La sirena

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Testo

LA SIRENA

Siamo a Torino, in periodo fascista. Un giovane giornalista siciliano, discendente dai Corbera di Salina, fa conoscenza, in un caffè di Via Po – un ambiente vecchiotto frequentato quasi esclusivamente da magistrati, professori, ufficiali di carriera in pensione – con un personaggio importante, il senatore Rosario La Ciura, grecista famoso in tutto il mondo. Superato un periodo di brusca scontrosità, il professore gratifica il giovane della sua amicizia e confidenza, e gli racconta ciò che molto tempo addietro, nella sua giovinezza, gli accadde con una sirena, Lighea. Ritiratosi ad Augusta nella casetta di un amico, vicina al mare, per più tranquillamente prepararsi ad un concorso universitario, il professore, che non ha mai avuto avventure con donne ed è vissuto in castità assoluta, mentre alle sei del mattino sulla barca sta declamando versi greci all’ombra di un roccione, riceve la visita della sirena. Ne nasce un amore che dura una ventina di giorni. Poi Lighea scompare, ma prima di andarsene dice al professore: “Non dimenticherai”. Per tutta la vita questa promessa e il ricordo della sirena occupano il La Ciura. Ed ecco che, durante un viaggio in mare per raggiungere Lisbona, fra Genova e Napoli, il richiamo si fa sentire. È chiaro ciò che la storia mitologica simboleggia: l’amore unico, sovrumano, arduo, a fronte della banalità e sciattezza dell’esistenza.
Il racconto è come diviso in due parti. La prima è in un certo senso il prologo; è l’ambientazione dei personaggi, con il vecchio caffè, la casa del professore, la governante, l’atmosfera di Torino, le due ragazze che piantano il giornalista dopo aver appreso che egli se la fa con entrambe; è il recupero della Sicilia, attraverso l’immagine che ne serba il professore, una Sicilia verace e divina dietro quella fastidiosa e volgare della vita quotidiana. La seconda è la favola. Da un tono naturalistico, con accenni di ironia e con le solite poco benevole allusioni ai difetti dell’isola, si passa ad un tono allusivo, di evidente derivazione simbolista. Il racconto, condotto su questi due registri, non riesce a trovare unità. Le “cattiverie” nei confronti dell’isola male convivono con la favola e con certi slanci lirici, con descrizioni e esaltate, tenute su una nota troppo alta. Una bella terra, dice il professore della Sicilia, “benché popolata da somari”: nei salotti siciliani “non si sputa perché non ci si vuole nauseare mai di niente”. Secondo il professore, il giovane giornalista è riuscito, come capita ad alcuni siciliani della specie migliore, “a compiere la sintesi di sensi e ragione”. E, a proposito delle grandi famiglie isolane:

“Io ho molta considerazione per le vecchie famiglie. Esse posseggono una memoria, minuscola è vero, ma ad ogni modo maggiore delle altre. Sono quanto di meglio, voialtri, possiate raggiungere in fatto di immortalità fisica”.

Insomma, la solita polemica antisiciliana, che qui si fa però acre e ottusa. Per contro, ecco la Sicilia eterna,

“Quella delle cose di natura, del profumo di rosmarino sui Nébrodi, del gusto del miele di Melilli, dell’ondeggiare delle messi in una giornata ventosa di maggio come si vede da Enna, delle solitudini intorno a Siracusa, delle raffiche di profumo riversate, si dice, su Palermo dagli agrumeti durante certi tramonti di giugno”.

E il mare siciliano:

“il mare: il mare di Sicilia è il più colorito, il più romantico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non riuscirete a guastare, fuori delle città, s’intende”.

E di un golfetto più interno più su di punta Izzo:

“La costa è selvaggia… completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l’Etna; da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino. È uno di quei luoghi nei quali si vede un aspetto eterno di quell’isola che tanto scioccamente ha volto le spalle alla sua vocazione che era quella di servir da pascolo per gli armenti del sole”.

Qui si va nel ridicolo o perlomeno oltre il segno: la Sicilia perde ogni connotato reale e diventa la materializzazione di un sogno protestatario, di un sentimentalismo artificioso. Siamo tra pavoni, divinità vulcaniche, armenti solari, vocazioni strampalate e una scricchiolante nozione dell’eternità isolana. Questa è la Sicilia della côté astiosa e sentimentale di Lampedusa. Quanto alla sirena, si potrebbe dire che la sua descrizione è scontata.

“…il volto liscio … divina letizia”.

La sirena insomma è “corrente di vita senza accidenti”, è divinità nella bestialità, ignara di ogni saggezza, sdegnosa di ogni costrizione morale, all’oscuro di tutte le culture eppure facente parte della sorgiva di ogni cultura, di ogni sapienza, di ogni etica, e capace di esprimere questa sua primigenia superiorità in termini di scabra bellezza. È la grazia pagana, è sradicatrice di fedi e dissipatrice di metafisiche, colei che mostra la via verso i veri eterni riposi e verso un ascetismo di vita derivato non dalla rinuncia ma dalla possibilità di accettare altri piaceri inferiori. Nella favola metafisica, Lampedusa riesprime il suo giudizio sulla sua terra, sugli uomini, sulla vita.
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