Vittorio Alfieri

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Testo

VITTORIO ALFIERI

Vittorio Alfieri
(Asti, 1749 - Firenze, 1803)

Come altri scrittori del XVIII secolo, la formazione del giovane aristocratico Vittorio Alfieri avvenne secondo i criteri e i modi tipici di una élite sociale: gli studi privati; l’Accademia Reale di Torino; la scoperta autonoma, in funzione autodidattica, di autori poi risultati determinanti per la sua concezione dello stato, dei valori e della letteratura (tra questi Montesquieu, Plutarco, Machiavelli); l’esperienza dei viaggi; la scelta costante del teatro tragico intervallato da testi teorici più o meno importanti, come il trattato Della tirannide e quello più strettamente letterario Del principe e delle lettere, oppure la Risposta a Ranieri de’ Calzabigi relativa alla pubblicazione delle Tragedie.
Nato e cresciuto ai margini geografici della cultura italiana, in un Piemonte più vicino alla lingua francese che alle radici toscane della lingua letteraria, l’atteggiamento dell’Alfieri andò subito delineandosi nella ricerca e nella riappropriazione di quella tradizione, prima con il gesto eclatante, ma anche velato di demagogia, del rifiuto di ogni orpello nobiliare e aristocratico (Alfieri cedette infatti alla sorella il titolo e i proventi che ne derivavano in cambio di una ricca rendita annuale). Durante la propria formazione egli lesse Montesquieu, Plutarco e Machiavelli, oltre ovviamente ai grandi classici della letteratura italiana: nei personaggi che uscirono dalla sua fantasia di scrittore tragico, in quei modelli egli proiettava un profondo senso della vita, un contrasto violento tra pulsioni e realtà, tra il desiderio di vedere manifestate le proprie convinzioni e una realtà dolorosamente contraria a quelle aspirazioni. Dunque tutta la materia tragica del teatro alfieriano è indirizzata alla ricerca e alla descrizione di volontà interne ai personaggi, che sono sempre presentati come individui solitari, attraversati da crisi profonde, dilaniati da contrasti altrettanto insanabili, irrisolvibili se non attraverso gesti eccezionali come la morte, il suicidio, il sacrificio personale in nome di valori assoluti (la libertà, l’onore, il rispetto per la patria, la giustizia).
Al di là della sua formazione, Alfieri rappresentò nella cultura italiana della seconda metà del Settecento una figura orgogliosamente isolata, quasi controcorrente rispetto all’atteggiamento, tipicamente illuministico degli intellettuali, che si radunavano e si riconoscevano in gruppi, accademie, movimenti, progetti intellettuali. Alfieri attraversò la stagione più importante dell’Illuminismo europeo (anche se era ancora molto giovane durante il decennio 1760-1770, nel quale si registrano i contributi più significativi della produzione letteraria e filosofica) senza tuttavia inserirsi a pieno titolo in quella società. Il suo atteggiamento rivelava piuttosto i sintomi di una crisi interiore di disadattamento intellettuale, che si irrigidiva in formule molto spesso astratte, velate di un forte solipsismo e individualismo (elementi che saranno poi tipici dello scrittore romantico). In molti scritti egli parla infatti di “smania di viaggiare”, di noia, di tedio, dichiarando in questo senso una sensibilità tormentata, attraversata da forti tensioni interiori che si riflettono emblematicamente nei suoi scritti. Nella Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso, il testo autobiografico che egli compose tra il 1790 e il 1803 (pubblicato postumo), lo scrittore articolava la narrazione secondo i modelli allora più attuali del genere autobiografico, attraverso cioè il racconto dei propri viaggi (il Grand Tour nelle capitali europee era un momento importante nella formazione di un giovane intellettuale), dei testi che furono fondamentali per la propria crescita come scrittore, dei contatti con una società aperta agli scambi culturali, degli eventi storici e politici che segnarono la fine del secolo. Ma nella Vita compaiono anche numerose altre indicazioni, che ci aprono un versante nuovo e sconosciuto di uno scrittore tragico ora attraversato da dubbi e incertezze, oppure curiosamente attirato dalla mondanità ridicola di certe situazioni (si ricordi la genuflessioncella del Metastasio alla corte di Maria Teresa d’Austria). Dalla figura del poeta tragico, nella cui immagine Alfieri si era costantemente rappresentato al centro di una condizione di eterna sofferenza interiore, si passa con la Vita a rievocare il proprio passato in una tonalità certo più intima e personale, più problematica che drammatica, spesso avvolta da un velo di sottile autoironia.
Vittorio Alfieri nasce ad Asti il 16 gennaio 1749, dal conte Antonio Amedeo e da Monica Maillard de Tournon. All’età di nove anni entra all’Accademia militare di Torino, considerata uno dei migliori collegi europei, dalla quale esce nel 1766, con il grado di portainsegna del reggimento d’Asti, ma l’impressione che ne serberà è quella di avervi trascorso “otto anni di ineducazione”. Spinto dal suo spirito irrequieto e incline alla malinconia, intraprende continui viaggi in varie nazioni europee, costellati da innamoramenti tumultuosi ma passeggeri, dai quali trae assai scarsa soddisfazione. Durante un soggiorno in Portogallo conosce il dotto abate Tommaso Valperga di Caluso, che lo incoraggia a comporre versi, e che gli sarà amico per tutta la vita. Nel frattempo legge molti scrittori francesi, tra i quali Voltaire, Rousseau, Helvétius e Montesquieu, e si accosta anche alle opere del Machiavelli e di Plutarco, che, come ricorderà nella Vita, divora “con trasporto di grida, di pianti, e di furori”. A Parigi, nel 1771, compra una collezione dei principali scrittori italiani.
