I Promessi Sposi, riassunto cap I - VIII

Materie:Riassunto
Categoria:Letteratura
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Testo

Promessi sposi
Riassunto del capitolo I
Il racconto della vicenda da cui prende le mosse il romanzo prende l'avvio con un'ampia, minuta, realistica, visione del paesaggio in cui si colloca il paese brianzolo dove abitano Renzo e Lucia, i due promessi sposi. Lui è un filatore di seta, orfano di padre e di madre; lei è filatrice in una filanda ma senza continuità di lavoro: vive con la madre vedova. Si dovevano sposare e il matrimonio era fissato per l'otto novembre 1628. Tutto sarebbe andato liscio, se il signorotto locale, doti Rodrigo, non si fosse incapricciato di Lucia e non avesse scommesso col cugino, don Attilio, che in tempi brevi, se ne sarebbe impadronito e l'avrebbe portata al castello. Per questa violenza egli poteva sperare nell'immunità dovuta sia al suo grado sociale sia alla connivenza del potere giudiziario e politico, alleato dei potenti. Bisognava impedire intanto la celebrazione del matrimonio. Per questo il pomeriggio del 7 manda due bravi ad ordinare al curato don Abbondio che quel matrimonio non si deve celebrare. I due bravi si appostano all'angolo di una strada di campagna, percorsa d'abitudine dal curato. Il quale, intimidito, si dichiara pronto ad obbedire. Lo fa perché per temperamento è un pauroso; non era nato con un cuor di leone; ma obbedisce e si rassegna e si fa complice di un gesto di violenza anche perché la società nella quale viveva era violenta, ingiusta e non offriva adeguata protezione contro i soprusi dei potenti ai poveri, ai disarmati, ai miti. A casa dove giunge affannato ed agitato confida ogni cosa alla sua serva Perpetua: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione. L'ordine impartito a lei è di non fiatare della cosa con nessuno. Lei dà qualche suggerimento, tra cui quello di avvertire il cardinale. Ma don Abbondio è troppo dominato dalla paura procuratagli da quei bravi e crede che la disobbedienza gli costerà una fucilata. La notte, che trascorre agitatissima, è difatti popolata di bravi e di archibugiate.
Domande e risposte per approfondire
1. Per quale motivo il narratore si sofferma a descrivere, nel caso dei bravi, il loro abbigliamento?
L'autore ci fornisce, nel caso dei bravi, un'attenta e minuziosa ricostruzione della foggia degli abiti del Seicento. Questa descrizione gli permette di "storicizzare" il racconto, di collocarlo cioè maggiormente nel suo contesto storico attraverso la citazione di elementi che rendono più credibile la narrazione. Ma il vero intento del Manzoni nella sua minuziosa descrizione degli abiti è un altro. Il modo di vestire è un linguaggio, e comunica direttamente e più esplicitamente di quello verbale la funzione e le intenzioni di un personaggio. In questo caso, tutto l'abbigliamento dei Bravi trasuda violenza, ne è la materializzazione. Il corno della polvere attaccato al collo "come una collana" conferisce ai bravi un aspetto di ribalderia, gli aggettivi accrescitivi e dispregiativi che accompagnano le armi descritte ("spadone", "coltellaccio") le fanno sembrare ancora più minacciose, la loro lucentezza e efficienza fanno capire con quanta cura i bravi si occupino dei propri strumenti d'offesa. Ancora una volta, il Manzoni ci trasmette sensazioni e significati molto vivi, nascosti dietro elementi apparentemente banali del testo.
2. Ciascuna delle seguenti citazioni contiene una o più figure retoriche tra quelle sotto indicate. Identificale e scrivine la denominazione.
o "...uomo avvertito... lei c'intende...": si tratta di una reticenza, una figura retorica che consente di rafforzare un concetto lasciandolo solo intuire;
o "Il nostro don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto di essere, in quella società, come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.": siamo davanti alla litote, che grazie alla negazione del contrario di un concetto, permette di esprimerlo con significato più blando ("...non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno..."). La similitudine che segue (introdotta da "come") è usata per descrivere efficacemente la situazione di don Abbondio nella società del Seicento;
o "Le leggi, anzi, diluviavano.": si tratta di una metafora (erano abbondanti come se diluviassero)
o "Ma lor signori, son troppo giusti, troppo ragionevoli...": può trattarsi di un'antitesi, anche se il solo scopo di queste parole di don Abbondio è quello di ingraziarsi i due bravi. La figura retorica può tuttavia essere letta dal punto del Manzoni o del lettore, che notano il contrasto tra la violenza dei bravi e la gentilezza servile, quasi comica, delle parole di don Abbondio.
3. Descrivi il personaggio di Perpetua, spiegando con quale tattica riesca ad ottenere le confidenze di don Abbondio.
Il Personaggio di Perpetua è un personaggio straordinario, una donna schietta, popolana, pettegola e avventata, di indole brusca e dolce al tempo stesso. Perpetua costituisce il naturale completamento di don Abbondio, la sua antitesi per eccellenza. Lui timoroso e riservato, lei energica e ficcanaso, più che due individui diversi sembrano costituire le due facce di un unico personaggio. La descrizione che ce ne dà il Manzoni è viva, velatamente ironica, e ne traspare una donna burbera ma affezionata al suo padrone. Che tipo di rapporto ci sia tra i due, ci è indicato dalla tattica che Perpetua, curiosa per natura, utilizza nei confronti di don Abbondio per strappargli le sue confidenze dopo l'incontro del curato con i bravi. Semplice ma forte, la strategia di Perpetua si basa sia sulla profonda conoscenza che ha dei comportamenti e degli argomenti che possono far leva su don Abbondio, sia su una dolce ma ferma insistenza. Inoltre, appare chiaro tanto a lei quanto al lettore che don Abbondio, reduce dall'incontro con i bravi, non desidera altro che confidarsi con qualcuno, per non dover sopportare da solo il peso dell'evento ("ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: «Perpetua! Perpetua!»"). La schietta autorità di Perpetua non stenta troppo a forzare l'animo ansioso di raccontare di don Abbondio e, con qualche gesto simbolico ("disse Perpetua empiendo il bicchiere e tenendolo in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare") e teatrale ("Perpetua, ritta davanti a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi") e numerose solenni formule di giuramento circa la sua assoluta riservatezza, ottiene il racconto completo della disavventura di don Abbondio.
4. Dopo aver rintracciato sul testo le seguenti espressioni, spiegane il significato letterale e metaforico.
o "Forza legale e forza reale": i due termini stanno in netta contrapposizione fra di loro. Per forza legale, infatti, si intende la forza della legge e della giustizia pubblica, quella che dovrebbe difendere il debole dall'oppressore, e per forza reale invece, la potenza che i signori locali esercitavano sulla popolazione, in contrasto con la forza legale, per mezzo dei piccoli eserciti di bravi che erano loro a disposizione.
o "Le leggi, anzi, diluviavano.": questa metafora ci comunica, in tutta la sua drammaticità, l'inefficacia delle gride emesse dai governatori spagnoli. Poiché il valore delle disposizioni della macchina burocratica spagnola era pressoché nullo, i governanti cercavano di supperire a questa carenza aumentando a dismisura il numero dei provvedimenti. Ne conseguiva che le leggi "diluviavano", numerosissime ma impotenti come gocce di pioggia.
