Romanticismo e Neoclassicismo.

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Testo

I mutamenti socio-politici avvenuti tra la fine del ‘700 e la prima metà dell‘800, la Rivoluzione francese, il regime napoleonico, la caduta di Napoleone, la Restaurazione, determinarono, in ambito letterario, uno spostamento delle tematiche su contenuti ideologici e di attualità. In seguito alla “politicizzazione” degli intellettuali si instaurò così un nuovo e contraddittorio rapporto tra letterato e società. L’intellettuale, se da un lato avvertiva un forte impulso alla partecipazione, all’assunzione di responsabilità, alla costruzione di valori, dall’altro sentiva la necessità di estraniarsi, di rifiutare la società, di teorizzare atteggiamenti negativi che la società stessa non avrebbe mai potuto accettare di fatto. La “delusione storica”, il fallimento degli ideali rivoluzionari, l’evolversi della politica napoleonica in senso dispotico ed assolutistico diedero inizio ad una riflessione che, nell’intento di dare un senso all’agire umano e di interpretare le trasformazioni in atto, procedeva dalle domande e dalle polemiche del presente verso l’esplorazione del passato. Dinanzi ad una realtà in cui si subivano sconvolgimenti e frustrazioni e dinanzi alla crisi degli strumenti conoscitivi ed espressivi tradizionali, gli intellettuali avvertirono l’esigenza di riconfermare sicurezze e valori spesso trovati in una sacralità posta fuori del tempo come quella del mito classico. In questo contesto si affermò in Italia il movimento culturale del Neoclassicismo, codificato dalle teorie estetiche di Winckelmann che, idealizzando l’arte classica, propugnò un concetto di bellezza ideale come espressione di un nobile dominio sulle passioni. Attraverso i principi classici di serena compostezza, di nobile semplicità, di perfetto equilibrio interiore si tendeva a ricostruire l’immagine di un’epoca in cui l’umanità si era realizzata in un coerente equilibrio con la natura e nella pienezza delle creazioni artistiche.
Nella seconda metà del ‘700 si svilupparono, parallelamente al Neoclassicismo, altre tendenze dette “preromantiche” che in Italia nacquero come mode e suggestioni d’oltralpe, legate all’attività di traduzione dall’inglese, dal tedesco e dal francese, e si collocarono in un sistema letterario ancora fortemente connotato in senso classicistico. La lirica inglese e tedesca, a partire dagli inizi del ‘700, aveva sviluppato tematiche notturne e sepolcrali caratterizzate dalla descrizione di paesaggi crepuscolari di inquietante desolazione, da visioni notturne e contemplazioni cimiteriali, da una inclinazione alla malinconia ed al pianto, da una volontà dolorosa di solitudine e di autointrospezione, da una rappresentazione della natura come riflesso dei turbamenti interiori dell’individuo. Queste tematiche caratterizzarono la letteratura europea durante tutto il ‘700 e la prima metà dell’800.
Dalle tendenze preromantiche, nate come reazione al razionalismo illuministico, in un periodo in cui il mito della ragione sembrava egemonizzare ogni esperienza culturale e farsi protagonista assoluto ed indiscusso della storia, si sviluppò, nei diversi paesi europei, un complesso movimento spirituale e culturale, il Romanticismo, che coinvolse ed abbracciò in un profondo rinnovamento tutte le forme della cultura, dalla filosofia alla letteratura, alle arti figurative, e lo stesso modo di agire e di vivere. Il Romanticismo si configurò come un fenomeno estremamente complesso, sia per la ricchezza delle sue articolazioni, sia per la sua diffusione in tutti i paesi europei, dove si caratterizzò in modo diverso in rapporto alle singole tradizioni ed esigenze nazionali.
Il termine “romantico” è di origine inglese. Esso venne adoperato già nel XVII secolo per designare le narrazioni poetiche fantastiche ed assurde, dette “romances”, dell’epica medievale. L’accezione negativa del termine si mantenne anche nel ‘700 illuministico, fino a Rousseau che impiegò il termine per indicare paesaggi naturali o stati fantasiosi e sentimentali dell’anima atti a risvegliare la creatività dell’individuo. Con quest’ultima accezione il termine penetrò in Germania, dove divenne espressione sintetica delle esigenze spirituali ed estetiche della coscienza moderna.