L’anno seguente torna a Torino e, invaghitosi della marchesa Gabriella Turinetti Falletti, si lascia irretire in una travagliata relazione sentimentale (più tardi la definirà l’“odiosamata”), e mentre assiste la donna nel corso di una malattia, quasi per ingannare il tempo stende l’abbozzo della sua prima tragedia, Cleopatra (1774), che poco dopo riprende e sviluppa in versi per rappresentarla a Torino il 16 marzo 1775 insieme alla farsa I poeti. L’entusiastica accoglienza del pubblico convince l’autore a votarsi all’attività letteraria e allo studio, con l’unico intento di diventare un grande poeta. È una vera e propria “conversione”; da quel momento l’Alfieri si immerge nella lettura dei classici e dedica il massimo impegno al latino e alla grammatica italiana, allo scopo di “sfrancesarsi”, ossia di disabituarsi all’uso del francese scritto e parlato, allora d’obbligo per i nobili. Intanto progetta e stende la prima versione del Filippo.
Consapevole delle sue difficoltà ad esprimersi in italiano, decide di andare in Toscana per meglio apprendere la lingua; a Pisa compone il Polinice (1776) e, dopo un breve rientro a Torino, trascorre cinque mesi a Siena. Qui si lega di calda amicizia con Francesco Gori Gandellini (1739-1784), fine studioso e intenditore di classici, “grande anima degna di Machiavelli e Tacito”, che gli trasmette il suo entusiasmo per le opere di quegli scrittori.
L’anno seguente, a Firenze, l’Alfieri ha un incontro che influirà su tutta la sua vita; conosce infatti Maria Luisa Stolberg, moglie di Carlo Edoardo Stuart, conte d’Albany, pretendente cattolico al trono d’Inghilterra. La contessa, bella, intelligente e colta, affascina il poeta e lo accende di un “degno amore”, diventandone l’adorata compagna e ispiratrice fino alla morte. È un periodo felice, contrassegnato da intensi studi e da fervore creativo. Tra il 1775 e il 1782, l’autore scrive ben quattordici tragedie, tra le quali alcuni capolavori come l’Antigone e il Saul. Inoltre compone parte delle Rime e il trattato politico Della tirannide (1777).
Deciso a “spiemontizzarsi e svassallarsi” dal re di Sardegna, l’Alfieri fa donazione del suo patrimonio alla sorella (1778) conservando per sé un consistente vitalizio, e si stabilisce a Firenze. Ma sul finire del 1780, i rapporti ormai insostenibili con il marito obbligano la contessa d’Albany a lasciare il capoluogo toscano per Roma, dove l’Alfieri la raggiunge, trascorrendovi più di due anni di sereno soggiorno. In seguito, però, il poeta è costretto a trasferirsi a Siena, nella speranza di sfuggire allo scandalo suscitato dalla sua situazione sentimentale. Qui stampa il primo volume delle tragedie.
Un “pellegrinaggio” poetico lo conduce a visitare le tombe di Dante, Petrarca e Ariosto; compie poi un viaggio in Inghilterra, a comperare quei cavalli che sono la sua “passione terza”, dopo le Muse e la contessa, e nel 1784 si ricongiunge finalmente con la donna amata a Colmar sul Reno, in Alsazia. È un nuovo momento di felice ispirazione: tra l’altro scrive le tragedie Agide, Sofonisba e Mirra. La morte improvvisa del Gori Gandellini lo riporta a Pisa, dove compone molte liriche.
Tra il 1785 e il 1792 l’Alfieri e la contessa d’Albany vivono fra Colmar e Parigi; nella capitale francese lo scrittore conosce i maggiori intellettuali del tempo e diventa amico del poeta André Chénier. Il suo lavoro è ancora senza sosta: stende le due tragedie dal titolo Bruto primo e Bruto secondo; pone mano alla “tramelogedia” Abele e alle Satire (alle quali continuerà a lavorare fino al 1799); scrive inoltre il Panegirico di Plinio a Traiano, il dialogo Della virtù sconosciuta, molte altre Rime e il trattato Del principe e delle lettere.
A Parigi fa stampare tutte le diciannove tragedie in sei volumi per i tipi del Didot (l’opera completa esce nel 1789); l’anno seguente il tipografo Beaumarchais porta a compimento a Kehl l’edizione delle opere minori. Intanto, l’Alfieri comincia la stesura della Vita.
Allo scoppio della Rivoluzione francese, il poeta celebra la presa della Bastiglia con l’ode Parigi sbastigliato, ma ben presto si disgusta di quella che gli appare una “mostruosa” tirannia della plebe, e nell’agosto del 1792 fugge da Parigi per Firenze. L’anno successivo pone mano al Misogallo, opuscolo satirico che completerà nel 1798, di accesa intonazione antifrancese, e agli Epigrammi.