o "Era quindi ben naturale che costoro vendessero la loro inazione o anche la loro connivenza ai potenti.": l'affermazione si riferisce agli uomini della giustizia, gli sbirri, che, essendo disprezzati peggio dei delinquenti e tenendone veramente lo stesso comportamento, era naturale che si alleassero per denaro con gli stessi signori, il cui potere erano destinati a contrastare (da qui poi l'impotenza della forza legale contro la forza reale).
o "Questo chiamava un comprarsi gli impicci a contanti.": questa frase, riferita a don Abbondio, ci mostra una delle sue massime di vita: stare il più possibile lontano dai guai. "comprarsi gli impicci a contanti" significa infatti trovarsi noie con facilità, ed è riferita al comportamento di certi suoi colleghi curati che, facendo il loro dovere di uomini di chiesa, difendevano i deboli contro lo strapotere dei signori. Questa espressione popolare, insieme a quella successiva ("voler raddrizzar le gambe ai cani" per indicare una cosa impossibile) serve a riferire direttamente i pensieri, non certo elevati, del curato.
Promessi sposi
Riassunto del capitolo II
La notte per don Abbondio trascorre agitata, tumultuosa, ma gli dà il tempo di preparare un piano per obbedire a don Rodrigo: quel matrimonio deve essere rinviato a tempo indeterminato. Poi si vedrà: intanto bisogna sostenere e respingere il primo attacco, quello di Renzo che viene di buon mattino a prendere accordi col curato sull'ora del matrimonio. La data era stata fissata da tempo dallo stesso curato: il quale, ora al vedersi di fronte Renzo, dapprima si finge sorpreso, poi adduce una serie di scuse di carattere amministrativo: non aveva (e se ne assume la colpa) preparato in tempo tutti gli atti prescritti dalla Chiesa. Non è la fine del mondo, se si sposta il matrimonio di qualche giorno. Dolente e intristito e quasi arrabbiato Renzo esce dalla casa del curato, ma fuori è ad aspettarlo Perpetua, la quale ha una voglia matta di parlare e dire tutto a Renzo. Abilmente solleticata Perpetua dice a Renzo la vera ragione del rinvio delle nozze. E Renzo si precipita nella stanza del curato e con le buone o le cattive (ad un certo momento inavvertitamente mette mano al coltello) riesce a sapere da don Abbondio il nome del manigoldo che si oppone al matrimonio. Mogio mogio Renzo si reca a casa da Lucia che intanto si agghindava per le nozze. A lei e alla suocera, Agnese, comunica il fatto: gli invitati sono allontanati con la scusa che il matrimonio non si fa per malattia del curato. Ed effettivamente don Abbondio, pressato prima dai bravi poi da Renzo, è caduto in preda alla febbre. La casa del curato sembra un fortilizio: tutto vi è sbarrato come se si temesse un imminente attacco. Alle comari che, indotte da spirito pettegolo, erano andate a bussare per trovare conferma della malattia del curato, Perpetua affacciatasi ad una finestra conferma la notizia con insolita fretta e secchezza.
Promessi sposi
Riassunto del capitolo III
Il capitolo si apre con il racconto di Lucia ad Agnese e a Renzo dei suoi involontari incontri con don Rodrigo (questi, infatti, aveva avvicinato Lucia lungo la strada e aveva scommesso con un altro nobile, il conte Attilio, suo cugino, che la ragazza sarebbe stata sua). Lucia rivela poi di aver narrato l'accaduto a fra Cristoforo. Renzo e Agnese, l'uno come fidanzato, l'altra come madre, sono amareggiati dal fatto che Lucia non si sia confidata a loro. Al sentire gli episodi descritti da Lucia, Renzo viene colto da un nuovo attacco d'ira e da propositi di vendetta, ma Lucia riesce a placare le sue nuove ire.
Agnese consiglia poi al giovane di recarsi a Lecco, da un avvocato soprannominato Azzecca-garbugli e gli consegna quattro capponi da portare in dono al dottore. Renzo si mette dunque in cammino verso Lecco. Lungo la strada, agitato e incollerito, dà continui strattoni ai capponi che ha in mano: le povere bestie, pur accomunate da un triste destino, si beccano tra loro. Ciò dà l'occasione all'Autore per riflettere sulla mancanza di solidarietà tra gli uomini, anche quando questi sono accomunati dalle sventure ("i quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura").
Giunto alla casa dell'Azzecca-garbugli e consegnati i capponi a una serva, Renzo viene fatto accomodare nello studio: uno stanzone disordinato, polveroso e un po' decadente in cui spiccano, alle pareti, i ritratti degli imperatori romani, simbolo del potere assoluto. Il dottore lo accoglie indossando una toga consunta che lo fa apparire decrepito quanto i mobili della stanza. Azzecca-garbugli scambia Renzo per un bravo e, per intimorirlo, legge confusamente una grida che annuncia pene severissime per chi impedisce un matrimonio. Ha qui inizio il tragicomico equivoco tra Renzo e l'Azzecca-garbugli che, credendo che il giovane si sia camuffato tagliandosi il ciuffo che contraddistingue i bravi, si complimenta con lui per la sua astuzia. A questo proposito, l'Autore non perde l'occasione per sottolineare ancora una volta l'ottusità della macchina burocratica spagnola, e ci propone frammenti di gride in cui si vieta addirittura di portare il ciuffo. Renzo nega di essere un bravo, ma l'avvocato non gli crede e lo invita a fidarsi di lui, prospettando poi una linea di difesa. Scoperto l'equivoco, Azzecca-garbugli si infuria e rifiuta ogni aiuto, mettendolo infine alla porta, poiché colpevole di un crimine all'epoca gravissimo: essere vittima, e per di più senza appoggi nobiliari. Intanto Lucia e Agnese si consultano nuovamente tra loro e decidono di chiedere aiuto anche a fra Cristoforo. In quel momento giunge fra Galdino, un umile frate laico, in cerca di noci per il convento di Pescarenico, lo stesso dove vive il padre Cristoforo.
Per eludere le domande del fraticello circa il mancato matrimonio si porta il discorso sulla carestia; Galdino racconta allora un aneddoto riguardante un miracolo avvenuto in Romagna. Lucia dona a fra Galdino una gran quantità di noci affinché egli, non dovendo continuare la questua, possa recarsi subito al convento ed esaudire la sua richiesta di inviare presso di loro fra Cristoforo. A questo punto il Manzoni ci tiene a precisare che, nonostante fra Cristoforo avesse a che fare con la gente umile, era un personaggio "di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno" e approfitta dell'occasione per un excursus sulla condizione dei frati cappuccini nel Seicento. Renzo fa quindi ritorno alla casa di Lucia e racconta il pessimo risultato del suo colloquio con Azzecca-garbugli. Tra Renzo e Agnese si accende una piccola discussione, subito placata da Lucia, circa la validità del consiglio di rivolgersi all'avvocato. Dopo alcuni sfoghi di Renzo ed altrettanti inviti alla calma da parte delle donne, il giovane torna a casa propria.
Promessi sposi
Riassunto del capitolo IV