Il Romanticismo, come coscienza critica, nacque ufficialmente in Germania nel 1798, quando iniziò la pubblicazione della rivista “Atheneum”, cui collaborarono critici e poeti come i fratelli Schlegel, Novalis, Schelling e Fichte. Sorto alla fine del ‘700, il Romanticismo si estese progressivamente in tutta Europa nella prima metà dell’800, mentre, sul piano politico, si concludeva la vicenda napoleonica e la Restaurazione, con le sue sistemazioni arbitrarie, tentava l’assurdo disegno di cancellare un intero periodo storico: la Rivoluzione e l’età napoleonica. La sensibilità romantica nacque, appunto, sulle rovine della Rivoluzione francese e con essa del progetto illuminista. Quando gli intellettuali videro il sogno di libertà, uguaglianza e fraternità, tipico del secolo dei lumi, tramontare nelle più ferree tirannidi, essi avvertirono i limiti della ragione, non più sufficiente ormai a soddisfare la totalità dell’esperienza umana: ne respinsero, in tal modo, gli aspetti più esasperati e mitizzati. Gli illuministi avevano creduto in un ordine razionale della natura e quindi in un progetto razionale della società che assegnava fiducioso all’uomo un ruolo nel mondo, liberandolo dal sentimento della sua estrema fragilità e dal peso dei tenaci e diffusi pregiudizi del passato. La visione razionalistica del mondo si era risolta nella deludente esperienza napoleonica, in cui la violenza e la forza avevano avuto il sopravvento sul diritto e la ragione. Come reazione alla “delusione storica” ed al rinnovato senso di fragilità e di insicurezza dell’uomo dopo tante e tumultuose esperienze, nacquero il mito dell’anima ed il culto del sentimento. L’universo romantico vide nel “sentimento” una categoria dello spirito più valida della ragione, capace di farsi strumento conoscitivo delle zone profonde dell'io, scoperta dell’intimo rapporto con l’universo, coscienza del fluire inesorabile dell’uomo nel tempo. Il sentimento offriva all’intellettuale romantico la possibilità di risalire alla dimensione del privato, della propria condizione esistenziale, della propria libera individualità creatrice. L’esaltazione del sentimento e della dimensione interiore dell’uomo portò da un lato ad un individualismo esasperato e al ripiegamento interiore, dall’altro alla esaltazione della personalità, del genio ribelle mosso da una cieca impazienza di vivere, da una bruciante ansia di creare, produrre, di esaltarsi in gesti eroici, sublimi, titanici. Il valore predominante del sentimento e l’esaltazione sfrenata dell’io costituiscono l’eredità tematica che il Romanticismo riceve dal movimento dello “Sturm und Drang”, sorto in Germania intorno al 1780 e che raccolse un gruppo di intellettuali tra cui spiccarono le figure di Schiller e di Goethe. Il movimento dello Sturm und Drang, che ebbe un carattere filosofico implicito come ribellione contro l’Illuminismo allora imperante, si configurò come un’esplosione di oscure forze vitali, di indisciplinata passionalità, di incoerente irrazionalismo che tendeva a sovvertire gli ordinamenti artistici, religiosi, scientifici e sociali del tempo.
L’uomo romantico non incarnava semplicemente l’eroe ribelle in perenne conflitto con la realtà: egli sentì anche il bisogno, nella sua ansia di infinito e di assoluto, di uscire dalla prigione del presente, bisogno che si realizzò non solo in una “fuga nello spazio”, che divenne gusto per l’esotismo, per terre lontane e incontaminate e idilliaco ritorno alla natura, ma anche in una “fuga nel tempo”. Quest’ultima si realizzò attraverso il rifugio in un passato storico idealizzato. Caratteristica del Romanticismo fu, infatti, la rivalutazione e la celebrazione del Medio Evo, che divenne idealizzazione nostalgica di un’età ricca di valori individuali, di nobili e virtuose imprese guerresche.