Negli ultimi anni di vita, il carattere dell’Alfieri subisce un sensibile peggioramento, ed egli diviene sempre più irascibile e solitario, chiuso ai contatti con gli altri, mentre la sua visione del mondo si fa ogni giorno più cupa e ostile alle novità. Prosegue tuttavia, infaticabile, il suo impegno di studioso e di poeta. Traduce dal latino l’Eneide di Virgilio e l’Arte poetica di Orazio e intraprende da solo lo studio del greco, cimentandosi anche in traduzioni di tragedie e commedie. Scrive l’ultima tragedia, l’Alceste seconda (1798), e sei commedie in versi di carattere politico e sociale (1800-1802). Il 14 maggio del 1803 stende l’ultima pagina della Vita. Muore a Firenze l’8 ottobre dello stesso anno, ed è sepolto nella basilica di Santa Croce.
Il documento fondamentale per conoscere l’Alfieri è la Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso: contiene infatti elementi indispensabili per penetrare a fondo nella personalità complessa e travagliata dell’artista, ed è un’illuminante testimonianza di come egli tenda a stabilire un legame inscindibile tra le sue vicende di uomo e la sua attività di scrittore, così che i dati reali dell’autobiografia finiscono per sovrapporsi e coincidere con quelli idealizzati di un modello letterario.
Il libro consta di due parti: la prima narra gli avvenimenti che giungono fino all’anno in cui inizia la stesura dell’autobiografia (1790) e si suddivide in quattro “epoche” (Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità); la seconda va dal 1790 al 1803, e contiene la narrazione delle vicende che hanno segnato la vita dello scrittore nell’età matura. L’intero scritto verrà pubblicato dalla contessa d’Albany tra le Opere postume (1804).
Lavoro memorabile, nel pur ricco panorama delle autobiografie del Settecento, la Vita s’ispira ai Mémoires del Goldoni e alle Confessions del Rousseau; l’autore vi descrive le tappe della propria puntigliosa e faticosa autoeducazione di uomo e di poeta e traccia un penetrante profilo di sé, disegnandolo con grande sincerità e, in certi momenti, anche con spiccati tratti di autoironia. La biografia vuole offrire ai lettori un’immagine sincera del carattere difficile e pieno di contraddizioni dello scrittore, incline a improvvise e ingiustificate depressioni come a eccessi di appassionato entusiasmo. Insieme, essa è destinata a illustrare e ad approfondire, non senza impennate di orgoglio, il senso delle scelte artistiche dell’Alfieri, e ne chiarisce mirabilmente l’evoluzione ideologica e politica. Nel contempo, la Vita persegue un intento letterario preciso: l’autore si ingegna infatti di dipingere il ritratto ideale di un uomo dall’indole “eroica”, dotato di eccezionale sensibilità e levatura psicologica, un vero e proprio “personaggio” dal “forte sentire”, degno di rientrare nella schiera dei suoi protagonisti tragici, lacerati, ma insieme temprati, dalla sofferenza.
La ricca produzione in versi dell’Alfieri abbraccia il periodo che va dal 1771 fin quasi alla morte. Si tratta di testi rielaborati più volte, composti all’interno di un ampio arco di tempo e legati quasi sempre ad esperienze autobiografiche. Negli ultimi anni di vita l’autore riordina la raccolta, datandola in modo da trasformarla in una sorta di diario, in vista di un’edizione definitiva. La prima parte, dal titolo Rime di Vittorio Alfieri da Asti, contiene 237 testi (188 sonetti, due canzoni, un’anacreontica, un capitolo e 45 epigrammi) che l’astigiano fa stampare a Kehl nel 1789, opponendosi però alla circolazione dell’opera; tra il 1798 e il 1799 vi aggiunge le liriche scritte nell’ultimo decennio, comprendenti 70 sonetti, un capitolo indirizzato ad André Chénier e 39 epigrammi. L’edizione completa così strutturata uscirà postuma nel 1804.
Una parte della critica contemporanea ha voluto valorizzare le Rime contrapponendole all’immagine “risorgimentale” di un Alfieri poeta politico, e individuando in esse una vena di intimismo e di approfondimento psicologico che nelle tragedie sarebbe soffocata da un eccesso di passione civile. In realtà, tra le une e le altre non vi è contrasto: come le tragedie, il canzoniere – perché di un vero canzoniere si tratta – ripercorre le vicende interiori di un animo dominato da un prepotente individualismo, attraverso un’analisi introspettiva continua e spesso spietata.
Il poeta indugia a scandagliare la sua irrequietezza e instabilità interiore, e quasi si compiace di analizzare la propria incapacità di vivere; sottolinea ripetutamente l’alternarsi in lui di diversi stati d’animo, la sua difficoltà di adattamento al mondo esterno e la tendenza a distaccarsene e a porsi quasi in una posizione di dissidio. L’Alfieri coglie ed esprime lucidamente il senso di vuoto e di solitudine che gli deriva da questo atteggiamento ed è pienamente cosciente di non sapere e di non voler colmare la frattura profonda che lo divide dagli altri. Spesso rifiuta ogni forma di conciliazione e di consolazione, anzi, accentua il risentimento e la rivalità nei confronti di chi lo circonda, oppure si ripiega su se stesso rifugiandosi nell’inerzia e nell’apatia. Ne deriva uno stato d’animo ansioso, di urto e di tensione interiore, che spesso rasenta l’angoscia.