La mattina seguente, piuttosto presto, padre Cristoforo esce dal convento di Pescarenico per raggiungere la casa di Lucia: attraversando la serena campagna, che ha i toni e i colori limpidi e dolci del mattino, il padre osserva con dolore i segni dell'incipiente carestia. A questo punto il Manzoni avverte il bisogno di interrompere la trama narrativa dei due promessi per dare un profilo biografico e morale del frate. Era figlio di un grosso mercante che, dopo aver faticato, s'era conquistata una grossa fortuna: lo turbava la sua origine modesta di popolano: voleva essere accettato dai nobili ed essere eguale a loro. La parola "mercante" in sua presenza era motivo di turbamento. Aveva un solo figlio, Ludovico, cui volle impartire l'educazione che era degli aristocratici. Ludovico era cresciuto fra l'opulenza, la servitù, con gli agi propri dei nobili. Dai quali, nonostante i tentativi di essere accettato, era stato sempre snobbato e lasciato da parte. Aveva però indole buona che lo portava a proteggere i poveri, e a respingere gli atti di ingiustizia e di sopraffazione. Tanto che a volte, disgustato della società, aveva meditato di farsi frate. Viveva però in una grande contraddizione: voleva essere dei nobili, ma intanto ne respingeva la mentalità e i pregiudizi. Voleva un mondo regolato da giustizia e non s'avvedeva che la vita dell'aristocrazia, cui voleva partecipare, era quella della sopraffazione. Voleva essere uomo di pace ma andava armato come i signorotti e si circondava di un corpo di guardia armata. Il fatto che diede una svolta a tutta la sua vita fu il duello che dovette sostenere in pubblica strada, lui e i suoi servi, tra cui uno che gli era molto caro e si chiamava Cristoforo, contro un signorotto prepotente ed aggressivo, circondato anche questo da alcuni bravi. Lo scontro ebbe ragion futili: il prepotente voleva che Ludovico gli cedesse il passo lungo il muro: come nobile presumeva di averne diritto. Ma questo privilegio non gli venne riconosciuto da Ludovico che nel duello, quando vide cadere il suo Cristoforo, persa la luce della ragione, infilzò l'avversario tra l'approvazione della gente che col vinto per le sue maniere brutali ce l'aveva. Come fuor di sé, Ludovico viene spinto nel vicino convento dei cappuccini: come ogni convento anche questo gode del diritto d'asilo, che concede l'immunità a tutti coloro che vi si rifugiano: non possono però uscirne. Ma in convento Ludovico medita su di sé, sui grandi temi del destino dell'uomo si converte e si fa frate. Da allora fu frate e dentro sempre lo accompagnò il desiderio di giustizia con la energica opposizione ai soprusi. Prima di iniziare la nuova vita, volle chiedere perdono al fratello dell'ucciso: lo ottenne ma la cerimonia che doveva essere di umiliazione, si risolse in un trionfo per lui.
Promessi sposi
Riassunto del capitolo V
Dalle informazioni ottenute da Agnese sul pesante intervento intimidatorio di don Rodrigo, padre Cristoforo sa tutto ormai; ma non avendo altre armi che quelle della religione, decide di affrontare il prepotente nel tentativo di dissuaderlo in nome dei principi morali e religiosi dal proposito di rapire Lucia. Dalla casa di Lucia il tratto di campagna che attraversa è per il frate motivo di costernazione: dappertutto i segni della carestia, il palazzo del signorotto, segno di forza e di potenza, sorge tetro sulla cima di un poggio quasi come minaccioso custode della gente disseminata nei paesi sottostanti. Per il formale (anche i prepotenti sono ipocritamente pronti a rendere omaggio agli uomini di religione) ossequio che gli si deve in quanto cappuccino, padre Cristoforo non solo è introdotto nel palazzo, ma addirittura ammesso alla sala da pranzo dove don Rodrigo banchetta con alcuni ospiti: c'è il cugino Attilio, più vivace che mai, il podestà di Lecco, l'Azzeccagarbugli e altri uomini di minore rilievo. Si discute in modi frivoli di un argomento violento: dei duelli, sui quali si chiede, dato il contrasto di opinioni tra gli ospiti, il parere del frate. Questi riconferma come inalienabile la legge evangelica della non violenza. Altro argomento, questa volta politico, è quello della guerra tra Francia e Spagna scatenata in conseguenza della mancanza di un erede diretto nel ducato dì Mantova. La Francia sostiene un Gonzaga da tempo trasferitosi al di là delle Alpi e fattosi francese: altro è il candidato della Spagna. La guerra da quei loro discorsi appare come una partita di scacchi ingaggiata da due abili giocatori: da un lato il cardinale Richelieu, dall'altro il conte duca, che i commensali servilmente dicono grande ministro del re di Spagna. Alla fine si sfiora anche l'argomento della carestia. Per loro non esiste: è solo il risultato malefico dell'intervento dei fornai che imboscano la farina per ottenerne prezzi più alti. Se si dovesse giudicare della nobiltà lombarda del Seicento da questi rappresentanti accolti intorno ad una tavola, li si dovrebbe dire non solo cinici e perversi, ma insensibili e intelligenti. Ad un certo momento don Rodrigo che mal sopporta la vista di quel frate concentrato e silenzioso si decide a dargli udienza.
Promessi sposi
Riassunto del capitolo VI
Piantato in mezzo alla sala con atteggiamento di prepotente altezzosità, il più adatto a scatenare l'opposizione e la condanna del frate, don Rodrigo si degna di ascoltare la preghiera: quella di lasciare in pace Lucia e di consentire al matrimonio. Non si può dire che il frate conosca le vie tortuose e sapienti della diplomazia: le parole che adopera sono più che di preghiera, di condanna. Quando don Rodrigo esce nella battuta: Lucia, se si senta da qualcuno minacciata, venga a mettersi sotto la mia protezione, il frate scatta in toni profetistici e pronuncia un solenne "Verrà un giorno...". Non completa la frase: don Rodrigo glielo impedisce, penetrato dentro da un segreto terrore: scaccia il frate con parole in cui si mescolano paure inespresse, volgarità, minacce. La missione di padre Cristoforo si è risolta in un fallimento. Porta con sé i segni della vittoria morale, ma anche la certezza che ormai per don Rodrigo si tratta di un puntiglio, di un punto d'onore, da cui egli non si smuoverà: qualcosa sicuramente tenterà. Gliene dà conferma un vecchio cameriere del signorotto, che in segreto l'informa che si sta macchinando qualcosa di irregolare e di perverso. È un segno della provvidenza per il frate. Intanto a casa di Lucia si mette in moto con la solita fervida immaginazione Agnese. Ha un piano per realizzare il matrimonio. Sa che esiste e che resta valido il matrimonio per sorpresa: se i due promessi in presenza del curato, anche senza il suo consenso, e di due testimoni pronunciano la formula del matrimonio, questo è legittimo anche sul piano religioso. Renzo si attacca con entusiasmo a questa proposta. I testimoni sono subito trovati: i fratelli Tonio e Gervasio. Non c'è in un primo tempo il consenso di Lucia che vorrebbe prima parlarne a padre Cristoforo: se la cosa è lecita, non c'è ragione di non parlarne a lui. Ma Agnese non vuole che la cosa venga detta a lui. La discussione viene interrotta dal ritorno del frate.
Don Rodrigo e Fra Cristoforo