In Italia il movimento romantico fu caratterizzato da un acceso dibattito culturale iniziato nel 1816, in occasione della pubblicazione sulla rivista “Biblioteca italiana” di un articolo di Madame de Stael, intitolato “Sulla maniera e la utilità delle traduzioni”. La de Stael, divulgatrice in Europa delle idee romantiche, sosteneva che i letterati italiani dovevano mettersi al passo delle più moderne esperienze culturali europee, abbandonare la vuota imitazione dei classici, grandissimi ma non più attuali, ed abbandonare l’idea orgogliosa di un proprio primato letterario ormai concluso. La de Stael, infine, invitava gli Italiani a tradurre, leggere e studiare le opere fondamentali della moderna cultura nordica, soprattutto inglese e tedesca ed a uscire da un isolamento che era indice di arretratezza. L’articolo della de Stael suscitò uno stimolante dibattito che coinvolse classicisti e romantici. I primi, fedeli alla cultura di un grandioso passato, accusarono la de Stael di mettere in discussione gli unici modelli, ossia quelli letterari, che rimanevano agli Italiani, privati della loro libertà nazionale, ed affermarono, inoltre, che nei classici vi era tutta la poesia, la bellezza ideale e lontana da ogni contaminazione con la realtà contingente cui essi aspiravano. I numerosi intellettuali della nuova generazione che si affiancarono alla de Stael ebbero modo, dal polemico confronto, di chiarire a se stessi la funzione dello scrittore in rapporto ai problemi dell’Italia contemporanea. In contrapposizione alle tendenze cosmopolite ed universalizzanti tipiche dell’Illuminismo, nacque, infatti, il concetto di “nazione” intesa come senso della singolarità di ogni popolo e, quindi, come insieme di genti legate da una comunanza di tradizioni storiche, lingua, costumi, religione. In Italia i romantici sentirono che amare la patria, in quel momento, significava riconoscerne obiettivamente la decadenza ed individuarne le cause, per tentare di superarla, e che fine della letteratura era ridestare l’anima del popolo e reinserirlo nella vita e nella storia. Gli intellettuali romantici furono, dunque, i propugnatori del Risorgimento nazionale e vollero essere guida di una nazione rinnovata da una cultura nuova, liberale, patriottica, democratica. La letteratura romantica, oltre ad essere moderna e nazionale, doveva essere “popolare” e, quindi, adeguata alle esigenze di un pubblico nuovo e più vasto.
Nella “Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo”, uno dei più efficaci manifesti romantici, Giovanni Berchet sottolineò la popolarità della poesia come elemento focale della battaglia politico-culturale dei romantici. “Tutti gli uomini – affermò Berchet – hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia”. Nell’ambito della “tendenza poetica passiva” Berchet individuò una suddivisione tra Ottentotti, Parigini e Popolo. Gli Ottentotti sono, secondo Berchet, gli uomini completamente incolti ed incapaci per questo di sentire la poesia. Il nuovo pubblico popolare cui il poeta deve rivolgersi non è, dunque, la plebe analfabeta ma neanche la ristretta cerchia di letterati cosmopoliti, i Parigini, nei quali è sviluppato solo un raffinato senso critico che li induce ad analizzare razionalmente la poesia e che, quindi, li rende incapaci di autentica commozione poetica. Il pubblico che, secondo Berchet, può veramente fruire della poesia romantica è il “popolo”, il ceto medio borghese che costituisce la parte più viva e produttiva di ogni nazione. L’importanza della lettera sta dunque nella piena consapevolezza di Berchet della natura “storica” dell’uomo, del suo divenire legato alla concreta realtà della propria nazione e della propria storia, che la poesia è chiamata ad esprimere in forme sempre nuove e diverse. Il poeta romantico non deve, quindi, chiudersi nel culto di un passato irreversibile, ma contribuire alla nascita di una letteratura legata intimamente alla vita.
ROMANTICISMO
Il perché del Neoclassicismo e il suo aspetto politico, civile e letterario.
Il Neoclassicismo non nasce come cultura di regime, ma “d’opposizione” al regime, nel senso che in arte e in letteratura il richiamo ai classici intende combattere “l’estetica della meraviglia” di mariniana memoria degenerata nel fasto e in un lessico rutilante puramente esteriore, mentre sul piano del costume alla megalomania delle corti si costituisce (però, in realtà, ne è l’erede spirituale) la micromania dei salotti. Non è un caso: è abbastanza ovvio che anche a livello squisitamente sociale e politico le cose sono cambiate. L’egemonia, anche in campo culturale e artistico, sta passando dall’assolutismo aristocratico al controllo più allargato di un ceto borghese rampante, costituito da un “milieu” benestante che aspira a “sloggiare” l’aristocrazia dai suoi privilegi economici e da un “milieu” intellettuale che si prefigge di diffondere e indirizzare la cultura nel modo di “mangiare” la vita, in ultima analisi le condizioni sociali, la concezione dello Stato.
La Francia è attiva protagonista di questo processo, passando cruentemente dall’assolutismo alla democrazia “giacobina” e da questa ad una forma particolare di dispotismo in cui l’imperatore non è tale per diritto divino, ma per volontà dei francesi; un dispotismo nel quale la bandiera continua a fregiarsi della formula magica e felice della Rivoluzione del 1789 “Liberté – Egalité – Fraternité”, in cui le sue truppe costituiscono il più efficace veicolo di diffusione dei nuovi ideali libertari e patriottici, ma anche di un progetto di ricostruzione “civile” della società secondo i principi di un armonico equilibrio fra bellezza e funzionalità.