Nei versi dell’età matura, sembra che il poeta avverta con ancora maggior lucidità di essere solo, estraneo e in continua opposizione al proprio ambiente e al proprio secolo, al punto che spesso i sentimenti espressi assumono il sapore aspro e il vigore polemico di uno sfogo risentito, che prorompe in toni provocatori e sarcastici.
Più raramente, il poeta riesce a raggiungere un equilibrio tra i vari stati d’animo e a riconciliarsi anche solo per un istante con il mondo. Allora il tormento si placa in una forma di malinconia più sfumata e contenuta, nella quale torna a prevalere la riflessione lirica, ed egli sembra percepire la vita umana in modo diverso, come esperienza unica e irripetibile, e la morte come affermazione individuale di libertà e di gloria.
La poesia “del forte sentir più forte figlia”, intesa in gioventù come espressione di intense passioni e di un eroismo indomabile, diventa così uno strumento di meditazione pacata, che poggia sul tema ricorrente del contrasto tra intelletto e sentimento.

Infatti l’Alfieri, ormai definitivamente contrario alla razionalità dell’Illuminismo, coglie la radice e il significato unico e vero della poesia nella possibilità che essa ha di penetrare nelle pieghe nascoste dell’intimo, e si ferma a riflettere, non senza qualche compiacimento, sulle proprie sensazioni, accentuando quegli aspetti psicologici che eserciteranno un forte influsso su scrittori d’epoca posteriore, tra i quali, primo fra tutti, il Foscolo e i poeti romantici della successiva generazione. L’acceso individualismo, il senso di solitudine e di diversità dagli altri che confluiscono nella personalità acuta, sensibile e ribelle dell’Alfieri anticipano infatti l’eroe passionale, dai sentimenti ardenti, consapevole d’esser votato al sacrificio o alla catastrofe, ma sempre grandioso nella sua lotta contro il destino, il cui prototipo è rappresentato, appunto, dal foscoliano Jacopo Ortis.
I trattati sono un’altra delle varie forme attraverso le quali l’Alfieri espone e precisa le idee che guidano costantemente la sua esistenza e sorreggono la sua concezione dell’uomo e dell’artista.
Il trattato Della tirannide, in due libri, l’uno di diciotto, l’altro di diciannove capitoli, viene composto quasi di getto nel 1777, dopo la lettura del Principe del Machiavelli, il “divino autore”; più tardi (probabilmente nel 1786) l’Alfieri lo rielabora prevedendone la stampa, che avviene a Kehl tra il 1789 e il 1790. A questa data, però, l’ostilità dell’autore verso la Rivoluzione francese lo induce a vietare la diffusione del libro, temendo che possa essere interpretato come un’adesione alla causa rivoluzionaria; ma nel 1801 l’Alfieri deve accogliere con grande disappunto la notizia che a Parigi il trattato è stato ripubblicato abusivamente. Nel primo libro, l’Alfieri espone il suo concetto di tiranno, definendolo come colui che ha “facoltà illimitata di nuocere”: si ha tirannide quando l’applicazione delle leggi è nelle mani di chi può fare, disfare, infrangere e interpretare le leggi stesse a suo arbitrio; la tirannide ha dalla sua, come complici e strumenti, la “paura di tutti”, la vigliaccheria dei nobili, la forza degli eserciti e il sostegno della religione, che educa all’obbedienza e alla rassegnazione. Nel secondo libro si prospettano le uniche possibilità di sopravvivere moralmente alla tirannide: la solitudine, il suicidio e il tirannicidio.
Il trattato Del principe e delle lettere si compone di tre libri. Viene scritto in varie fasi tra il 1778 e il 1786 e stampato a Kehl nel 1789; anche di questo lavoro l’Alfieri non autorizza la diffusione, attuata poi contro la sua volontà nel 1801. L’opera è pregevole perché ribadisce la necessità dell’indipendenza del letterato dal potere. Il primo libro, in dodici capitoli, tratta del danno morale e spirituale che i rapporti con il potere causano agli uomini di cultura, anche nel caso in cui il principe offra loro protezione e agi economici. Nel secondo libro, in tredici capitoli, l’autore conclude che il letterato deve mantenere ad ogni costo la propria indipendenza; è questo infatti l’unico mezzo per collocarsi moralmente al di sopra del principe e conservare la dignità personale ed un’incorruttibile autonomia di giudizio. Nel terzo libro, in dodici capitoli, l’Alfieri sottolinea ancora una volta l’importanza del fatto che l’intellettuale rifiuti qualunque rapporto e compromesso con il potere e obbedisca solo alla sua intima ispirazione. Quest’ultima consiste in una sorta di “impulso” divino, che spinge lo scrittore ad esprimere i propri sentimenti, lo incoraggia ad agire e lo sprona al sublime compito di “poeta-vate”, ossia di guida morale e civile della nazione.
Il trattato Panegirico di Plinio a Traiano, composto nel 1785 e pubblicato a Parigi dal Didot nel 1787, è un testo nel quale l’Alfieri finge di aver scoperto e tradotto un panegirico scritto da Plinio il Giovane per esortare l’imperatore Traiano a rinunciare alla monarchia al fine di restituire a Roma le antiche libertà repubblicane.