Fra Cristoforo appartiene al basso rango della gerarchia ecclesiastica ma è dotato di una forte religiosità e sostenuto da alti valori morali. Prima di diventare frate, il cappuccino, era conosciuto come Ludovico, figlio di un mercante vittima del pregiudizio. Dopo uno scontro con un nobile, in cui il suo fedele servo Cristoforo perde la vita, Ludovico lo vendica uccidendo il nobile, si rifugia in un convento e decide di farsi frate con il nome dell'amico caduto. Egli si propone un modello di società fondato sulla povertà, la giustizia e la solidarietà. Le caratteristiche di Ludovico divengono le doti di Fra Cristoforo ed il suo unico scopo è il trionfo della giustizia. Dopo l'entrata in convento, la vita di Fra Cristoforo, è caratterizzata dal rimorso, ma soprattutto dal servizio nei confronti del prossimo e della carità. Il frate è un personaggio dotato di forza e personalità che soccorre gli umili, aiuta i deboli e combatte contro i potenti. Ha capito che i valori più alti sono l'esatto opposto dei miti e dei pregiudizi della società in cui vive cioè l'umiltà, la carità, il perdono e soprattutto la convinzione che tutto fa parte di un quadro provvidenziale. Conserva ancora parte di quello spirito guerriero che animava Ludovico ma ora è frenato dalla forza della fede, e proprio per questa sua vitalità e questo suo modo di vivere sempre all'attacco incontrerà Don Rodrigo. Don Rodrigo, al contrario, è il tipo comune del signorotto prepotente e spregiudicato che, pur di soddisfare puntigli e passioni, si considera padrone di far tutto ciò che vuole e tutti giudica sottoposti a se. In Don Rodrigo ci sono tutte le caratteristiche meschine: orgoglio di casta, puntiglio e natura borghese. Questo suo comportamento emerge quando anziché abbandonare l'idea dell'impresa di rapire Lucia, specialmente dopo il discorso di fra Cristoforo, è costretto a condurre l'impresa fino in fondo per una questione di puntiglo ed orgoglio familiare nei confronti di suo cugino Attilio. Don Rodrigo, sebbene sia colui che, con il suo agire avventato e prepotente, rende possibile tutta la vicenda, è l'unico personaggio di cui non ci venga fatta una presentazione, né fisica, né morale. Noi lo conosciamo solo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il palazzotto e gli sbirri, e attraverso il suo agire, o meglio le conseguenze del suo agire. Il Manzoni mette in chiara evidenza la tenacia e lo spirito combattivo con cui Fra Cristoforo, combatte la superbia, la prepotenza e l'orgoglio dei signorotti come Don Rodrigo e lo scopo che lo guida ovvero la pace. Nei Promessi Sposi infatti i due si incontreranno quando Fra Cristoforo apprendendo gli ultimi avvenimenti decide di incontrare Don Rodrigo per distoglierlo dai suoi propositi. Si reca, quindi, al palazzotto del nobile che nel frattempo è a pranzo con i suoi ospiti, fra i quali sono presenti molte importanti personalità. Dopo un'animata discussione che degenera quasi in rissa, fra Cristoforo e Rodrigo si appartano per poter parlare più liberamente. Fra Cristoforo non riesce a distogliere don Rodrigo dai suoi loschi progetti, sebbene quest'ultimo rimanga parecchio impressionato da alcune parole del frate riguardanti la morte e il giudizio finale. Il religioso viene però informato da un vecchio servitore di Rodrigo dei progetti di quest'ultimo su Lucia (un rapimento). In questo episodio le forze del bene e quelle del male vengono contrapposte in un conflitto serrato.
Promessi sposi
Riassunto del capitolo VII
Tornato dal palazzo di don Rodrigo, Fra Cristoforo giunge di nuovo a casa di Lucia e comunica ad Agnese e ai due promessi che, malgrado il suo intervento, don Rodrigo non intende cambiare atteggiamento. Renzo reagisce con rabbia. Uscendo, il frate raccomanda di inviare qualcuno al convento il giorno successivo, per avere nuove informazioni. Renzo, irritato dalle notizie appena ricevute e dall'opposizione di Lucia al progetto di matrimonio di sorpresa, dà in escandescenze. Alla fine Lucia cede e accondiscende (a malincuore) al piano della madre. Renzo torna infine a casa. Agnese e Renzo stabiliscono insieme i dettagli del piano di matrimonio di sorpresa, mentre Lucia resta in disparte. Seguendo le indicazioni di fra Cristoforo, Agnese invia poi al convento Menico, un ragazzino suo parente. Per tutta la mattinata, dei loschi figuri vestiti da viandanti e da pellegrini si aggirano nelle vicinanze della casa di Lucia, curiosando anche all'interno dell'abitazione. Dopo lo scontro con padre Cristoforo, don Rodrigo, furibondo per non esser riuscito ad intimorire il frate e turbato per quel "Verrà un giorno...", cammina per il palazzo al cospetto dei ritratti dei suoi avi, che sembrano rimproverarlo per la sua debolezza. Per dimenticare l'episodio il nobile esce, scortato dai bravi, per una passeggiata trionfale, durante la quale egli viene ossequiato da tutti. Tornato al palazzo, egli viene però deriso dal conte Attilio; risentito, raddoppia allora la posta dell'infame scommessa. Dopo una notte di sonno tranquillo, don Rodrigo, dimenticati i timori suscitati in lui da fra Cristoforo, predispone con il capo dei suoi bravi, il Griso, un piano per rapire Lucia. I bravi, guidati dal Griso, cominciano le loro ricognizioni in casa di Lucia (gli strani figuri visti nella casa sono i bravi travestiti). Tornati al palazzo, il Griso dà le ultime istruzioni ai suoi compagni. Il vecchio servitore si avvia alla volta del convento per riferire al frate circa il previsto rapimento di Lucia. Nel frattempo alcuni bravi hanno già occupato le posizioni concordate ed altri si avviano a farlo. Dopo aver preso con Agnese e Lucia gli ultimi accordi per il matrimonio di sorpresa, Renzo, assieme a Tonio e a Gervaso, si reca all'osteria e qui incontra tre individui (sono tre bravi di don Rodrigo) dal comportamento minaccioso. Renzo, durante la cena, chiede all'oste informazioni sui tre, ma l'oste finge di non conoscerli; al contrario, egli fornisce ai bravi diverse notizie su Renzo e i suoi amici. Usciti dall'osteria, Renzo, Tonio e Gervaso, vengono seguiti da due bravi, che si arrestano però, vedendo arrivare gente di ritorno dai campi. I tre passano poi a chiamare Agnese e Lucia per dare il via al matrimonio a sorpresa, e insieme si recano alla canonica, dove Tonio bussa alla porta dicendo a Perpetua di voler saldare un debito. Ancora una volta, il capitolo si conclude sul momento culminante della scena, e invita a proseguire la lettura.
Promessi sposi
Riassunto del capitolo VIII
Quella sera don Abbondio stava gustando un po' di tranquillità dopo le agitazioni dei due giorni precedenti, era immerso nella lettura di un libro e aveva incespicato nel nome di un filosofo greco di cui nulla sapeva. A questo punto Perpetua annuncia la visita di Tonio e Gervasio: Tonio voleva pagare il debito che aveva col curato e ottenere il pegno da togli. L'ora era tarda, ma era bene profittare dell'occasione: Tonio quei soldi poteva sciuparli nell'osteria. Da questo pensiero indotto don Abbondio, nonostante la diffidenza, lo lascia entrare ed ammette nello studio. Dietro, ma lui non se ne avvede, ci sono Renzo e Lucia: Agnese si è portata via Perpetua attirandola con l'argomento, per Perpetua sempre molto sensibile, del mancato matrimonio con uno dei tanti pretendenti. Quando don Abbondio alza la testa per consegnare la Polizza a Tonio, si vede davanti Renzo e Lucia: Renzo riesce a pronunciare la formula: non vi riesce Lucia travolta dal tappeto del tavolino che il curato le scaglia addosso. La confusione ora è generale: la candela è caduta per terra e s'è spenta: tutto è nel buio e nel buio i due promessi cercano di guadagnare la porta, Tonio di riprendersi la ricevuta, e Gervasio di uscire dal marasma creandone altro. Dalla stanza attigua dove s'è barricato il curato invoca l'aiuto del campanaio Ambrogio, il quale improvvisamente destato suona a martello le campane svegliando il paese e sollecitandone l'aiuto contro il misterioso nemico. Intanto Menico torna a casa dal convento e quando si avvicina alla casa di Agnese è bloccato dai bravi di don Rodrigo, che erano penetrati nella casa ma l'avevano trovata vuota. A questo punto comincia il suono delle campane: ritenendosi scoperti i bravi fuggono. Scappano anche Renzo e Lucia: scappa verso il curato Perpetua e dietro le è Agnese. Il paese è in preda ad una grande agitazione: don Abbondio invita tutti a tornare a casa: il pericolo è finito. Menico sfuggito ai bravi informa Agnese, Lucia e Renzo che in casa ci sono i bravi: seguano il consiglio di padre Cristoforo che li attende nella chiesa del convento. Lucia ed Agnese si recheranno con una sua lettera di raccomandazione a Monza: saranno ospitate in un convento; Renzo con altra lettera si recherà a Milano presso il convento dei cappuccini. Comincia così il viaggio di dispersione dei tre.