La “punta di diamante” di questa fase della storia europea è Napoleone Bonaparte che oltre alla storia delle istituzioni imprime un timbro particolare anche alla storia del gusto: nasce uno “stile impero” fondato sulla sobrietà della colonna nei tre ordini dorico – ionico – corinzio spesso intesa come elemento decorativo più che funzionale, che si estende dalla “grandeur” architettonica degli archi di trionfo e degli edifici a destinazione pubblica (la Borsa di Parigi, la Porta di Brandeburgo a Berlino, il Palazzo di Marmo a Pietroburgo), fino alla “modestia” quotidiana delle posate e dei servizi da caffè e cioccolata.
Fatalmente la fortuna militare di Napoleone conduce il neoclassicismo ad un risvolto politico, laddove gli ideali eroici di tipo augusteo coincidono con quelli del nuovo imperatore. Interprete fedele di questo aspetto è il pittore Jacques Louis David che proprio nel suo quadro forse più noto, la “Consacrazione di Napoleone a Notre - Dame” del 1808, celebra l’apoteosi di Bonaparte in lungo manto d’ermellino e aurea corona d’alloro, novello Augusto di un rinnovato impero romano. L’impero “politico” di David è, tuttavia, più vastamente etico: il mondo classico romano cui egli si rivolge non è quello di una “retorica del sublime”, teorizzato da Joseph Winckelmann, ma un mondo incentrato sul culto della virtù spesso tragica, sulla contemplazione della morte affrontata con classica e composta fermezza. La sua produzione precedente conosce così entusiasmi repubblicani ben evidenti nella “Morte di Marat” del 1793, dove la povertà degli oggetti (una tinozza, una cassa da imballaggio come tavolino) illustra perfettamente l’integrità morale del tribuno della rivoluzione. Oppure col “Giuramento degli Orazi” del 1784, si può riconoscere nel gruppo compatto dei tre fratelli che tendono le braccia all’unisono verso le spade, l’esaltazione retoricamente sincera del sacrificio estremo per la libertà.
Tutto, comunque, iscritto in un equilibrio compositivo ed una nitidezza del segno che rivelano quanta importanza abbia nell’arte neoclassica il “progetto”: come osserva giustamente Giulio Carlo Argan, “alla (immaginazione) barocca succede l’ideazione”. In questo senso non ha tanto valore la realizzazione artistica dei quadri di David in sé, quanto in rapporto al “messaggio” che intendono progettualmente fornire. L’italiano Antonio Canova mi sembra che interpreti a proposito questa nuova discussione “civile” dell’artista neoclassico: non gli interessa fornire alla gente “emozioni”, ma condurla alla riflessione intorno ad un concetto. Così avviene per il ritratto ideale di Napoleone Bonaparte del 1809, raffigurato in eroica nudità nel cortile dell’Accademia di Brera a Milano; così è anche per le morbide forme, consegnate ad un candore irreale e asettico della famosa Paolina Bonaparte del 1808; e così ancora nei numerosi monumenti funebri (a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria) dove all’interno di una struttura piramidale sempre più precisa ed evidente la pura forma geometrica intende cancellare il dramma della morte, per coglierne il valore “filosofico” pagano dell’urna “confortata di pianto”, collegata a noi dal ricordo e cogliere quello dogmatico - cristiano di una soglia misteriosa che riconduce l’uomo al suo esser polvere per rinascere un giorno a nuova vita.
Il fatto poi che lo stesso Canova limitasse spesso il suo intervento diretto alla preparazione del bozzetto, e affidasse ai tecnici del marmo la realizzazione compiuta dell’opera, sembrerebbe indicare la volontà di annullamento del “caso” particolare per farlo diventare “paradigma” fruibile da una collettività. Il neoclassicismo nella sua interpretazione migliore non ignora, evidentemente, la grande lezione illuministica.
Vincenzo Monti, poeta “impegnato” del neoclassicismo italiano.
Su Vincenzo Monti pesa da tempo il giudizio crudamente negativo di Giacomo Leopardi che lo definisce “poeta dell’orecchio e dell’immaginazione” e quello più divertito, ma non meno crudo, dell’ex grande amico e ammiratore Ugo Foscolo che, a proposito della sua fortunata versione dell’Iliade, lo chiama “gran traduttor de’ traduttor d’Omero”.
Anche se qualche sospetto a proposito del focoso autore dei “Sepolcri” è legittimo, considerato che amò la bella moglie di Monti, Teresa Pikler (pur senza, a quanto pare, esserne ricambiato), tuttavia resta il fatto che i due poeti più “profondi” del nostro primo Romanticismo ne danno una interpretazione nettamente negativa.