Nel dialogo Della virtù sconosciuta, composto anch’esso a Parigi nel 1786, l’Alfieri immagina di essere a colloquio con l’ombra di Francesco Gori Gandellini, scomparso da poco, e di annunciargli di voler scrivere la sua biografia, in modo da esaltare la sua nobile scelta di appartarsi da un mondo divenuto ingiusto e vile. L’amico però glielo vieta, e afferma di non aver compiuto nulla di straordinario: egli si è limitato a non fare un inutile sfoggio della propria virtù, per non suscitare l’invidia altrui.
In appendice all’edizione delle tragedie uscita nel 1788 compaiono alcuni scritti, che illustrano la prospettiva in cui l’Alfieri interpreta la struttura della tragedia classica. Tali documenti, indispensabili per comprendere il senso delle scelte artistiche dell’autore, rappresentano anche preziosi contributi al vasto e vivace dibattito sulla tragedia che occupa gran parte del secolo. In particolare, spicca per completezza e chiarezza teorica il breve saggio Parere dell’Autore sulle presenti tragedie, che nel 1788 l’Alfieri premette all’edizione completa del suo teatro tragico. Ad ogni tragedia è dedicato un capitolo in cui vengono definiti i criteri estetici, stilistici e tecnici che hanno guidato l’elaborazione di quel determinato testo. Si passa poi, nei capitoli finali, ad un’enunciazione dei princìpi generali che l’autore ha posto come base della sua produzione drammatica.
La decisione alfieriana di privilegiare il teatro tragico va attribuita al fatto che la tragedia, in quanto genere letterario fondato sulla rappresentazione di intense passioni ma anche fortemente strutturato, consente allo scrittore piemontese di soddisfare due esigenze per lui ugualmente fondamentali; e cioè da un lato quella di consentire il libero dispiegamento di una personalità irruenta e appassionata, e dall’altro quella di racchiudere istinti e impulsi passionali in una cornice di compostezza e di organicità, grazie all’obbligo di attenersi alle regole “classiche”. Il poeta dunque non apporta variazioni alla struttura della tragedia antica e rispetta le unità aristoteliche; ciononostante introduce all’interno dello schema classico elementi originali e di grande modernità, fra cui il procedimento in tre fasi, seguito per la stesura.
Al di là della tecnica e dei soggetti, le tragedie sono accomunate da un solo motivo: la lotta, lo scontro durissimo che oppone un individuo eroico a una realtà ostile, sia essa rappresentata da un altro uomo o da una forza interiore. Questo schema generale si approfondisce e si arricchisce di sfumature nel corso degli anni.
Nelle prime tragedie, come il Filippo o l’Antigone, predomina la contrapposizione esteriore, fisica, tra un eroe e un tiranno; ma a poco a poco la prospettiva muta e l’interesse dello scrittore si sposta sul conflitto interiore, sull’urto tra componenti diverse che agitano e turbano un unico personaggio. Del resto, fin dalle prime opere l’Alfieri sembra muoversi all’interno di un circolo vizioso e, come già avveniva nei trattati politici, l’alternativa tra tirannicidio e suicidio si rivela fittizia. L’eroe e il tiranno sono figure solo apparentemente antitetiche, sono due facce di una stessa personalità. Esse incarnano l’eterno conflitto tra il bene e il male, la lacerazione psicologica, la doppiezza degli istinti che convivono in un solo uomo. L’eroe suicida non è molto diverso da chi, nel sopprimere il tiranno, uccide “l’altra parte di sé”.
Lo spostamento di prospettiva è più evidente nelle ultime tragedie. In esse, i personaggi non protagonisti assolvono una funzione ormai marginale e tendono a sfumare, quasi a scomparire rispetto all’“un solo”, preda e vittima della propria inquietudine, travolto dal processo fatale e irreversibile che lo condurrà alla distruzione o, più spesso, all’autodistruzione.
Tale aspetto si nota benissimo nelle tragedie maggiori, il Saul e la Mirra, che a ragione possono essere definite “tragedie psicologiche”. In ambedue il protagonista è unico, un personaggio “appassionato di due passioni tra loro contrarie”, che “a vicenda vuole e disvuole una cosa stessa”. Questo conflitto di sentimenti determina la crisi di re Saul, lacerato tra la superbia e il senso di colpa verso il genero David, tra la brama di dominio, non ancora spenta, e il profondo affetto paterno. Saul è consapevole della propria iniquità nel perseguitare David, ma è incapace di porvi rimedio, perché in David, che Dio ha destinato a succedergli sul trono, egli, già vecchio, vede il trionfo della giovinezza e della forza che la natura stessa gli impedisce ormai di avere. Il suicidio è la sola risorsa che gli resta per cercar di superare le sue contraddizioni e riscattare la propria anima in un estremo recupero di grandezza morale. Ancora più insanabile è il contrasto che agita Mirra: per lei il suicidio è l’unica forma di riscatto per quell’amore incestuoso che la legge degli uomini condanna e che ella per prima vive come una colpa, cercando vanamente di nasconderlo e di reprimerlo.
