud dunque il metodo psicoanalitico, Scienza dell'Uomo per eccellenza, non deve essere confinato esclusivamente nel campo dei disordini psichici, ma deve volgere il suo sguardo anche ai principali prodotti dell'attività umana. Tuttavia tra tutte le manifestazioni umane egli riservò sempre un posto privilegiato all'interpretazione psicoanalitica dell'arte e della creatività: per Freud gli artisti, soprattutto i poeti e i romanzieri, i rivelatori dell'anima e i mediatori tra noi e l’inconscio. A chi gli chiedeva quali fossero stati i suoi maestri, rispondeva indicando i libri di Sofocle, Shakespeare e Goethe. Infatti numerosi furono i suoi studi dedicati all'arte (il più importante si intitola Il poeta e la fantasia del 1907.
In quest’opera Freud tenta di spiegare le dinamiche che portano alla creazione artistica ed arriva ad accostare l'opera d'arte (in questo caso la poesia) al sogno
"Con ciò non s'intende disconoscere che molte creazioni poetiche si mantengono ben lontane dal modello di un ingenuo sogno ad occhi aperti; ma non posso fare a meno di sospettare che anche i casi che maggiormente se ne allontanano possano essere congiunti a questo modello attraverso una catena ininterrotta di passaggi intermedi." (Il poeta e la fantasia, 1907)
Sia il prodotto artistico che il sogno procedono dunque dall'inconscio e lo esprimono dopo averlo travestito secondo il gioco di certe leggi che sono approssimativamente le stesse in entrambi i casi. Da qui la legittimità di applicare l'analisi alle opere e la possibilità di trovare in esse un "contenuto latente" dietro un "contenuto manifesto".
Infatti quegli stessi desideri sessuali ed aggressivi di natura orale, anale, fallica e genitale che si agitano nell'inconscio freudiano come in un calderone in ebollizione, perennemente alla ricerca di una via di scarica, rappresentano la forza motrice non solo del sogno ma della stessa creazione artistica.
"Gli stessi impulsi sessuali (che hanno una grandissima parte nella determinazione delle malattie nervose e mentali) partecipano con contributi da non sottovalutarsi alle più alte creazioni culturali, artistiche e sociali dello spirito umano...Noi riteniamo che la civiltà si sia formata sotto l'urgenza delle necessità vitali a spese del soddisfacimento delle pulsioni... Tra le forze pulsionali così impiegate, quelle degli impulsi sessuali hanno un ruolo importante; in questo processo esse vengono sublimate, ossia distolte dalle loro mete sessuali e rivolte a mete socialmente superiori, non più sessuali." (Freud, 1915 - 17).
I desideri, le fantasie, i conflitti inconsci sono rappresentati:
nel sogno solo dopo essere stati resi irriconoscibili dal lavoro onirico
nel prodotto artistico solo dopo essere state mascherate ad opera della forma estetica attraverso:
1. condensazione
2. spostamento
3. considerazione di raffigurabilità
4. simbolizzazione
Solo in questi due modi la censura può lasciare passare nell'opera d'arte, così come nel sogno, tendenze rimosse che sarebbero incompatibili con la coscienza dell'uomo civilizzato.
Per Freud quindi la grandezza di un artista consiste nella sua capacità di operare una trasformazione estetica alle proprie fantasie di desiderio in modo da attenuare quanto vi è in esso di offensivo, nascondere le loro origini pulsionali, obbedire alle leggi della bellezza e offrire così al pubblico un premio di piacere.
"La vera ars poetica consiste nella tecnica per superare la nostra ripugnanza...Possiamo supporre due mezzi di questa tecnica: il poeta addolcisce il carattere della sua fantasticheria egoistica alterandola e velandola; e ci seduce mediante il godimento puramente formale, e cioè estetico, che egli ci offre nella presentazione delle sue fantasie." (1907).
L'artista quindi, come il sognatore, in virtù di una certa regressione narcisistica distoglierebbe il proprio "interesse" dalla realtà frustrante per indirizzarlo al proprio mondo fantasmatico e, grazie al temporaneo riemergere dell'onnipotenza infantile, arriverebbe a soddisfare fantasie e desideri rimossi attraverso una realizzazione di tipo allucinatorio.