Parafrasi de "Addio Monti"
Addio Monti nascenti dall’acqua, ed innalzati al cielo; vette differenti, conosciute a chi è maturato tra voi, e segnato nella sua mente, non di meno dell’aspetto dei suoi più conosciuti, ruscelli, dei quali si capisce il fragore, come la rinomanza delle voci di casa; borghi sparsi e albeggianti sulla pendice, come un gregge di pecore che pascolano; addio! Quanto è sconfortante il passo di chi, è diventato adulto tra di voi, e adesso se ne allontana. Alla voglia di quello stesso che se ne va di proposito, preso dalla fiducia di fare fortuna altrove, svaniscono, in quel istante, le illusioni dell’abbondanza; egli si stupisce della decisione, e ritornerebbe indietro, se non immagina che, un dì, ritornerà ricco. Più avanza nel piano, più il suo occhio si chiude, schifato ed esausto di quella estensione monotona; l’aria gli sembra pesante e morta; si addentra triste e distratto nelle città movimentate; le case aggiunte a case, le strade che fluiscano nelle strade, sembra che gli tolgano il fiato; e dinanzi agli edifici ammirati dallo straniero, immagina, con brama smaniosa, alla terra del suo paese, alla dimora cui ha già posato gli occhi da tanto tempo, e che acquisterà, ritornando ricco ai suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto di là da quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composto in essi tutti i progetti del futuro, e n’è intagliato lontano, da una forza perfida. Chi, diviso un tempo dalle consuetudini amate, e infastidito nelle più interiori aspettative, lascia quei monti, per dirigersi in cerca d'estranei che non ha mai ambito d'incontrare, e non può con l’inventiva sopraggiungere ad un attimo stabilito per il rientro! Addio, casa natia, dove, sedendo, con un idea occulta, si apprese a scindere dal rumore dei passi comuni il rumore d’un passo atteso con un oscura paura. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla fuga, passando, e non senza vergogna; nella quale la mente si illustrava una dimora calma e perenne di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo ritornò tante volte felice, inneggiando le lodi del Signore; dov’era giurato, preparato una funzione; dove il sospiro nascosto del cuore doveva essere austeramente consacrato, e l’amore essere ordinato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta felicità è per tutto; e non disturba mai la felicità dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.
Schema dei personaggi dei Promessi sposi
Renzo
Giovane che, nato e cresciuto nel limitato ambiente del suo paese, conosce la vita solo nei suoi aspetti più semplici e consueti, la fatica del lavoro e la forza degli affetti. Rimasto orfano in giovane età, è abituato a badare a se stesso e si è creato un onesto lavoro, una sicurezza per sé e per la sposa prescelta, Lucia. Di indole buona, ha tuttavia un temperamento impetuoso, incline a scatti e a ribellioni improvvise, che hanno però la durata dei temporali di maggio, che presto vengono e presto si dissipano. Si tratta di esuberanza, più che di prepotenza. Renzo non è privo di una naturale intelligenza e furbizia che lo aiutano nei momenti critici ma che forse non bastano quando si trova immerso nei problemi al di fuori del suo paesello, perso tra le mura della città. Renzo è incline a giudicare il prossimo con ottimismo, ma quando è sicuro di essere oggetto d'ingiustizie si ribella, mettendo in moto la sua scaltrezza. Contro il rivale, Don Rodrigo, si scaglia furiosamente, ma alla fine il suo equilibrio e la sua fede in Dio lo inducono a perdonare.
Lucia
Giovane donna, le cui caratteristiche, fisiche e morali, sono tra le meno appariscenti che ci sia dato attribuire ad un soggetto umano ed a un personaggio di romanzo. Lucia non è passiva come potrebbe sembrare, ella si oppone con tanta forza a tutto ciò che la sua coscienza nopn può approvare in modo attivo, agendo in una direzione sola, quella del bene, usando le armi della fede, della preghiera e del lavoro. Ragazza umile, del popolo, alla quale la modesta origine non impedisce di albergare nell'animo una nobiltà di sentimenti e di ideali a fare invidia a persone di più alta nascita e cultura, ella è conscia dei suoi doveri di donna e di cristiana, che una strana sorte ha portato in mezzo ad una serie di loschi intrighi, di terribili vicende. Sensibile al richiamo degli affetti e alla voce della nostalgia, preda della paura nei momenti più drammatici, non si abbandona mai alla disperazione, ma istintivamente trova dentro di sé le risorse per riacquistare l'equilibrio e la pace dello spirito.
Agnese
Tipo medio di donna in età, come è possibile trovarne nei paesi lombardi. Il suo carattere deciso e sbrigativo, unito ad un'esperienza di vita che forse ella sopravvaluta, la porta ad una sicurezza di giudizio che non sempre si rivela esatta; la sua sollecitudine e l'amore per la figlia Lucia, velati da un riserbo proprio delle persone abituate ad una vita semplice e ridotta ai valori essenziali, la sua facilità di parola e la sua spontaneità, costituiscono un marchio inconfondibile. Profilo vivo e veritiero, riesce subito simpatica per la sollecitudine con cui si dispone ad aiutare la figlia nel raggiungimento della sua felicità. Anche se, spinta da troppa sicurezza, è portata a vedere solo una faccia della realtà, il suo ottimismo la induce ad escogitare sempre nuove soluzioni per far trionfare la giustizia e il bene di Lucia.
Padre Cristoforo
Frate cappuccino del convento di Pescarenico, poco distante dal paese dei due promessi sposi, egli è la guida spirituale cui si affida Lucia. La sua indole ribelle, ma al tempo stesso generosa è già delineata fin da quando, non ancora frate, porta il nome di Lodovico. Abituato sin da giovane all'agiatezza e al lusso, cresce alimentando un'abituale fierezza che lo porta, come il padre, a scagliarsi contro l'ostilità del mondo aristocratico e vanesio, conducendo una guerra aperta contro i suoi rivali e schierandosi a fianco dei deboli che avessero subito da essi un sopruso. Questo suo atteggiamento lo porterà al famoso duello dal quale uscirà con la convinzione della sua vocazione. La figura del frate grandeggia, non come quella di un essere superiore, ma come quella di un uomo tra gli uomini, che ha vissuto le sue esperienze e ha formato il suo carattere proprio in mezzo al complicato mondo seicentesco. In lui, immagine viva e vera, si può vedere il simbolo dell'eterna lotta tra il bene e il male, tra forza materiale e forza spirituale che, sorretta da una fede senza confini, è destinata a trionfare. Quello che egli prima operava a servizio di una giustizia umana, ora opera a servizio di quella divina e proprio in questa continuità risiede la reale umanità del personaggio. L'ultima immagine che abbiamo di lui, con i segni della fine sul volto, è quella al lazzaretto, a servire i bisognosi come in tutta la sua vita.
Cardinal Federigo