In ambedue le tragedie, dunque, l’Alfieri sottolinea vigorosamente lo scontro tra l’aspirazione dell’individuo ad affermare se stesso attraverso un eroismo sovrumano e la consapevolezza dei limiti imposti dalla fragilità umana. Dalla contraddizione emerge un senso profondo di pessimismo, una tendenza a ripiegarsi, a indagare dentro di sé e, infine, quasi una forma d’incapacità di vivere, che spinge a cercare la liberazione nella morte.
L’Alfieri è autore di ventuno tragedie, tutte in endecasillabi sciolti, diciannove delle quali giudica degne di essere tramandate ai posteri. La loro quantità e le precise scelte strutturali e formali dello scrittore rivelano con chiarezza che egli considera il teatro drammatico il genere letterario piú adatto ad esprimere il suo forte mondo interiore e contemporaneamente a svolgere il compito educativo che egli affida alla poesia. Inoltre, l’Alfieri si sente spinto a dedicarsi alla tragedia dalla volontà di riabilitare in Italia un genere di illustre tradizione, ma caduto in disuso e quasi disprezzato, proprio nel momento in cui conosce grande fortuna nel resto d’Europa.
Le tragedie alfieriane riprendono il modello classico e rispettano le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, ma l’esigenza piú forte dell’autore è quella di giungere a un massimo di chiarezza ed essenzialità. Il suo scopo mira infatti a lasciar emergere il nucleo tragico, che deve coinvolgere il pubblico eliminando ogni possibile distrazione. Ciò spiega la sua tecnica compositiva, che si basa su tre fasi successive: ideare, stendere, verseggiare.
Egli stesso, nella Vita, definisce tali fasi “respiri”.
L’ideazione consiste nell’abbozzo dell’opera: suddivisione della materia in atti e scene, definizione del numero dei personaggi, “estratto a scena per scena di quello che diranno e faranno”.
La stesura è la scrittura in prosa dei dialoghi cosí “come viene ... e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come”, senza porre limiti allo sgorgare dei pensieri.
La versificazione, cui si applica “con riposato intelletto”, implica lo “scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia e leggibili”. A questo “respiro” fa seguito, come per “ogni altro componimento, il dover successivamente limare, levare, mutare”. Tutte le tragedie alfieriane nascono secondo questo metodo, ed hanno infatti, per dirla con l’autore, un “andamento similissimo”.
In tutte, si ripete uno schema analogo, con pochissime varianti. Gli avvenimenti sono ridotti all’essenziale, il numero dei personaggi è limitato e il protagonista viene introdotto sulla scena solo quando la vicenda volge verso la sua conclusione inevitabile.
Anche la scenografia e le indicazioni paesaggistiche sono ridotte al minimo, cosí pure la lingua e lo stile si ispirano a criteri di severa semplicità.
Diamo qui un rapido elenco delle tragedie, nell’ordine disposto dall’Alfieri stesso.
Tra il 1775 e il 1776, l’Alfieri scrive prima il Filippo (rielaborato ben nove volte), poi il Polinice; l’anno dopo dà inizio all’Antigone (ripresa nel 1781), la prima tragedia scritta direttamente in italiano. Il Filippo è imperniato sul conflitto che oppone Filippo II, re di Spagna, al figlio don Carlo, che ama, riamato, la matrigna Isabella. Alla vicenda passionale si aggiungono anche contrasti politici, che portano infine don Carlo e Isabella a suicidarsi, lasciando a Filippo l’orrenda soddisfazione del potere. Il Polinice racconta la vicenda di Eteocle e Polinice, due fratelli figli di Edipo che si contendono il trono di Tebe e finiscono per uccidersi a vicenda. L’Antigone ne è il proseguimento. Antigone è la sorella di Eteocle e Polinice. Creonte, divenuto re di Tebe, ordina di lasciare insepolto il corpo di Polinice, ma Antigone si ribella e cerca di tumularlo di nascosto. Scoperta, preferisce essere sepolta viva che cedere al tiranno, che sarebbe disposto a salvarla per compiacere il figlio Emone, promesso sposo della fanciulla.
Creonte e Antigone sono i primi grandi personaggi tipicamente alfieriani; l’uno è il tiranno combattuto tra l’amore per il potere e quello per il figlio; l’altra, l’eroina che sceglie la morte piuttosto che cedere alla violenza e all’ingiustizia.
La Virginia (1777), che riprende un episodio di storia romana narrato da Livio, La congiura de’ Pazzi (1777, versificata fra il 1779 e il 1781), e il Timoleone formano le cosiddette “tragedie della libertà”, alle quali si aggiungono l’Agamennone e l’Oreste, iniziate nel 1776, ma verseggiate nel 1778 e di nuovo nel 1781, le cui trame si ispirano alle opere di Seneca.
Dopo la Maria Stuarda (1778), scritta su richiesta della contessa d’Albany e da lui poco amata, e il Don Garzia (1778), l’Alfieri compone la Rosmunda (1779), l’unica tragedia completamente frutto d’invenzione (sebbene la protagonista, regina dei Longobardi, sia un personaggio storico), poi l’Ottavia, il cui soggetto è tratto da Tacito, e il Timoleone, che si ispira ad una biografia scritta da Plutarco. Tutte saranno verseggiate tra il 1779 e il 1782.