A ciò si aggiunga l’opinione della critica da De Sanctis (“Il Monti ha una mente così arida, così leggera, così incapace di ogni meditazione!”) a Benedetto Croce che lo definisce “poeta della letteratura” e si avrà subito l’impressione di un processo ormai concluso, bell’e consumato.
Un fondo di verità indubbiamente esiste: Monti non è passionale, affascinante e misterioso e per questo è stato usurpato del titolo di “poeta”. Tuttavia non si può negare la liricità dei suoi lavori, sebbene fossero costruiti come “poesia sulla poesia”, cioè facendo della letteratura poetica; non si può negare il garbo, la proprietà di linguaggio, i tocchi leggeri.
Mi sembra che Croce abbia perfettamente ragione: Vincenzo Monti non doveva essere così sprovveduto e gretto come si è soliti dipingerlo, se il giovane Foscolo, arrivato a Milano dopo il Trattato di Campoformio, diventa il più fiero e convinto sostenitore del Monti di cui ammirava la “Bassvilliana”, di cui ricorda l’“Aristodemo” proibito a Venezia per i sentimenti antitirannici. È ben vero che Monti, per puro calcolo d’interesse, rinnega poi la suddetta opera ed è altrettanto palese che sia sensibile al mutare dei venti passando disinvoltamente da un’ideologia all’altra; ma è anche vero che difficilmente un bambino riesce a costruirsi una reale indipendenza di giudizio se, come lui, fino all’età di otto anni “mastica” solo Bibbia, messale, opere di devozione (la famiglia è “cattolicissima” e rigorosamente osservante) e qualche modesto trattato di agricoltura. Se a ciò si aggiunge una educazione rigorosamente modellata sulla riproduzione di immagini e idee attinte ai testi biblici e agli scrittori antichi, seguita nel seminario di Faenza, possiamo, non dico giustificare, ma almeno capire Monti che riuscì a diventare ugualmente un protagonista della vita culturale del tempo, nonostante il suo tirocinio scolastico.
Del resto, anche se si schiera dalla parte “sbagliata”, Monti è figura di primo piano nella “battaglia” romantica: il suo “Sermone sulla Mitologia”, benché De Sanctis lo definisca “una processione di frati, che tu hai veduto le cento volte, e che guardi distrattamente, nominando tra gli sbadigli il cappuccio e la sottana e le fibbie”, non è solo un trito repertorio di reminiscenze classiche. In taluni passaggi è, anzi, di sonora efficacia, come quando definisce il Romanticismo, in esordio, “Audace scuola boreal” per la quale “il tetro solo, il solo tetro è bello/…e abitar gode ne’ sepolcri” e le sue poesie sono solo “nordiche nenie”. Oppure quando stabilisce la poetica del neoclassicismo polemicamente contrapposta, con versi davvero lapidari, a quella del romanticismo.
“Senza portento, senza meraviglia
nulla è l’arte de’ carmi; e mal s’accorda
la meraviglia ed il portento al nudo
arido ver che de’ vati è tomba”.
Questa volta Monti è sincero e si butta nella battaglia con tutta la forza del suo prestigio e della sua popolarità: in tale circostanza è poeta “impegnato”, se ciò significa schierarsi.
Allo stesso modo non si valuta sufficientemente la veemenza e l’acutezza con la quale si inserisce nella cosiddetta “questione della lingua”, sostenendo insieme al genero Giulio Perticari, nella sua “Proposta di alcune correzioni e aggiunte al vocabolario della Crusca”, l’utilizzo di una lingua letteraria nazionale esemplata su tutti i nostri grandi scrittori in contrapposizione alla rigidità purista che vedeva solo nel toscanismo linguistico una ricca possibilità d’espressione (Dante e Petrarca in poesia, Boccaccio in prosa).
In un certo senso, Monti è impegnato anche quando scrive la gradevole e agile ode “Al signore di Montgolfier”, dove di fronte allo spettacolo audacissimo di una delle prime ascensioni in cielo con palloni aerostatici, dimostra il suo sincero entusiasmo per l’impresa e per le ormai illimitate possibilità del progresso e della ragione umana.
Infine è certamente “impegnato” Monti quando scrive i “Pensieri d’amore”, dieci brani lirici nati da un’esperienza affettiva personale e dalla suggestione del Werther goethiano, nei quali trova espressioni di sapore romantico, certamente più adatte rispetto ad altre utilizzate nella maggior parte delle opere a suggerire l’atmosfera intima del ricordo dolce - amaro di una donna amata.
