Pirandello

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Testo

Luigi Pirandello
Luigi Pirandello (Contrada Caos, Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) è stato uno dei più importanti scrittori e drammaturghi italiani. Fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1934.
La vita
Pirandello nacque in una contrada popolana di Sciacca, oggi Mussomeli, dal suggestivo nome di Caos, in una famiglia di media borghesia.
L'improvvisa rovina delle cave di zolfo di proprietà della famiglia lo costrinse ad affrontare pesanti difficoltà nel seguire i suoi interessi, precocemente avviati verso gli studi umanistici, non giovandogli un carattere morbido.
Seguì studi di filologia romanza a Roma, che poi dovette completare a Bonn, a causa di un insanabile conflitto con il rettore dell'ateneo capitolino.Si laurea nel nel 1891,con una tesi sulla parlata agrigentina "Voci e suoni del dialetto di Girgenti". Il tipo di studi, però, gli fu probabilmente di fondamentale ausilio nella stesura delle sue opere, dato il raro grado di purezza della lingua italiana utilizzata.
Poco dopo le nozze, un allagamento in una miniera di zolfo, in cui Pirandello e la sua famiglia avevano investito il loro capitale, li riduce sul lastrico. Questa notizia portò la moglie Antonietta a manifestare segni di disagio mentale. Così lo scrittore approfondì lo studio dei meccanismi della mente e della reazione sociale dinanzi alla menomazione intellettuale.
Di questi approfondimenti si deduce memorabilmente la traccia in molte opere, come l'"Enrico IV" o come "Il berretto a sonagli", nel quale inserisce addirittura una ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda e cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi e delle maniere, delle ipocrisie e delle convezioni sociali, porterà presto all'isolamento e, agli occhi degli altri, alla pazzia. Morì e scrisse nel testamento di essere avvolto nudo in un lenzuolo e poi bruciato, e volle che al funerale non partecipasse nessuno.
La formazione
La formazione di Pirandello avvenne nel periodo di trapasso dal verismo al decadentismo, quando la fede nella realtà oggettiva e nelle scienze cedeva alla soggettività e alla sensibilità.
Tale crisi si manifesta in Pirandello come dramma del pensiero, che perde ogni capacità di discriminazione fra vero e falso.
Questa visione del mondo, angosciosamente relativistica, è latente nelle prime opere in versi (Mal giocondo, Elegie romane) e si delinea nelle prime novelle (L'esclusa, Quand'ero matto).
Personaggi in crisi d'identità
Tali opere muovono dalla narrativa verista siciliana, soprattutto dalla lezione del Verga, ma l'attenzione di Pirandello si focalizza sulle discordanze tra l'essere e il parere, sia nell'individuo, sia nella società.
La prosa tende al discorsivo, al parlato, e il dialogo ha un vasto sviluppo, che prelude al teatro. Pur restando la forma e l'apparenza realistica, i modi della narrativa verista sono ribaltati, poiché sullo sfondo provinciale e borghese Pirandello proietta l'ansia dell'uomo che tenta di liberarsi dalle convenzioni per essere se stesso.
Ai "Vinti" del Verga, i quali nonostante tutto credono in un principio di là da loro (famiglia, fato, roba, ascesa sociale), si contrappongono nell'opera pirandelliana figure di medi o piccoli borghesi, squallidi rappresentanti di una società priva di ideali, condannati alla solitudine ed all'incomunicabilità.
Il mondo pirandelliano trova la sua compattezza nel disordine e la sua logica nel relativismo e nel caos, è testimonianza della condizione esistenziale dell'uomo ed è dichiarazione sulla posizione dell'uomo nel suo tempo.
L'opera di Pirandello
Poesie, traduzioni, novelle, romanzi e commedie, drammi, opere in lingua ed in dialetto, sceneggiature cinematografiche, saggi, tutta l'opera di Pirandello poggia su un substrato di concetti filosofici, di pensieri polemici, di temi ricorrenti e di "concetti" che rimbalzano da un'opera all'altra, nel tentativo di trovare la forma più aderente alla vita.