All'epoca della vicenda è Arcivescovo di Milano e lo troviamo in visita al paese dell'Innominato nei giorni di Pentecoste. Uomo dotato di eccezionali risorse di volontà, intelligenza e zelo religioso, egli sa veramente applicare alla vita i principi della religione cattolica, offrendo sempre un valido esempio del bene operare. Modesto, frugale, umilissimo, deve lottare contro il suo stesso ambiente per affermare i suoi principi e dedica tutta la sua vita alla carità e allo studio, tanto da essere considerato uno degli uomini più dotti del secolo. La solennità del personaggio scaturisce dall'attesa del paese in festa, il suo valore dai colloqui, prima con l'Innominato, poi con Don Abbondio, la sua modestia e umiltà dall'incontro con Lucia, con la gente del paese e con i bambini. Lo ritroviamo, più tardi, ad aiutare la popolazione durante la carestia e la peste. A differenza degli altri "buoni" del romanzo, per i quali la bontà è una conquista, egli è libero umanamente da ogni debolezza, integro, grande, perfetto.
Innominato
L'Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Personaggio storicamente esistito nel quale l'autore fa svolgere un dramma spirituale che affonda le sue radice nei meandri dell'animo umano. L'Innominato, figura malvagia la cui malvagità più che ripugnanza forse incute rispetto, è il potente cui Don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia. In preda a una profonda crisi spirituale, l'Innominato scorge nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, incapace di vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione integrale. Durante la famosa notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'Innominato giunge al culmine, tanto da farlo pensare al suicidio, ma ecco che il pensiero di Dio e le parolo di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono.
Don Rodrigo
Signorotto invaghitosi di Lucia che, solo per capriccio, vuole avere per sé. Egli rappresenta l'espressione umana e il simbolo del suo secolo; non riveste una carica particolare, ma è uno dei tanti nobilotti dell'epoca, uno qualsiasi. Il suo carattere, per niente deciso e fermo, riflette passivamente e fedelmente le magagne e le ingiustizie sociali dell'epoca in cui è chiamato a vivere. Di lui non viene data una descrizione vera e propria, né fisica né morale, sebbene sia lui il responsabile di tutta la vicenda; noi lo conosciamo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il suo palazzo, i suoi servi e le sue azioni. Cattivo genio di tutta l'azione, sicuro che la sua posizione sociale e gli appoggi di persone influenti gli garantiscono l'impunità, conosce solo una legge, quella del più forte. Pur essendo malvagio, non ha il coraggio delle sue azioni, preoccupato dalle conseguenze che esse hanno. Dopo le minacce di Padre Cristoforo, probabilmente rinuncerebbe volentieri al piano malvagio, ma persevera solo per questione di puntiglio e orgoglio vedendosi costretto a ricorrere all'aiuto di chi è più malvagio di lui, di chi veramente sa fare il male, l'Innominato. Purtroppo la conversione di quest'ultimo capovolge la vicenda e Don Rodrigo sarà cpstretto ad andarsene, a nascondersi, fino a quando la peste non lo coglierà e lo condurrà alla morte nel lazzaretto di Milano.
Don Abbondio
Curato del paese di Renzo e Lucia, dovrebbe unirli in matrimonio ma, minacciato da Don Rodrigo, cerca di evitare a tutti i costi di celebrare le nozze e lo farà solo alla fine del romanzo, quando ogni pericolo sarà svanito. La vita di Don Abbondio si svolge tutta nell'orbita di Don Rodrigo e sotto l'influsso del suo principale difetto, la paura. La sua storia non è altro che la storia della sua paura e di tutte le manifestazioni attraverso le quali essa si rivela. Gretto, meschino, egoista fino all'impossibile, non è uomo cattivo, ma nemmeno buono; egli vive come in un limbo tormentato dalla paura; vede ostacoli e insidie anche dove non ci sono e l'angoscia e la preoccupazione di riuscire ad uscirne indenne lo rende incapace di prendere posizione tra il bene e il male. Anche quando, per un breve attimo, le parole del Cardinale, sembrano risvegliare in lui una luce, questa non riesce a giungere agli strati superiori della sua coscienza. Il suo carattere, oltre a creare vari spunti di comicità, non è privo di una certa grettezza che egli rivela per la soddisfazione dello scampato pericolo.
Gertrude
La monaca di Monza, che accoglie Lucia nella sua fuga dal paese natio per sfuggire a Don Rodrigo, è un personaggio che l'autore descrive ampiamente come se nel racconto della vita della donna egli cerchi in qualche modo di trovare una giustificazione al male da lei fatto e al male che ancora farà. La vocazione imposta e non scelta rende Gertrude donna infelice e soggetta a peccare ma allo stesso tempo in ogni suo gesto si ravvisa come un senso di colpevolezza che serpeggia in mezzo ai grovigli e alle passioni che agitano il suo spirito. E' proprio questo sordo conflitto tra abiezione e senso di colpa che danno al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità. Ella non ha ancora superato i problemi che aveva da bambina, problemi nati dal vedersi negare la vita cui era destinata per la sua indole e dal non essere stata capace di lottare per far valere i suoi desideri. L'invidia che provava da bambina per le sue compagne più fortunate di lei la prova ancora per chi, come Lucia, conduce una vita nel mondo a lei precluso e tale invidia la porta a compiangersi e a vendicarsi come può, usando la sua autorità e compiendo il male.
Alcuni personaggi secondari
• Tonio: Tonio è un contadino amico di Renzo, che con il fratello Gervaso prende parte al tentativo del matrimonio a sorpresa. Tipo estroso, accetta con entusiasmo la proposta di Renzo perché sa che in cambio potrà ricevere l’estinzione del debito che aveva con Don Abbondio. Lui fa parte, assieme al fratello Gervaso, di quel mondo secondario, formato da umili e sventurati.
• Griso: Il Griso è il capo dei bravi di Don Rodrigo al quale venivano affidate le imprese + rischiose e malvagie; è infatti il Griso a doversi incaricare del rapimento di Lucia. Si dimostra abile nel travestimento e quindi nel far credere ad Agnese che era un mendicante con lo scopo di studiare i dettagli del piano. Tutti gli altri bravi agiscono ad ogni suo comando, possiamo intuire la sua natura malvagia non solo dalla missione affidatagli ma anche dal modo losco e a tratti inquietante in cui Manzoni ce lo presenta.
• Menico: Menico è un giovane ragazzo di circa 12 anni che per via di alcuni cugini e cognati risultava nipote di Agnese. È ingenuo, anche a causa della sua giovane età, tuttavia mostra una certa vivacità mista di allegria. Menico compie la missione affidatagli da Agnese grazie anche ai soldi offerti dalla donna.
• Oste: L’oste è un personaggio che viene presentato nel capitolo 7 del quale non abbiamo nessun tipo di descrizione fisica. È un uomo vile che per alcuni tratti assomiglia a Don Abbondi, lui infatti quando viene interrogato da Renzo per farsi spiegare chi fossero i loschi forestieri, risponde per ben due volte che non li conosce e inoltre che il suo mestiere non gli permette di raccontare i fatti dei suoi clienti. In seguito, interrogato dai bravi, indica loro Renzo, Tonio e Gervaso indicandogli inoltre il loro lavoro e i tratti del loro carattere. Non riesce ad uscire dal cerchi del suo interesse privato, è intrigante, birbone e malizioso. L’oste si avvicina cosi alla maggior parte degli uomini e si schiera con quelli che avevano l’aspetto da birbanti.

