Leopardi:L'Infinito

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Testo

L’Infinito
Giacomo Leopardi

Composto nel 1819, l’Infinito è il primo degli idilli, nonché una delle liriche più note del Leopardi. Le riflessioni del poeta sul rapporto fra il pensiero umano e l’infinità dell’universo sia nello spazio che nel tempo si traducono non in filosofia in versi, ma in autentica poesia. Inoltre, in questo componimento prende forma la poetica del vago e dell’indefinito.

Questa breve poesia può essere divisa in questo modo:
vv. 1 – 3: indicazione, ma non descrizione, di uno spazio concreto (l’area delimitata dalla siepe) e di un’abitudine personale (consuetudine di salire sul colle e stato d’animo).
vv. 4 – 8: astrazione e visione mentale dello spazio. Non è un’azione definita, ma una durata evidenziata dai gerundi “sedendo e mirando”.
vv. 8 – 13: il minimo evento dello “stormir tra queste piante” segna il passaggio dall’immaginazione spaziale a quella temporale. Il poeta instaura una contrapposizione tra concreto e presente, e spazio e tempo immaginati dal pensieri.
vv. 13 – 15: il pensiero smarrisce generando piacere.

In questi quindici densissimi versi Leopardi concentra una profonda esperienza interiore, trasportandoci in un viaggio tra ciò che è delimitato, “finito”, umanamente sperimentabile, e ciò che va oltre le possibilità dei nostri sensi ed è raggiungibile solo nell’immaginazione. Noi uomini, infatti, siamo una piccolissima cosa rispetto all’Universo, la nostra vita occupa una frazione infinitesimale del suo tempo, e solo con un grande sforzo di immaginazione possiamo figurarci uno spazio e un tempo senza fine. Nello Zibaldone troviamo questa riflessione del 12 agosto 1823 sulla dignità dell’uomo:

Quando egli, considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongano il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi con nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e mènomo essere, è potuta prevenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose.

Agli spazi senza fine si associano immediatamente sovrumani silenzi e profondissima quiete, che producono un sentimento di paura, di sgomento. Leopardi ama il silenzio e la quiete diventano quasi insopportabili, poiché si oppongono implicitamente all’idea di vita, che è fatta di suoni, di rumori, di movimento.
Poi, qualcosa strappa il poeta alle sue immaginazioni: una realtà concreta ma effimera come il vento interrompe i8 suoi pensieri, ma contemporaneamente li rilancia in direzione di un approfondimento del problema. Il poeta viene riportato al qui e ora, ma la voce del vento tra le piante suggerisce immediatamente un confronto con quello infinito silenzio, e la mente si tuffa negli abissi del tempo, ,quasi cercando di misurare le inconcepibili dimensioni dell’eterno attraverso il confronto tra l’interminabile fila delle stagioni passate (morte) e quella presente (viva), di cui si sente il suono.
L’immaginazione permette di collocare l’io che vive qui e ora nell’infinità del tempo e dello spazio. Ne deriva una sensazione di annegare, di naufragare nel mare dell’immensità. Ma allo sgomento ora si sostituisce, o si aggiunge, paradossalmente, un sentimento di dolcezza, che non viene spiegato, ma comunicato attraverso le parole vaghe e indeterminate del testo e i loro suoni.
Tra reale e immaginario, spazio e tempo, finito e infinito ci sono relazioni complesse, che risultano particolarmente evidenti sul piano lessicale. Notiamo come la poesia si apra e si chiude con parole di apprezzamento, di piacere (sempre caro – m’è dolce) e con riferimenti a luoghi, concreti (il colle, la siepe) oppure astratti o metaforici (l’immensità, il mare), accompagnati da aggettivi dimostrativi (questo, questa) che sottolineano la vicinanza fisica o psicologica.
In tutta la lirica è evidente il contrasto tra i termini concreti e molto comuni del finito e i termini più astratti dell’infinito, accompagnati da aggettivi che ne intensificano il significato. Ma sono ancora più significativi i collegamenti e gli intrecci tra questi due campi: dati concreti, come gli ampi spazi nascosti dalla siepe o la quiete e il silenzio del colle, si collegano a interinati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete dell’infinito immaginato, mentre il suono del vento si oppone a quello infinito silenzio, e al sentimento del presente e della vita che al suono suscita si contrappongono il sentimento dell’eterno e della lunghezza incommensurabile del tempo trascorso, delle morte stagioni.
Dal punto di vista formale, la poesia ha un’architettura speculare: è divisa in due parti uguali, di sette versi e mezzo, che corrispondono alle due esperienze dell’infinito spaziale e dell’infinito temporale; ai due estremi troviamo gli unici versi sintatticamente conclusi; le due serie di termini riguardanti lo spazio e il tempo sono disposte e graduate il modo opposto.
Ma altri segni indicano la continuità di un percorso, come la frequenza di congiunzioni coordinati, o la sinalefe al centro del verso 8 (…spaura. E come il vento…), che contrasta segnata dal punto. Osserviamo inoltre la frequenza degli enjambements: è come se la sintassi premesse continuamente contro i confini della metrica, spingesse ad andare oltre, come fa il pensiero alla ricerca dell’infinito.

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