Se ”impegno”, allora, significa anche sincerità di ispirazione e mezzo per esprimere un sentimento senza preoccuparsi di piacere al gran pubblico, può certamente dirsi impegnata la canzone: “Per il giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler”, dove si trova commozione senza sdolcinature, affetto e tenerezza per la moglie, fermo equilibrio davanti alla morte ormai vicina:
“Donna, dell’alma mia parte più cara,
perché muta in pensoso atto mi guati, e di
segrete stille
rugiadose si fan le tue pupille?”.
Romanticismo perenne e romanticismo storico.
La genesi spirituale del Romanticismo è complessa: le sue premesse sono la profonda insoddisfazione che macerava gli intellettuali tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 per il fallimento dell’Illuminismo. L’individuo, privato della dimensione trascendente e non più convinto del suo ruolo sociale, cercava disperatamente un senso ed un fine della vita umana. Questo anelito ad andare “oltre”, il “sehnsucht”, l’aspirazione struggente e malinconica a varcare i limiti dell’umano sono caratteristiche di tutti i romantici, cariche di intensa religiosità.
La filosofia idealistica àncora l’esistenza umana alla vita di uno spirito universale infinito che si estrinseca nella realtà e nella storia e getta così le basi del provvidenzialismo e dello storicismo romantico. I romantici, così, contrappongono alla dea – ragione dell’Illuminismo il sentimento e la passione; agli ideali egualitari il forte individualismo, all’ottimismo il pessimismo, al determinismo la lotta titanica contro il destino e il vittimismo nel considerare la propria fragilità.
L’arte perde il valore pratico e didattico dell’Illuminismo e quello edonistico e ornamentale del classicismo: essa è da un lato libera effusione dello spirito, lirica soggettiva; dall’altro esaltazione di grandi valori come la patria, la religione, la storia. Il poeta diventa un vate, che, anche se non è compreso dalla massa, ha il compito di cantare i grandi temi di tutta l’umanità. Molti poeti sono borghesi e la borghesia è la destinataria di molte opere. Ballate, novelle in versi, poesia risorgimentale e dialettale sono generi di grande consumo, così come lo è il romanzo, soprattutto quello storico. Dopo essersi, intorno al ’40, progressivamente svuotato dell’intensa carica ideale che lo pervadeva, illanguidendosi nelle forme estenuate della poesia di Prati e di Aleardi, il Romanticismo si esaurisce e verso la metà del secolo lascia il posto ad un nuovo movimento.
Con il termine “romantico”, ancora oggi, si suole definire uno stato d’animo proprio di tutti i tempi e di tutti i paesi: lo stato d’animo di chi, perennemente inquieto, vuole indagare il segreto insondabile della natura e della vita e, di fronte a certe domande senza risposta, fa dell’irrazionale l’unica amara legge dell’esistenza. Romantico fu Lucrezio con le sue dolorose meditazioni cosmiche, romantica fu Saffo coi suoi disperati amori e romantici furono tutti i poeti e tutti gli uomini che avvertirono il senso dell’effimero e del dolore che è insito nella precarietà stessa dell’esistere e che perciò si posero in posizione polemica nei confronti del destino, sentendosi vittime o eroi. Il “vittimismo” e il “titanismo”, atteggiamenti spirituali squisitamente romantici, erano presenti in poeti come Petrarca e Tasso: il primo di essi definì il proprio vittimismo come “accidia”, incapacità di reagire alla vita; quanto al Tasso spinse il suo vittimismo fino all’esplosione della follia.
Anche il “protoromantico” Alfieri, pur nutrito di cultura classica e per tanti aspetti figlio dell’illuminismo, avverte i conflitti causati da due mali estremamente irrazionali: ira e malinconia.
Letterariamente, i “romantici” tendono ad essere innovatori: così come sentono la frattura fra l’ieri e l’oggi, allo stesso modo avvertono il bisogno di rinnovarsi in arte: la loro forma si stacca sempre, volontaristicamente, dalla tradizione. È il caso, infatti, del Petrarca, del Tasso e dell’Alfieri.
Così come il Romanticismo, anche il Classicismo è una vera e propria categoria spirituale: classico è, infatti, colui che sente della vita soprattutto gli aspetti perenni e stabili, che è portato a cogliere più la razionalità dell’universo che il suo mistero e che, in arte, mira ad esprimere in una forma composta chiara e armoniosa un mondo interiore equilibrato, ricco di salde certezze.
Questa, grossolanamente, l’antitesi classicismo - romanticismo, visti come stato d’animo e come tendenza artistica.