domenica 3 novembre 1996
I promessi sposi
di Alessandro Manzoni

1) Riassumi brevemente il primo capitolo.
“Quel ramo del lago di Como...” il romanzo si apre con una bellissima descrizione dei luoghi in cui si ambientano le primi fasi della storia. L’autore ci offre una descrizione del lago, dei monti, del fiume Adda, della città di Lecco e dei paesini circostanti come se li vedesse dall’alto, in una ipotetica ripresa aerea.
All’idillio del paesaggio si contrappone però ben presto la dura situazione delle regioni sottomesse alla dominazione spagnola, in un excursus sulla presenza, a Lecco, di una guarnigione di soldati spagnoli, dei quali l’autore ci presenta, con la sua solita sottile ironia, il comportamento vessatorio nei confronti della popolazione. La dolcezza con la quale viene descritto il paesaggio iniziale e con la quale il Manzoni descrive anche le violenze dei soldati (“...sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia.”) stride, e crea un curioso effetto di ironica drammaticità.
La descrizione del paesaggio riprende, ma questa volta il punto d’osservazione non è più aereo, ma si trova sulle pendici dei monti circostanti, dove, per una delle innumerevoli stradine di campagna, sta passeggiando Don Abbondio.
La passeggiata di Don Abbondio prosegue tranquilla per un certo periodo di tempo, durante il quale l’autore ci fornisce già implicitamente un primo quadro psicologico del personaggio, deducibile dal suo modo di camminare, dagli avverbi che lo accompagnano (oziosamente, tranquillamente) e dall’emblematico gesto di scansare con il piede i ciottoli che gli si parano davanti, metafora del suo abitudinario e tranquillo modo di vita. Ad un certo punto, la passeggiata del curato deve interrompersi di botto, per lasciare spazio all’episodio fondamentale che è all’origine della storia. Don Abbondio, arrivato a un bivio della strada, incontra due bravi che intendono parlargli. In questo caso, tanto il bivio, tanto l’assenza di strade laterali che permettano al curato di aggirare i due loschi figuri, sono due figure emblematiche che rappresentano sia la svolta che il colloquio con quelli porterà nella vita di Don Abbondio, sia l’insorgere di un problema apparentemente insormontabile, dal quale scaturiranno tutti gli eventi successivi (ossia Renzo e Lucia vogliono sposarsi ma Don Rodrigo è fermamente deciso a impedirlo).
L’autore si sofferma sull’aspetto e l’abbigliamento dei bravi e cita le moltissime “gride”, ovvero disposizioni legali, emanate dai diversi governanti di Milano nel corso degli anni, al fine di estirpare il fenomeno della clientela dei bravi al servizio dei vari signorotti locali, commentandone ironicamente tra le righe, l’assoluta inefficacia.
Come Don Abbondio si accorge che i due bravi aspettano proprio lui e che non ha scampo, si avvicina loro fingendosi tranquillo. I due bravi gli sbarrano quindi la strada e gli intimano di non celebrare il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, e lo informano di essere stati mandati da Don Rodrigo, un potente signorotto del luogo.
Spaventato al nome di Don Rodrigo, Don Abbondio si dichiara più volte disposto all’obbedienza e i due bravi se ne vanno, lasciandolo sconvolto.
L’episodio dà spazio all’autore per una digressione sul clima di violenza che caratterizza il Ducato di Milano sotto la dominazione spagnola: i deboli sono costretti a subire le angherie dei potenti e non sono tutelati dalla Giustizia, che si limita a proferire gride su gride senza alcun effetto positivo. All’interno di questo duro quadro sociale, si inserisce Don Abbondio, e ci viene dunque fornita la spiegazione della sua vocazione a parroco: egli è infatti un uomo poco aggressivo e pacifico, che non avrebbe potuto resistere in una società violenta come quella dei territori sotto la dominazione Spagnola nel XVII secolo (“...come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro...”). Da qui dunque la sua decisione di inserirsi in una classe riverita e potente come quella ecclesiastica e di elaborare un sistema di totale neutralità o di schieramento con il più forte, come metodo di difesa dai pericoli del mondo esterno.
L’excursus sulla Giustizia e sulla vocazione di Don Abbondio termina, e lascia spazio alla narrazione che riprende con il soliloquio durante il quale Don Abbondio si interroga su cosa dire a Renzo, sulle sue possibili reazioni, e su che cosa avrebbe potuto dire ai bravi. Infine inveisce contro Don Rodrigo (non senza però aver dato prima la colpa ai “ragazzacci” che si mettono in capo di sposarsi per non saper che fare, mettendo in difficoltà i galantuomini).
Don Abbondio giunge infine stravolto a casa, dove, dopo vari tentennamenti, si confida alla sua serva, Perpetua, una donna popolana decisa, energica e un po’ pettegola. Perpetua gli consiglia di rivolgersi al vescovo di Milano, ma Don Abbondio, terrorizzato all’idea di ribellarsi a un potente, rifiuta il saggio consiglio e, infine, stremato, si ritira nella sua stanza.

2) Parla del personaggio di Don Abbondio (descrizione fisica e psicologica).
Il carattere di Don Abbondio, si intuisce chiaramente si dalla sua prima apparizione. Gli avverbi che lo accompagnano (oziosamente, tranquillamente) e il gesto emblematico dello scansare i ciottoli che gli si parano davanti, fanno subito pensare a quel tipo di uomo tranquillo, abitudinario, poco amante del nuovo che è Don Abbondio. Egli è il curato del paesino dove abitano Renzo e Lucia, ma la sua vocazione non è certamente scaturita dall’ardore della fede, ma dalla sua piena consapevolezza di essere un debole in una società di forti, un “...vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro...”, se vogliamo usare l’azzeccatissima similitudine del Manzoni. Le uniche ragioni per le quali Don Abbondio ha aderito al sacerdozio, sono l’opportunità di entrare a far parte di una classe, quella ecclesiastica, molto potente, che gli avrebbe potuto garantire un’adeguata protezione e quella di trovare un modo sicuro per condurre una vita abbastanza agiata. Tuttavia, come il Manzoni ci fa notare, “....una classe qualunque non protegge, non rassicura un individuo che fino a un certo segno...”, e Don Abbondio, per non essere schiacciato da una società violenta alla quale non era in grado di far fronte, ha dovuto anche elaborare un sistema di vita che gli avrebbe dovuto consentire di scansare quanto più è possibile i guai, e quindi un sistema di vita basato su di un atteggiamento di “...neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui...” ,o , quando questo non fosse stato possibile, su di una blanda alleanza con il più forte, in modo da garantirsi sempre la massima protezione e il minimo danno. Don Abbondio è fondamentalmente un uomo debole che cerca di evitare le ritorsioni dei forti con una obbedienza incondizionata a chi si dimostri tale. I continui atti di sottomissione richiesti dal suo sistema di vita, il suo continuo buttar giù bocconi amari in nome della tranquillità, lo rendono poi, di fronte ai deboli e agli oppressi, tanto forte e dispotico quanto arrendevole e docile davanti ai potenti. Che giudizio dare di Don Abbondio ? Difficile dirlo. Una figura che il Manzoni, pur con le dovute attenuanti, ci presenta come inevitabilmente negativa.
Daniele Biasci mercoledì 13 novembre 1996
I promessi sposi
di Alessandro Manzoni

1) Per quale motivo il narratore si sofferma a descrivere, nel caso dei bravi, il loro abbigliamento ?
L’autore ci fornisce, nel caso dei bravi, un’attenta e minuziosa ricostruzione della foggia degli abiti del Seicento. Questa descrizione gli permette di “storicizzare” il racconto, di collocarlo cioè maggiormente nel suo contesto storico attraverso la citazione di elementi che rendono più credibile la narrazione. Ma il vero intento del Manzoni nella sua minuziosa descrizione degli abiti è un altro. Il modo di vestire è un linguaggio, e comunica direttamente e più esplicitamente di quello verbale la funzione e le intenzioni di un personaggio. In questo caso, tutto l’abbigliamento dei Bravi trasuda violenza, ne è la materializzazione. Il corno della polvere attaccato al collo “come una collana” conferisce ai bravi un aspetto di ribalderia, gli aggettivi accrescitivi e dispregiativi che accompagnano le armi descritte (“spadone”, “coltellaccio”) le fanno sembrare ancora più minacciose, la loro lucentezza e efficienza fanno capire con quanta cura i bravi si occupino dei propri strumenti d’offesa. Ancora una volta, il Manzoni ci trasmette sensazioni e significati molto vivi, nascosti dietro elementi apparentemente banali del testo.

2) Ciascuna delle seguenti citazioni contiene una o più figure retoriche tra quelle sotto indicate. Identificale e scrivine la denominazione. Similitudine, metafora, reticenza, litote, antitesi.