Con la Merope (1782) l’Alfieri affronta un soggetto celebre, la drammatica vicenda della regina di Messene, che, dopo l’uccisione del marito e dei figli ad opera dell’usurpatore Polifonte, è costretta ad accettare la sua proposta di nozze. L’intervento dell’unico figlio sopravvissuto, Egisto, la salva e segna il riscatto della patria oppressa dal tiranno.
È una delle tragedie piú meditate dall’Alfieri, che la scrive in diretta concorrenza con l’omonima opera di Scipione Maffei (1675-1755), apprezzatissima dai contemporanei, che egli studia e valuta sotto il profilo stilistico, ma che giudica fredda e priva di vita.
Contemporaneamente a Merope, compone uno dei suoi capolavori, il Saul, scritto dal 30 marzo al 30 luglio 1782. Il soggetto biblico non stempera i consueti temi alfieriani, che anzi in quest’opera risaltano con particolare potenza e profondità di ispirazione. La vicenda si impernia sul contraddittorio sentimento di amore-odio che Saul, re di Israele, prova nei confronti di David, il giovane marito di sua figlia. Da un lato infatti egli teme di essere spodestato dal genero, ma allo stesso tempo ne ammira la virtú e il valore. Vittima di questi sentimenti contrastanti, il vecchio re conduce il suo popolo alla disfatta e i figli alla morte, ma trova un eroico riscatto e riacquista la sua antica grandezza togliendosi la vita.
Tra il 1784 e il 1786 l’Alfieri concepisce e stende l’Agide, la Sofonisba e il Bruto primo (che ha per protagonista il primo console di Roma, ed è dedicata “al chiarissimo e libero uomo il generale Washington”). Tutte vengono verseggiate tra il 1786 e il 1787.
La Mirra (1784, verseggiata nel 1786) chiude di fatto il ciclo delle tragedie, anche se sarà seguita dal Bruto secondo e da qualche abbozzo. La trama di questo ultimo capolavoro dell’Alfieri è derivata dalle Metamorfosi di Ovidio e narra l’amore incestuoso di Mirra per il padre Ciniro. Ossessionata da un sentimento che ella stessa considera colpevole e che invano cerca di reprimere, celando a tutti il proprio conflitto interiore, Mirra s’illude di dimenticare sposando Pereo, il quale si toglie la vita non appena scopre che la moglie non lo ama. Mirra, sconvolta dal rimorso e pur sempre vittima della sua lacerante passione, si confessa col padre e si uccide.
Con il Bruto secondo (1786, versificato nel 1787 con una dedica “Al popolo italiano futuro”) l’Alfieri intende misurarsi con le opere di William Shakespeare e di Voltaire ispirate allo stesso protagonista, il figlio adottivo di Cesare, simbolo dell’amore per la libertà.
L’autore progetta anche cinque tramelogedie. L’unica completata è l’Abele (1786-1790), alla quale seguono due abbozzi, il Conte Ugolino e la Scotta.
Le Satire sono sedici composizioni in terzine, precedute da un Prologo, alle quali si aggiungono alcuni testi incompleti; scritte tra il 1786 e il 1797 e pubblicate postume a Firenze nel 1804, vengono sequestrate poco dopo per intervento della censura che le giudica politicamente pericolose.
L’Alfieri ha presenti i grandi poeti satirici latini, Orazio, Persio e soprattutto Giovenale, il più aspro critico dei costumi della società romana.
Gli argomenti rispondono ad un progetto organico: quattro satire (I re, I grandi, La plebe e La sesquiplebe) hanno come bersaglio i vari livelli in cui si articola la società (monarchi, nobili, popolo e borghesia mercantile); quattro (Le leggi, L’educazione, L’antireligioneria e I pedanti) colpiscono istituzioni e luoghi comuni della cultura; tre ironizzano sulle mode (I viaggi, I duelli, La filantropineria); le restanti cinque mettono alla berlina i vizi e le stoltezze della società contemporanea (I debiti, La milizia, Il commercio, Le imposture e Le donne).
Le Satire riprendono gli elementi di riflessione politica e insieme i motivi polemici che percorrono tutta l’opera alfieriana, ma con toni che divengono sempre più netti, aspri e sprezzanti man mano che l’autore accentua la sua ostilità contro la cultura illuministica e rinnega in forma violenta anche princìpi che in passato ha condiviso, sia pure solo parzialmente. Ad esempio, nell’Antireligioneria l’Alfieri accusa Voltaire per aver cercato di distruggere la superstizione religiosa, senza capire che, abolendo il freno rappresentato dalla morale religiosa, avrebbe fomentato l’odio popolare contro i ricchi, aprendo la strada a rapine e omicidi.
Motivi antilluministici sono svolti anche nel Misogallo (1798), nel quale a torto il Risorgimento volle vedere l’espressione di un ardente patriottismo. Questa è piuttosto l’opera in cui l’Alfieri conferma con più chiarezza la sua chiusura davanti alle posizioni radicali dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Si tratta di cinque testi in prosa, all’interno dei quali sono raccolte varie poesie (un’ode, 46 sonetti, 63 epigrammi). Con dichiarata avversione nei confronti dei Francesi (misogallo significa appunto “colui che odia i Francesi”), l’Alfieri schernisce e denigra l’ideologia della Rivoluzione, e ne lamenta le conseguenze, esortando gli Italiani a guardarsi dagli stranieri e a cercare di riscattare da soli la propria libertà.