Ma per quale motivo lo stato d’animo romantico si trasformò in quello che usiamo definire “romanticismo storico”? E quali furono i caratteri di tale movimento? Innanzitutto il Romanticismo rappresentò in gran parte una reazione ai miti dell’Illuminismo: quando le guerre napoleoniche che insanguinarono l’Europa sembrarono segnare il fallimento della Rivoluzione Francese e dei suoi ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, si ebbe una violenta reazione anche contro l’Illuminismo che aveva alimentato e nutrito quei valori. Di contro al razionalismo illuministico, volto al concreto, all’obiettivo, allo scientifico, si tornano ad avvertire in modo più acuto ed urgente le ragioni del cuore, le sottili inquietudini, le immotivate malinconie; ci si abbandona all’estro dell’immaginazione e si fantastica, in un bisogno più o meno consapevole di evadere dalla realtà, su terre remote e irraggiungibili come l’Ellade (Esotismo).
La ricerca di un ideale che trascenda la nostra miseria di uomini, le incoerenze, le contraddizioni irrazionali dello spirito, i conflitti interiori fra cuore e ragione, esotismo, vittimismo e titanismo costituiscono le connotazioni per le quali il Romanticismo storico coincide con quello perenne. Accanto ad esse, però, si collocano precisi e concreti orientamenti nei vari campi della vita.
In politica, agli ideali cosmopoliti si contrappone più forte che mai l’idea di patria: non a caso il Romanticismo si diffuse maggiormente in quei paesi, come l’Italia e la Germania che, privi di unità, erano stati più tormentati dalle guerre di conquista francesi. Fu così che in Italia e in Germania, dove la Restaurazione calpestò i principi di libertà e di nazionalità, il termine “romantico” divenne ben presto sinonimo di liberale e patriota.
Nel campo della speculazione filosofica, alle concezioni meccanicistiche settecentesche e allo spietato dominio della materia, subentra l’idealismo, per il quale l’universo, la vita e la storia non sono altro che il manifestarsi della creatività del pensiero umano (cioè dell’io), considerato “Assoluto” e “Infinito”.
Tutto il Romanticismo è permeato da una rinnovata religiosità che talvolta, come in Italia, si manifesta in adesione al cattolicesimo (Manzoni).
Muta anche la concezione della storia: questa non è più considerata un alternarsi di epoche barbare o civili, ma è concepita come perenne svolgimento dell’Io infinito: perciò ogni epoca ha la sua ragione d’essere, la sua giustificazione in quanto tappa necessaria. Viene rivalutato enormemente il Medioevo, epoca fino ad allora ritenuta barbara, in quanto periodo nel quale nacquero le singole nazioni. Letterariamente queste posizioni si traducono nella diffusione abbondantissima di un’arte che esprima i nuovi miti di patria, religione, storia e popolo. La nuova scuola romantica nasce e si sviluppa in Germania, attorno alla rivista Athenaeum (1798); propugna una poesia libera da ogni imitazione del passato e da ogni riferimento mitologico e legata invece alla vita e ai sentimenti “attuali”.
Affiorava così la tendenza al realismo, propugnata da Berchet e da Manzoni nel suo famoso canone de “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”.
Per contro, il romanticismo espresse contemporaneamente anche un altro orientamento antitetico verso il fantastico, l’irreale, il sentimentale, poiché la poesia era considerata come frutto delle doti umane individuali ed irripetibili.
Una battaglia per il progresso: la disputa fra romantici e neoclassici.
L’Italia arriva tardi e con fatica a condividere le nuove poetiche romantiche d’oltralpe e vi arriva non senza un sofferto dibattito letterario, che però ha il pregio di formulare con chiarezza pressoché definitiva, le linee della corrente classicista e di quella che adotta un atteggiamento definito “moderno”.
A dare uno scrollone alla stagnante vita intellettuale italiana, che si crogiola ancora nella citazione ricercata ed erudita di un Olimpo di legnose marionette, è un provocatorio articolo della scrittrice francese Madame de Staèl, che dopo aver intervistato i più illustri scrittori del tempo istituisce paragoni fra le letterature e i costumi culturali di alcuni Paesi europei.
L’articolo, comparso sulla rivista “La Biblioteca Italiana” nel 1816 e intitolato programmaticamente “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”, rappresenta un severo rimprovero agli italiani per la grettezza della loro tradizione letteraria arroccata su un lontano passato e li invita a conoscere la letteratura inglese e soprattutto quella romantica in Germania, che ella ha già contribuito a diffondere in Francia con l’articolo “De l’Allemagne”.
Madame de Staèl, anche con la sua presenza fisica, innesca una miccia destinata a far deflagrare anche in Italia il fenomeno romantico.