"...Anche l'artista è in germe un introverso, non molto distante dalla nevrosi. Egli è incalzato da fortissimi bisogni pulsionali...ma gli mancano però i mezzi per raggiungere queste soddisfazioni. Perciò, come un qualsiasi altro insoddisfatto, egli si distacca dalla realtà e trasferisce tutto il suo interesse, e anche la sua libido, sulle formazioni di desiderio della vita fantasmatica.." (1915 - 17)
“ L'onnipotenza dei pensieri si è conservata nella nostra civiltà soltanto in un settore: quello dell'arte. Solo nell'arte succede ancora che un uomo dilaniato da desideri realizzi qualcosa di simile al soddisfacimento, e che questo gioco - grazie all’illusione artistica - evochi reazioni affettive, come se fosse una cosa reale." (Totem e tabù, 1912 - 13).
IL RICORDO COME FONTE DELLA CREATIVITA’
Come abbiamo già rilevato, i processi che stanno alla base della produzione artistica e del sogno sono i medesimi. Noi cercheremo di analizzare in particolare come un’esperienza recente possa richiamare alla memoria uno dei dettagli di un periodo della nostra vita che ci sembrano insignificanti e che abbiamo rimosso dalla nostra memoria per lungo tempo, e come questi possano diventare uno spunto per l’ispirazione artistica. Questo vale anche se si tratta di un’esperienza interiore, cioè il ricordo di un fatto psichicamente importante o un’associazione di idee. Un chiaro esempio di questo processo è “Le Tempe retrouvè” dello stesso Proust, in cui elementi tra i quali il rumore di un cucchiaio, la rilegatura di un libro o il fondo sconnesso del cortile dei Guermantes resuscitano altri momenti della vita del protagonista e lo convincono a scrivere il suo libro.
Possiamo catalogare quattro diverse fonti d’ispirazione legate al ricordo:
a) Un’esperienza recente e psichicamente rilevante che viene rappresentata direttamente
b) Diverse esperienze, recenti e significative, che vengono composte in unità dal sogno
c) Una o più esperienze recenti e significative che vengono rappresentate nel contenuto del sogno da un’esperienza contemporanea
d) Un’esperienza interiore significativa, che viene rappresentata nel sogno da un’impressione recente
Bibliografia
www.psiconline.it
Alcune note su Psicoanalisi e Arte
Dott Gino Rimondi, Psicologo, Bologna
www.studenti.it
MUNCH E IL RICORDO:
L’ESPERIENZA INFANTILE DELLA PERDITA
Freud suggerisce…
"Chi ricerca alla base della produzione di un artista determinati fattori aventi radice nell'inconscio non per questo lo considera per forza un nevrotico: anzi l'indagine psicoanalitica può per lo più vedere nella (sua) attività un modo di reagire e di difendersi da fattori eventualmente suscettibili di favorire una nevrosi...Naturalmente questo non esclude che possano esservi elementi veramente e duraturamente morbosi in qualche artista particolare, e che di questi elementi possa rimanere traccia nella sua opera." (Musatti, 1977).
A margine di una delle copie del Grido, Munch scrisse:
"Solo un folle poteva dipingerlo".
Questa notazione ci fa pensare che non fosse un folle chi poteva porsi di fronte ad una tale rappresentazione della disperazione e osservarla criticamente.
Certo era qualcuno che lottava strenuamente dentro di sè con
"le rappresentazioni dell'irrapresentabile, del dolore e delle sue parti psicotiche, i frammenti che affiorano alla superficie della tela come residui di mondi esplosi, di materia psichica collassata. I buchi neri di Munch" (Magherini, 1998).