- “...uomo avvertito... lei c’intende...”
Si tratta di una reticenza, una figura retorica che consente di rafforzare un concetto lasciandolo solo intuire.

- “Il nostro don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto di essere, in quella società, come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.”
Siamo davanti alla litote, che grazie alla negazione del contrario di un concetto, permette di esprimerlo con significato più blando (“...non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno...”). La similitudine che segue (introdotta da “come”) è usata per descrivere efficacemente la situazione di don Abbondio nella società del Seicento.

- “Le leggi, anzi, diluviavano.”
Si tratta di una metafora (erano abbondanti come se diluviassero)

- “Ma lor signori, son troppo giusti, troppo ragionevoli...”
Può trattarsi di un’antitesi, anche se il solo scopo di queste parole di don Abbondio è quello di ingraziarsi i due bravi. La figura retorica può tuttavia essere letta dal punto del Manzoni o del lettore, che notano il contrasto tra la violenza dei bravi e la gentilezza servile, quasi comica, delle parole di don Abbondio.

3) Descrivi il personaggio di Perpetua, spiegando con quale tattica riesca ad ottenere le confidenze di don Abbondio.
Il Personaggio di Perpetua è un personaggio straordinario, una donna schietta, popolana, pettegola e avventata, di indole brusca e dolce al tempo stesso. Perpetua costituisce il naturale completamento di don Abbondio, la sua antitesi per eccellenza. Lui timoroso e riservato, lei energica e ficcanaso, più che due individui diversi sembrano costituire le due facce di un unico personaggio. La descrizione che ce ne dà il Manzoni è viva, velatamente ironica, e ne traspare una donna burbera ma affezionata al suo padrone. Che tipo di rapporto ci sia tra i due, ci è indicato dalla tattica che Perpetua, curiosa per natura, utilizza nei confronti di don Abbondio per strappargli le sue confidenze dopo l’incontro del curato con i bravi. Semplice ma forte, la strategia di Perpetua si basa sia sulla profonda conoscenza che ha dei comportamenti e degli argomenti che possono far leva su don Abbondio, sia su una dolce ma ferma insistenza. Inoltre, appare chiaro tanto a lei quanto al lettore che don Abbondio, reduce dall’incontro con i bravi, non desidera altro che confidarsi con qualcuno, per non dover sopportare da solo il peso dell’evento (“...ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: «Perpetua ! Perpetua !»...”). La schietta autorità di Perpetua non stenta troppo a forzare l’animo ansioso di raccontare di don Abbondio e, con qualche gesto simbolico (“...disse Perpetua empiendo il bicchiere e tenendolo in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare...”) e teatrale (“...Perpetua, ritta davanti a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi...”) e numerose solenni formule di giuramento circa la sua assoluta riservatezza, ottiene il racconto completo della disavventura di don Abbondio.

4) Dopo aver rintracciato sul testo le seguenti espressioni, spiegane il significato letterale e metaforico.

- “Forza legale e forza reale”
(cap. I rig. 250 - 258)
I due termini stanno in netta contrapposizione fra di loro. Per forza legale, infatti, si intende la forza della legge e della giustizia pubblica, quella che dovrebbe difendere il debole dall’oppressore, e per forza reale invece, la potenza che i signori locali esercitavano sulla popolazione, in contrasto con la forza legale, per mezzo dei piccoli eserciti di bravi che erano loro a disposizione.

- “Le leggi, anzi, diluviavano.”
(cap. I rig. 239)
Questa metafora ci comunica, in tutta la sua drammaticità, l’inefficacia delle gride emesse dai governatori spagnoli. Poiché il valore delle disposizioni della macchina burocratica spagnola era pressoché nullo, i governanti cercavano di supperire a questa carenza aumentando a dismisura il numero dei provvedimenti. Ne conseguiva che le leggi “diluviavano”, numerosissime ma impotenti come gocce di pioggia.

- “Era quindi ben naturale che costoro vendessero la loro inazione o anche la loro connivenza ai potenti.”
(cap. I rig. 278 - 279)
L’affermazione si riferisce agli uomini della giustizia, gli sbirri, che, essendo disprezzati peggio dei delinquenti e tenendone veramente lo stesso comportamento, era naturale che si alleassero per denaro con gli stessi signori, il cui potere erano destinati a contrastare (da qui poi l’impotenza della forza legale contro la forza reale, vedi frase 1).

- “Questo chiamava un comprarsi gli impicci a contanti.”
(cap. I rig. 337)
Questa frase, riferita a don Abbondio, ci mostra una delle sue massime di vita: stare il più possibile lontano dai guai. “comprarsi gli impicci a contanti” significa infatti trovarsi noie con facilità, ed è riferita al comportamento di certi suoi colleghi curati che, facendo il loro dovere di uomini di chiesa, difendevano i deboli contro lo strapotere dei signori. Questa espressione popolare, insieme a quella successiva (“...voler raddrizzar le gambe ai cani...” per indicare una cosa impossibile) serve a riferire direttamente i pensieri, non certo elevati, del curato.

Sforacchi Andrea CL. 2 24/11/00

PRESENTA DON ABBONDIO IN BASE AGLI ELEMENTI EMERSI NEL PRIMO CAPITOLO

Don Abbondio è, secondo alcuni critici, il personaggio più popolare dei "Promessi Sposi" ed è la figura in cui il Manzoni ha mostrato tutte le sue capacità comiche e ritrattistiche.
Don Abbondio, approssimativamente, (avendo tra il 1628 e il 1630, un'età maggiore ai 60 anni), è nato poco prima del 1570 da una modesta famiglia che lo ha costretto, come si faceva spesso a quei tempi, a diventare sacerdote: quindi lui ha assunto quest'importante ministero solamente perché lo riteneva il più sicuro e il più protetto da tutti quei soprusi e quelle ingiustizie che caratterizzavano tale periodo storico, ma senza essere realmente consapevole della sua missione.
Negli anni nei quali è ambientato il romanzo, don Abbondio è parroco di un paesino affacciato sul lago di Como.
Tutta la sua personalità, il suo carattere e i suoi atteggiamenti sono dominati dal sentimento della paura che, unita all'attaccamento alla vita, lo rende egoista.
Davanti ad ogni avvenimento sgradevole ricorre alla politica di dissimulazione e fa lo stonato, l'attonito e il trasognato come ci testimoniano queste righe: "Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito ad un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo [....]"
Don Abbondio ha paura di tutto e di tutti: è un uomo angusto, soggiogato dal terrore e dal sospetto, vive schiavo delle minuzie della vita; privo di volontà "il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti e nel cedere in quelli che non poteva scansare[...], neutrale, cede a tutti dopo breve insistenza come nella riga 224: " se la cosa dipendesse da me...vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca[...]".
E' incapace di natura a compiere il male "senza artigli e senza zanne", per viltà si fa complice e strumento dei violenti "vaso di terracotta fra tanti vasi di ferro", è privo di cultura, attaccato al denaro e diffidente da tutti.
Don Abbondio come tutti i meschini non se la prende con gli oppressori e i prepotenti ma contro chi tenta di opporsi ad essi e pertanto, " se si trovava assolutamente costretto a prender parte fra due contendenti, stava col più forte [...]".
Il valore altrui è un irritante scomodo per lui e quindi il nemico ideale di Don Abbondio è l'uomo di coraggio.
Concludendo, don Abbondio, se a prima vista può apparire un personaggio semplice, è invece profondamente complesso: perché da una mentalità chiusa, il Manzoni ha voluto ritrarre una serie infinita d'atteggiamenti e di colori.

Esempio



  


  1. nonnnolino

    aiutoo mi serve la parte don abbondio e i bravi