Pirandello poi, con gli stessi materiali, diversamente sbozzati e collegati, realizza una diversa costruzione, sempre cercando il capolavoro.
I personaggi, a volte gli stessi, altre volte lievemente alterati, passano dalle pagine di una novella a quelle di un romanzo e di lì a quelle di un'opera teatrale, tutti partecipi del grande gioco pirandelliano, conferendogli continuità poiché ogni opera ha in sé il germe della successiva.
Di alcuni lavori la trama è offerta molti anni prima in opere precedenti, gli stessi titoli sono ripresi e annunciati (gli attori di Sei personaggi provano Il gioco delle parti). Pirandello dà importanza alla trama, ma sa che lo stesso argomento, trattato in maniera diversa, può dar luogo sia a una modesta novella sia a una mirabile commedia.
Umorismo pirandelliano
In tutta l'opera di Pirandello s’avverte una capacità impietosa d'analisi, che porta a un'interpretazione non comica bensì umoristica della vita e della realtà alla quale si giunge con la drammatizzazione del comico.
Pirandello nella narrazione dà spazio alla riflessione, che diviene palese, e approda al passaggio dal comico (comico è ciò che superficialmente conduce al riso) all'umoristico, ossia dalla capacità di rilevare il contrario, si giunge all'umorismo, ossia al disincantato capire il tragico "perché" di un atteggiamento apparentemente bizzarro.
Ciò costituisce la poetica dell'umorismo (esposta nel saggio L'umorismo), secondo la quale il comico è "avvertimento del contrario", ossia il percepire un particolare che è il contrario di ciò che dovrebbe essere, mentre l'umorismo è il "sentimento del contrario", ossia l'intuire le motivazioni reali, a volte drammatiche, che hanno prodotto quel comportamento apparentemente comico e assurdo.
Così l'umorista diviene critico di se stesso e di ciò che egli sente e rifiutando di identificarsi con quei frammenti di verità umana (ogni frammento della personalità dello scrittore e del suo modo di percepire la realtà diviene nucleo di un personaggio e, come tale, esaminato) li piega artisticamente nella parodia che può divenire deformazione grottesca o fissità di maschera.
Lo schema narrativo pirandelliano si accentua su elementi espressivi, a volte anche stridenti per l'accostamento e l'interpretazione datane dall'autore. Tali elementi sono:
L'inarrestabile bisogno di vita che spinge la persona a diventare personaggio (amore, ansia, pazzia, istinto, desiderio di felicità: in una parola la vitalità);
La coscienza di vivere, quasi una malattia insita nel personaggio, la quale genera tragedie silenziose.
La riflessione è fonte del dolore. In quel "sentirsi vivere" la vita si aggroviglia; conoscersi è morire: chi vede la propria vita non la vive più, la subisce.
L'uomo pirandelliano, per rientrare nel dominio dell'umorismo, deve rappresentare il proprio contrario, deve divenire teatro, la vita è palcoscenico (tale meccanismo è presente anche negli schemi narrativi: l'azione scenico – narrativa scaturisce dallo scontro del personaggio con la propria immagine riflessa dalla società).
Partendo da tale nucleo vitale, la figura è scomposta mettendola in relazione con l'altra figura virtuale, inventata, con cui ha un rapporto di vita (ciò che crede \ sa di essere e ciò che appare) in un infinito gioco di specchi, generando confusione, disordine, coscienza del vuoto, allontanamento di ogni certezza. La personalità alterata si scompone in fantasmi deliranti, la malattia del "sentirsi vivere" si allea con la fantasia, distrugge la razionalità.
In Pirandello vi è un sentimento contraddittorio di amore e di disprezzo per l'umanità, di rifiuto della realtà, del tempo presente, della burocrazia e del sistema sul quale la realtà è costruita come un castello di carte e nei cui meandri il personaggio pirandelliano si perde, e infine di un disperato bisogno di solitudine e di "dimenticarsi di sé".
La follia in Uno, nessuno e centomila
Alla base del pensiero pirandelliano c’è una concezione vitalistica della realtà: la realtà tutta è vita, perpetuo movimento vitale, inteso come eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all'altro.