La maggiore fonte d’ispirazione per Munch è rappresentata dal ricordo delle esperienze infantili. Infatti per comprendere le sue opere è necessario tracciare un breve profilo biografico:
Secondo di cinque figli, perse la madre all'età di cinque anni, nel 1868, assistendo, insieme alla sorella maggiore di un anno, Sophie, alla sua morte causata dalla tubercolosi. La zia materna si occupò dei cinque bambini. Il padre, medico, soffre per tutta la vita di disturbi ciclotimici, oscillando fra stati di colpa per non aver saputo curare e salvare la moglie, e stati d’esaltazione mistica. All'età di quattordici anni perse la sorella Sophie, anch'essa a causa della tubercolosi, ed anche in questo caso assistendo alla sua dipartita, rappresentata nel quadro del 1895 Morte nella camera di un'ammalata. La sorella Laura si ammala di una grave malattia mentale in giovane età. Tra il 1888 e il 1889 si ammalò di febbri reumatiche. Nella convalescenza dipinse Primavera. Nel 1889 recatosi a Parigi con una borsa di studio, viene raggiunto dalla notizia della morte del padre. Dipinge Notte a St. Cloud. Nel 1895 muore il fratello Andreas, pochi mesi dopo essersi sposato. A cavallo del secolo lo stesso Edvard verrà ricoverato per un breve periodo in una clinica per malattie nervose. Nel 1902 la sua turbolenta storia d'amore con Tulla Larsen, esponente della "bohème" di Kristiania, l'attuale Oslo, si conclude tragicamente, con un colpo di revolver al culmine di un furibondo litigio, che amputerà un dito della mano sinistra di Munch. Questo "incidente" sarà spunto per elaborazioni di tipo paranoide da parte di Munch. "In una serie di caricature egli riversò il suo disprezzo nei confronti di Tulla e dei suoi più vicini amici dell'ambiente della bohème di Kristiania" (Hoifodt, 1996). Nel 1906 e nel 1908 fu di nuovo ricoverato per i suoi disturbi nervosi e per i problemi d’alcoolismo connessi. Dopo questa crisi Munch darà una svolta alla sua vita, ritirandosi dapprima a Kargero, e quindi nella sua proprietà di Ekely, vicino ad Oslo, circondato unicamente dai suoi dipinti, fino il giorno della sua morte nel gennaio 1944. Lascerà la sua eredità, costituita da un numero enorme di dipinti, opere grafiche, fotografiche e letterarie alla città di Oslo.
La vicenda infantile di Edvard Munch ha segnato profondamente la sua opera, in particolare nella fase iniziale e centrale della sua produzione. Assistere a cinque anni alla morte per tubercolosi della madre, gli aspetti cruenti della scena, sono immagini intagliate nella memoria, e riattivate dal ripetersi della stessa situazione nove anni più tardi, alla morte della sorella Sophie.
Un lutto così precoce e drammatico espone il bambino al contatto con una realtà esterna e interna soverchianti le sue capacità di pensiero. Lo spazio mentale viene allagato dal vuoto dello spazio dove stava l'oggetto, determinando una dissoluzione dello spazio mentale stesso. Di fronte ad un'esperienza così devastante il bambino necessiterebbe proprio dello spazio mentale della madre per mentalizzare l'esperienza che sta vivendo, per utilizzare le capacità di contenimento e di rèverie della mente adulta, ma è proprio questo che è venuto a mancare.
Prendiamo in considerazione il dipinto La madre morta e la bambina.
Nella versione conservata a Brema (1899-1900) Munch rappresenta ciò che gli si è parato innanzi allo sguardo all'età di cinque anni, il letto di morte della madre, la sorella di sei anni con gli occhi sbarrati dal terrore, muta…

"le mani sulle orecchie per allontanare l'urlo silenzioso ... della morte" (Bishoff, 1994).
"Di uno sguardo, di un'orbita, si dice che sono vuoti in quanto hanno contenuto la visione e l'hanno perduta", dice Starobinski (1994), l'occhio sbarrato contiene ormai solo il vuoto.
In questa versione la bambina è sola, si può solo identificare nella prospettiva lo stesso sguardo di Munch bambino, attonito, di fronte ad una rappresentazione dell'impensabile. In questo sguardo sembra aleggiare il vuoto di emozioni che deve essersi prodotto:
"L'emozione suscitata dal nulla (no-thing) viene sentita come indistinguibile dal nulla (no-thing). L'emozione viene sostituita dalla non-emozione." (Bion, 1970, p.31). Si crea così un "buco nero".