Gran parte della critica, specialmente quella d’epoca risorgimentale, ha cercato e creduto di trovare nell’Alfieri un pensatore sistematico e un politico organico, e certamente il suo atteggiamento libertario e antitirannico affonda le radici nelle dottrine illuministiche e nella polemica che i suoi contemporanei conducono contro le vecchie forme istituzionali. Tuttavia l’ideologia dello scrittore, contraria ad ogni mediazione con la realtà della storia e sempre contraddistinta da una fortissima componente intellettualistica, ha un valore filosofico assai limitato, soprattutto se paragonata con la profondità che contraddistingue il pensiero europeo in quel medesimo periodo.
A differenza degli illuministi, i quali tendono alla conquista del benessere per la società intera e quindi di un utile collettivo e concreto, l’Alfieri interpreta la vita e l’arte come una lotta del singolo contro tutto ciò che si oppone alla sua ricerca di libertà interiore; alla radice di ogni sua scelta esistenziale e poetica si trova quindi il convincimento che l’individuo debba tendere all’affermazione di se stesso, avere “una sete insaziabile di ben fare e di gloria, [...] un’infiammata e risoluta voglia o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla”, nella prospettiva di una vittoria personale e ideale.
I modi che l’Alfieri suggerisce per tradurre in pratica le sue aspirazioni sono però ben poco convincenti, e le sue idealità, altissime ma generiche, restano del tutto slegate dall’osservazione e dalla progettazione di esperienze politiche reali simili a quelle che attraggono gli illuministi. Per lui, qualunque azione umana, anche la lotta contro la tirannide, è sempre la sfida astratta e aristocratica di un eroe solo e indomabile, teso verso la conquista di una libertà assoluta e priva di compromessi, a cui si oppone un potente altrettanto solo e dotato di altrettanta, sia pur perversa, grandezza.
Alla base del pensiero dell’Alfieri sta dunque un’evidente perdita di identità storica; il suo “eroe” vive fuori e spesso in contrasto con il mondo della storia, e la lotta contro il potere si traduce in una condizione esistenziale, avulsa dallo spazio e dal tempo, che difficilmente riesce a trasformarsi in azione.
I mezzi concreti che l’Alfieri indica per sottrarsi alla schiavitù e per garantire all’uomo la sua individualità e atipicità si riducono in sostanza a tre. Il primo è l’isolamento, premessa indispensabile per ricercare la gloria “del pensar, del dire e dello scrivere” e per evitare il conformismo, che si annida e si espande in ogni classe e in ogni concezione sociale e politica, anche in quelle apparentemente progressiste. Il secondo è il suicidio, ossia il “generosamente morire per non vivere servo”, non una sorta di sconfitta, ma affermazione o riscatto eroico della propria libertà di uomo. Infine vi è il tirannicidio, che è un gesto di rivolta estrema. Esso tuttavia deve rimanere un atto del singolo, un’impresa individuale; infatti la congiura, progettata ed eseguita da più persone, contiene sempre elementi di ambiguità e permette di uccidere il tiranno ma non di cancellare la tirannide. Nella prospettiva alfieriana, il tirannicidio si avvicina e quasi coincide con il suicidio, perché chi si erge contro l’oppressore è già disposto a sacrificare la propria vita.
Questa concezione, più volte espressa nelle tragedie e nei trattati politici, risale alla cultura antica e in particolare alla trasfigurazione ideale dell’eroe che l’Alfieri trova in Plutarco, lo scrittore da lui forse più amato. Nelle Vite parallele dello storico greco egli vede rivivere infatti figure magnanime, capaci di “dire o fare alte cose”: quei personaggi eccezionali, quei “veri Grandi” ai quali si sente affine per sentimenti e passioni civili. A questo proposito, è bene ricordare che tra lo scrittore astigiano e l’esempio dei classici corre un rapporto unico e originale, poiché essi non rappresentano per lui un semplice riferimento estetico e di stile, ma un vero e proprio modello di comportamento nel quale egli si immedesima e si identifica.
All’inizio della Vita, l’Alfieri dichiara che a scrivere di sé lo ha spinto “l’amor di se stesso”, un dono – quasi un privilegio – elargito, più che a chiunque altro, ai poeti; “ed è questo dono una preziosissima cosa; poiché da esso ogni alto operare dell’uomo proviene allor quando all’amor di se stesso congiunge una ragionata cognizione dei propri suoi mezzi ed un illuminato trasporto pel vero ed il bello, che non son se non uno”. In altre parole, il poeta è l’eroe per eccellenza, l’uomo reso eccezionale dalla intensità dei sentimenti e dalla nobiltà dei suoi ideali; egli è consapevole del suo talento e lo mette al servizio della verità e della bellezza; alla capacità di agire egli stesso in prima persona, unisce anche e soprattutto quella di ispirare e guidare l’azione altrui attraverso il linguaggio eterno e sublime della poesia; è il vate, il profeta che ha il compito di diffondere e di esaltare i princìpi di libertà, e di trasmettere i più nobili valori morali. Per questo motivo il poeta, come e più di ogni altro uomo che aspiri alla gloria, deve essere libero e indipendente da qualunque condizionamento.

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