Tutto ciò che si stacca da questo flusso e assume forma distinta e individuale, si rapprende, si irrigidisce, comincia, secondo Pirandello, a morire. Così avviene per l'uomo: si distacca dall'universale assumendo una forma individuale entro cui si costringe, una maschera ("persona") con la quale si presenta a se stesso. Non esiste però la sola forma che l'io dà a se stesso, nella società esistono anche le forme che ogni io dà a tutti gli altri. E in questa moltiplicazione l'io perde la sua individualità, da «uno» diviene «centomila» quindi «nessuno».
Dalla disgregazione dell'io individuale partono in quest’opera le vicende del protagonista, Vitangelo Moscarda: quando la moglie, per un semplice gioco, gli farà notare alcuni suoi difetti fisici che lui non aveva mai notato, prima fra tutte una leggera pendenza del naso, questi si renderà conto come l'immagine che aveva sempre avuto di sé non corrispondesse in realtà alla figura che gli altri avevano di lui e cercherà in ogni modo di carpire questo lato inaccessibile del suo io. Da questo sforzo verso un obiettivo irraggiungibile nascerà la sua follia:
Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
Ma, all'improvviso, mentre così pensavo, avvenne tal cosa che mi riempì di spavento più che di stupore.
Vidi davanti a me, non per mia volontà, l'apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all'indietro, contrarre le labbra in su e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare così un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d'una coppia di starnuti.
S’era commosso da sé, per conto suo, ad un filo d'aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori della mia volontà.
«Salute!» gli dissi.
E guardai nello specchio il mio primo riso da matto.
La follia è infatti in Pirandello lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale,l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'incoscienza.
Inizia così la serie delle pazzie del Moscarda: prima sfratta un povero squilibrato, Marco di Dio, dalla catapecchia che persino il padre usuraio, per pietà, gli aveva concesso gratuitamente, e in tal modo suscita l'esecrazione di tutta la città; poi, con un improvviso colpo di scena, rivela alla folla indignata, accorsa per assistere allo sfratto, di aver donato un'altra casa migliore a di Dio. In seguito impone agli amministratori di liquidare la banca paterna, maltratta la moglie Dida (che pur ama) e la induce a lasciarlo. A questo punto i due amministratori, la moglie e il suocero, congiurano per farlo interdire. È avvertito da Anna Rosa, un'amica di Dida, ed egli, rivelandole tutte le sue considerazioni sull'inconsistenza della persona, sulle forme che gli altri ci impongono, l'affascina, ma fa anche saltare il suo equilibrio psichico, e la donna, con gesto improvviso e inspiegabile, gli spara, ferendolo gravemente. Ne nasce uno scandalo enorme: tutta la città è convinta che tra lui e Anna Rosa ci sia una relazione colpevole. A Moscarda, consigliato da un sacerdote, non resta che riconoscere tutte le colpe attribuitegli e dimostrare un eroico ravvedimento. Dona tutti i suoi averi per fondare un ospizio di mendicità, ed egli stesso vi viene ricoverato, vivendo insieme con tutti gli altri mendicanti, vestendo la divisa della comunità e mangiando nella ciotola di legno.
È il fallimento del tentativo del Moscarda che cerca l'evasione attraverso la follia: nel tentativo di sfuggire alle tante forme impostegli dalla società finirà per dover accettare una nuova, ennesima, maschera: quella dell'adultero, e scontare per essa una pesante e immeritata pena. Ma in questa sconfitta trova una sorta di vittoria, una cura alle angosce che lo perseguitavano. Se prima la consapevolezza di non essere «nessuno» gli dava un senso di orrore e di tremenda solitudine, ora accetta di buon grado l'alienazione completa da se stesso, rifiuta ogni identità personale, arriva a rifiutare infatti il suo stesso nome, e si abbandona allo scorrere mutevole della vita, al divenire del mondo, «morendo» e «rinascendo» subito dopo, in ogni attimo, sempre nuovo e senza ricordi, senza la costrizione di alcuna maschera autoimposta, ma identificandosi in ogni cosa, in una totale estraniazione dalla società e dalle forme coatte che essa impone.

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