La Madre Morta (1899-1900)
Olio su tela, 39 3/8 x 35 3/8
Kunsthalle, Bremen
Tuttavia Munch ricorda la scena, ma nel lavoro del ricordo, a posteriori, la arricchisce di significato: in questa versione l'ombra unisce la sorella col letto di morte della madre; il destino materno si proietta sulla figlia, che prende su di sè il carico di tutta questa esperienza, delle emozioni non sperimentabili di Munch stesso. Nella sorella Sophie sembrano passare anche tutte le esperienze emozionali del piccolo Munch, essa diviene depositaria della sua impensabile angoscia di dissoluzione persecutoria, nell'assenza di un altro "contenitore" capace al momento di permettere al bambino di elaborare il lutto. Vediamo qui inoltre delinearsi uno dei temi della pittura di Munch, quello dell'ombra, che tornerà in diversi contesti, ma sempre ad indicare la presenza inquietante di uno spazio al contempo proprio e non proprio, sempre oscuro e minaccioso, dove il soggetto può continuamente rischiare di essere risucchiato.

La madre morta, (1897 - 9)
Olio su tela
105 x 178.5 cm
Nella versione di questo dipinto conservato ad Oslo (1897-1899), vi sono cinque persone dall'altro lato del letto della madre morta, ognuna delle quali, a suo modo, sembra contenere le emozioni suscitate dall'evento. Ma sono al di là del letto, la bambina e il piccolo Munch sono soli. Si prospetta qui una tematica ricorrente e forse mai del tutto elaborata da Munch, quella della incomunicabilità dell'angoscia. Incomunicabilità che trova le sue radici nell'allagamento dello spazio mentale di ognuno da un carico d’angoscia e di lutto, che non lasciano spazio alle proiezioni dell'altro. La figura parentale è talmente assorbita dal suo dolore che non trova lo spazio dentro di sè per accogliere ed elaborare l'angoscia del bambino. In particolare sembra che qui l'isolamento delle figure voglia rappresentare la condizione di conflitto e separazione che ha caratterizzato i rapporti di Munch col padre, un uomo che non è mai riuscito a elaborare la perdita della moglie, probabilmente riversando su Edvard il peso della modalità persecutoria in cui viveva il lutto come una colpa personale, secondo il registro dell'onnipotenza per cui come medico doveva sconfiggere la morte, e che ritorna anche nella maniacalità di un’ispirazione religiosa fanatica e integralista, in contrasto con ogni vitalità che poteva risvegliarsi. Ancora in questa versione il rosso al di sotto del letto della madre, rosso che ricorda anche l'emottisi, e che tornerà nelle nuvole del Grido (Rugi, 1996), si confonde col rosso del vestito della bambina, a sottolineare il passaggio del carico della malattia e della morte dalla madre alla figlia. Un passaggio senza possibilità d’elaborazione e di cura.
Con quest’esempio abbiamo dunque capito che la memoria, per Munch, è fonte di creazione artistica:
"Non dipingo mai ciò che vedo, ma ciò che ho visto"
ed è la fonte interna della creatività, una memoria da recuperare, da chiarificare passo passo, frammenti di vita di cui dolorosamente riappropriarsi, attraverso un lavoro che permetta di non restare soverchiato dalla persecutorietà di cui possono tingersi "le più piccole cose" che non ci sono più.
Concludiamo con una frase dello stesso Munch
“…E vivo con i morti, con mia madre, mia sorella, mio nonno e mio padre, soprattutto con lui. Tutti i ricordi, le più piccole cose, vengono alla superficie...".
Bibliografia
www.psiconline.it
“Edward Munch.
Arte e trasformazione della sofferenza mentale.
Riflessioni psicoanalitiche su un percorso artistico”
di Luca Tabucco
WORDSWORTH: POETRY AS MEMORY
“…For all good poetry is the spountaneous overflow of powerful feelings: and though this be true, Poems to which any value can be attached were never produced on any variety of subjecs but by a man who, being possessed of more than usual organic sensibility, and also thought long and deeply”. (Wordsworth, Preface to the Second edition of the Lirycal Ballads, 1800)
“…I have said that poetry is the spontaneous overflow of powerful feelings; it takes its origin from emotion recollected in tranquillity: the emotion is contemplated till, by a species of reaction, the tranquillity gradually disappears, and an emotion, kindred to that which was before the subject of contemplation, is gradually produced, and does itself actually exist in the mind. In this mood successful composition generally begins, and in a mood similar to this carried on”. (Wordsworth, Preface to the Second edition of the Lirycal Ballads, 1800).