All’articolo della baronessa risponde subito Pietro Giordani, redattore proprio della “Biblioteca Italiana” e scopritore del giovane talento Leopardi, con la “Lettera di un italiano ai compilatori della Biblioteca Italiana” per confutare le idee di “Madame” e raccomandare agli italiani di non allontanarsi dallo studio dell’antichità e di non cercare le cose “oltramontane”. Replica immediata Madame de Staèl che “altro è conoscere, altro è imitare pedestremente formule e schemi”, trascinando nella ormai aperta e aspra polemica l’ammiratore Ludovico di Breme che, con un importante discorso “Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani” e nel 1817 con il “Grand commentaire sur un petit article”, sostiene il Romanticismo come liberazione dell’anima da ogni costrizione letteraria, politica, culturale e come impulso creativo che sta nella natura. “La mitologia – scrive – è al più un corredo di formule, una lingua tecnica, ecco tutto; ma non è poesia. La natura è vita…Ora la poesia moderna, che altri chiamano Romantica, segue con predilezione questo sistema vitale”.
Nello stesso 1816 Giovanni Berchet pubblica quello che viene considerato il vero e proprio “manifesto” del romanticismo italiano con chiarezza e decisione, salvo poi (il titolo è “Lettera semiseria di Grisostomo”) rinnegare giocosamente quanto fino a quel momento scritto per esortare il figlio, in chiave parodistica, a seguire le regole classicistiche e il vocabolario della Crusca. Contro quello che Di Breme definisce “il mondo canuto”, cioè il neoclassicismo, Berchet opera una chiara distinzione poetica: “Alcuni, sperando di riprodurre le bellezze ammirate ne Greci e ne Romani ripeterono, e più spesso imitarono, modificandoli, i costumi, le opinioni, le passioni, la mitologia de’ popoli antichi. Altri interrogarono direttamente la Natura: e la natura dettò loro (…) sentimenti e massime moderne. Interrogarono la credenza del popolo: e n’ebbero in risposta i misteri della Religione cristiana (…) La poesia de’ primi è “classica”, quella dei secondi “romantica” (…) poesia de’ morti la prima, e poesia de’ vivi la seconda”.
Difendono invece il neoclassicismo, poeti illustri come Ugo Foscolo (anche se il suo è un neoclassicismo intriso di romanticismo, teso com’è al recupero del senso classico della vita poetica, non certo alla meccanica ripetizione di formulette) e Giacomo Leopardi, che nel 1818 scrive il “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”, dopo aver inviato già nel 1816 ben due “Lettere” alla “Biblioteca Italiana” in risposta all’articolo di Madame de Staèl.
Anche questi tuttavia, mentre da un lato condanna il gusto dell’orribile, il sentimentalismo eccessivo e artificioso “magazzino dei romantici”, dall’altro ridimensiona la disputa affermando che si tratta di un falso problema perché, citando il Seicento, scrive: “Crediamo noi che non ci avesse anche allora chi gridasse che quello era il gusto moderno, e quell’altro un gusto da passati, e beffasse la gente sana come abbietta e schiava e superstiziosa e divota dell’anticaglie e vaga della ruggine e della muffa, e ghiotta dello stantio?”.
Polemica d’avanguardia quella di Leopardi, quanto invece lo è di retroguardia quella di Vincenzo Monti che piuttosto tardi, nel 1825, scrive un “Sermone sulla mitologia” contro “l’audace scuola boreal” portatrice di “nordiche nenie”, felice di abitare nei sepolcri, sostenitrice “dell’arido ver che de’ vati è tomba” contro la “meraviglia” e il “portento” senza i quali invece “nulla è l’arte de’ carmi”. Polemica di retroguardia, s’è detto, perché ormai sono usciti da tempo l’Ortis e i Sepolcri di Ugo Foscolo; sono stati composti i Primi Idilli di Giacomo Leopardi; Manzoni ha già pubblicato Inni Sacri, Odi civili, tragedie e ha già steso il romanzo Fermo e Lucia, la prima redazione dei Promessi Sposi; infine si sono compiuti tragicamente i moti carbonari del 1821.
Se il mondo italiano sta cambiando, ciò avviene all’insegna del Romanticismo e il giornale “Il Conciliatore”, ideale continuatore dell’illuministico “Caffè”, nato nel 1818 e chiuso dalla polizia austriaca nel 1819 per apologia della rivoluzione solo perché ospita gli scritti di Berchet, Di Breme, Borsieri, Pellico, segna anche la direzione politico - civile del suo rinnovamento.
NEOCLASSICISMO E ROMANTICISMO

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