William Wordsworth’s description of poetic inspiration is retrospective, that is, he makes it clear that he is remembering the gentle breeze, not feeling it at the time he writes. In the last lines of one of his famous poems “The Solitari Reaper” he wrote:
“…And, as I mounted up the hill
The music in my heart I bore
Long after it was heard no more.”
The last stanza makes it clear that the poem was not written on the spot but it was coceived by the poet as a memory of a personal experience recollected in tranquillità.
Wordsworth believed that nature played a key role in spiritual revitalization and stressed the role of memory in capturing the experiences of childhood.
What role does memory play in the creation of poetry? The poet describes natural and simple objects and peaceful landscapes, he does not look at them with the realism of cold, objective observation, but sees all things through the eyes of memory, which recollects already lost emotions and half-exstinguished thoughts. Since poetry is “spontaneous overflow of powerful feelings”, these feelings are not immediate, but originate by the “emotion recolleted in tranquillity”, recreated by a subjectivity of memory.
Another literary work by Wordsworth deals with the theme of memory: “The Prelude”. James Hefferman in his essay “The Presence of the Absent Mother in Wordsworth's Prelude” gives a particolar interpretation of the importance of memory in Wordsworth’s poems”.
When his mother died he was just a child and her absence brought him a sense of deep desolation. But, accordino to the critic, “the memory of desolation become the memory of power that unites and reunites”. In other words the power of desolation turns into the power of imagination.
Bibliografia
Mingazzi, Salmoiraghi
“The New Mirror of Times”
James Heffernan
"The Presence of the Absent Mother in Wordsworth's Prelude"
Studies in Romanticism, 1988
PASCOLI: IL BISOGNO ESISTENZIALE DI MEMORIA
Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855, ma era ancora fanciullo quando il 10 agosto 1867 accade l’evento capitale della sua vita: l’assassinio del padre, amministratore locale dei principi Torlonia, dovuto probabilmente a una vendetta per ragioni di interesse, che restò impunito. Questo per il poeta, fu l’inizio di un periodo di sventure familiari: l’anno seguente morì una sorella maggiore Margherita, a distanza di un mese l’amatissima madre e, più tardi, due fratelli. Questa precoce esperienza di morte rimase per il poeta una ferita non chiusa, che lasciò tracce in tutte le sue opere. La prima reazione all’assassinio coperto dall’omertà di chi seppe ma non volle dire fu un senso di ribellione contro l’ingiustizia. Nel 1873 il poeta vinse una borsa di studio all’università di Bologna, dove ebbe come maestro Giosuè Carducci e s’iscrisse alla Facoltà di lettere, ma due anni dopo morì il fratello Giacomo. Pascoli trascurò gli studi per partecipare alle lotte di rivendicazione sociale a fianco dei socialisti e degli anarchici. Nel 1879, in seguito a dimostrazioni connesse all’attentato dell’anarchico Passanante contro Umberto Ι, subì alcuni mesi di carcere preventivo. Ne uscì assolto e con animo mutato, non più disposto a dedicarsi alla politica e maggiormente motivato a terminare gli studi. Laureatosi nel 1882, intraprese la carriera dell’insegnamento. Fu professore di latino e greco nei licei di Matera, Massa e Livorno dove riuscì a costruire il “nido” familiare con le sorelle Mariù e Ida verso le quali dimostrò un attaccamento morboso tanto che il matrimonio di Ida fu vissuto da lui come un vero e proprio tradimento, sentimento, questo che, del resto, la stessa Mariù nutrì nei confronti del fratello quando si profilò all’orizzonte un possibile matrimonio (che sfumò) del poeta con una cugina. Poi, dal 1898 al 1902 insegnò letteratura latina all’università di Messina, dal 1903 al 1905 di grammatica greca e latina a Pisa, infine, dal 1906, successore del Carducci nella cattedra di letteratura italiana dell’università di Bologna. Morì nel 1912, a Bologna e fu sepolto nella casa di Castelvecchio presso Barga in Garfagna (Toscana) dove aveva abitato dal ’95 in una villa di campagna assieme alla sorella Mariù, ritrovando la gioia del contatto con la campagna e con le cose semplici.
Gli esiti poetici di Pascoli sono radicati nella sua esperienza personale: nella sua riflessione teorica riconduce la poesia a un bisogno esistenziale di memoria (convinto che la poesia sia far “rivivere ciò che fu”) e di rapporto con le cose, che egli coglie nella loro spontaneità e immediatezza con ossessiva precisione. Verso gli ultimi anni del secolo egli tentò di precisare e razionalizzare il senso della propria esperienza in numerosi interventi, tra i quali spicca quello celebre dal titolo “Il fanciullino”. In queste pagine Pascoli giustificava implicitamente l’attenzione prestata dalla sua poesia al mondo dell’infanzia, movendo dalla constatazione che all’interno d’ogni uomo vive un “fanciullino” capace di vedere “tutto con meraviglia, tutto per la prima volta”, con occhi intatti e primigeni, e di comunicare con la realtà più autentica. Il poeta è colui che sa dar voce a questo “fanciullino”, che ne usa le qualità per il bene di tutti gli uomini. La vera poesia è forza originaria, capace di metterci in rapporto con le più semplici emozioni dell’infanzia, di risvegliare la bontà e la solidarietà che dovrebbero accomunare tutti gli individui.
In questo rapporto con le cose, il poeta aspira ad a ritrovare una calda intimità, uno spazio chiuso e felice: la poesia sembra quindi un modo per tornare al mondo dell’infanzia che al contempo richiama la morte e le figure dei morti. Il simbolo ricorrente con maggiore frequenza e intensità nella poesia pascoliana è l’immagine del “nido”, nella quale Pascoli traduce il proprio fortissimo legame con la famiglia d’origine, come possiamo vedere nei seguenti passi:
…”Ritornava una rondine al tetto.
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
Quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e resto negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono”… (tratto da X agosto, Myrycae)
“…O stanco dolore, riposa!
La nube del giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don... Don... E mi dicono, Dormi!
Mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!” (tratto da La mia Sera, )
E’ facile notare quanto siano numerosi i termini appartenenti all’area semantica del “nido”, dell’ambiente familiare o dell’infanzia in generale (vedi sottolineature).
Il poeta, infatti, tende a difendere costantemente il proprio mondo d’affetti e d’esperienze ma anche la sua famiglia (che comprende i vivi ma soprattutto i morti, sempre tenecemente presenti); assidua è la memoria dell’infanzia e dei lutti che hanno colpito il nucleo familiare, disperdendolo. Questo tema è evidente anche ne “La cavallina storna” in cui Pascoli racconta il rientro del carro del padre la sera della sua morte, che giunge guidato unicamente dalla cavalla.
Per Pascoli, inoltre, tutto quello che è al di fuori del “nido”, della famiglia è guardato con diffidenza, come una possibile minaccia per la famiglia stessa: da quest’angusto orizzonte sono esclusi soprattutto gli aspetti amorosi, infatti, questo motivo è quasi completamente assente dalla poesia (e dalla vita) di Pascoli, entrandovi al più come minaccia alla sicurezza del “nido”.
Per esempio, nella “Digitale purpurea” paragona l’amore a un fiore dal profumo venefico che attrae le sue due sorelle e che cerca di allontanarle dal “nido”. Maria riuscirà a resistere a questa tentazione ma Ida (nella poesia prende il nome di Rachele) si macchierà della colpa che il fratello non le perdonerà mai, come viediamo in questi versi:

(Digitale purpurea, Primi poemetti)
E’ quindi chiaro come in Pascoli i ricordi infantili giochino un ruolo fondamentale nella sua ispirazione poetica, anzi Pascoli attribuisce il merito della sua attitudine poetica alla memoria della madre:
“Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica”. (Prefazione ai Canti di Castelvecchio, 1903)
E per concludere…
“Ricordiamo, o Maria: ricordiamo! Il ricordo è del fatto coma una pittura: pittura bella, se impressa bene in anima buona anche se di cose non belle. Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo. Quindi noi di poesia ne abbiamo a dovizia”. (Prefazione ai primi poemetti, 1897).
Bibliografia
Giovanni Pascoli, “Poesie”, Luigi Reverdito Editore
Giulio Ferroni, “Profilo storico della letteratura italiana”
Segre, Martignoni, “Guida alla letteratura italiana”
1

Esempio