Guido Gozzano

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Testo

Il periodo compreso tra l’ultimo decennio dell’800 e gli anni precedenti la prima guerra mondiale, è caratterizzato da una violenta reazione al Positivismo: questo aveva celebrato la fede nella scienza, nel progresso sociale, nella pacifica collaborazione fra i popoli, ma la realtà, fatta di guerre, imperialismi, lotte di classe, era ben diversa da quanto si era sperato. Tale situazione determina nuovi atteggiamenti spirituali: subentra la disillusione, l’angoscia, la sensazione del vuoto e del nulla; in arte si reagisce con la rottura dei moduli naturalistici.
Distrutti i vecchi schemi della cultura positivistica, rinnegati i miti consolatori dell’800, immerso in un mondo sfiduciato nelle prospettive della scienza e della vita politica e sociale, posto di fronte all’ascesa vertiginosa della borghesia capitalistica che impone un modello di società tutto basato sulla logica del capitale e del profitto come unici valori, l’uomo di cultura (europeo) del primo ‘900 vive una profonda crisi d’identità, avverte chiaramente la fine di un’epoca e l’avvento di una nuova e prende coscienza della perdita del suo tradizionale ruolo sociale che era quello del “praeceptor”, del “creatore di valori”. Egli generalmente, al contrario di quanto avveniva nel secolo precedente, proviene dai ceti medi borghesi, una classe sociale che vede compiere il suo declassamento schiacciata com’è tra la forza indiscussa della grande borghesia finanziario-industriale e le emergenti forze del proletariato. Emarginata da questi due colossali protagonisti, la piccola e media borghesia, e con essa l’intellettuale, si sente frustrata, indebolita, disorientata ed, incapace di farsi classe egemone come aspira, si vede ridotta a classe subalterna e strumentale. In questa situazione di inferiorità per gli scrittori scrivere diviene un lavoro come un altro per procurarsi da vivere. In tal modo poeti e scrittori si sentono semplici lavoratori, uomini tra gli uomini, “poveri mortali” come tutti gli altri. Nasce da ciò una situazione di disagio, di noia esistenziale, di malcontento, di provocazione.
La coscienza del disagio esistenziale, del “male di vivere” che travaglia l’uomo contemporaneo è presente in gran parte della poesia e della narrativa dei primi del ‘900.
Lo scrittore avverte con angoscia che sta per compiersi la frattura definitiva, iniziata nell’Ottocento, tra io e mondo, tra artista e realtà e si sente “spersonalizzato”, “disumanizzato”, “disintelligenziato”. Oramai “i tempi sono cambiati”, come dice Palazzeschi, e gli uomini “non domandano più nulla ai poeti”, a quei poeti che altro non sono che “articoli di non prima necessità”, come afferma Gozzano.
Siamo in pieno Decadentismo, periodo che vede un uomo incerto e stanco, sconfitto sul piano politico nella sua libertà e frastornato dalle voci della guerra, che cerca dentro di sé, in un ripiegamento introspettivo, nuovi mondi in cui credere. La faticosa autoanalisi dell’uomo moderno è accompagnata dalla coscienza di quanto sia amaro far parte della storia in un mondo che cerca la propria grandezza nel sopruso, in violenti imperialismi e nazionalismi prevaricatori.
La risposta degli uomini di cultura alla profonda crisi esistenziale, morale e culturale che investe la coscienza dell’uomo agli albori del Novecento e alla crisi che travolge l’intellettuale tradizionale approda a soluzioni diverse e spesso contraddittorie.
Alcuni scrittori si impegnano in una inquieta e tormentosa analisi della malattia dell’uomo moderno nella civiltà industriale e borghese che essi condannano in maniera corrosiva e impietosa. Nelle loro opere questi scrittori parlano di malattia, di eroe in tensione, di inettitudine, di universo labirintico; e ancora di uomo senza qualità, di uomo spersonato nel male del tempo, di male di vivere. Escono dalle loro opere personaggi incapaci di agire, di darsi una consistenza, tesi a smontare la storia dei loro fallimenti e della loro coscienza frantumata. Tali personaggi lottano invano contro i pregiudizi e la morale borghese, contro la città che massifica l’uomo; essi individuano chiaramente i meccanismi alienanti e ripetitivi dell’inferno tecnologico che riduce l’uomo a semplice manovella, rovesciando così i miti imperialistici della macchina in “malattia industriale”. Ma questi personaggi non riescono a configurare pienamente un “uomo nuovo” veramente alternativo; la loro protesta tende a risolversi in se stessa, in una dolente quanto amara impotenza.
L’Italia era stata anch’essa coinvolta dalla crisi di valori che caratterizzò l’intera Europa agli inizi del ‘900; ma la penetrazione della cultura e soprattutto della letteratura decadente, era stata rallentata nel paese dalla persistenza della tradizione aulica. Alcune spie di una nuova sensibilità erano già ravvisabili negli intellettuali futuristi, i quali tendono a risolvere la crisi storica e dell’intellettuale, che pure essi avvertono, in uno sfrenato attivismo, in un’esaltazione incondizionata della civiltà industriale, in una celebrazione della religione della macchina e della velocità. Essi, quindi, come risposta-reazione alla profonda crisi esistenziale, sia morale che culturale, che li travolse agli albori del’900, tesero a liquidare un certo vecchiume culturale, a credere nella positività della rivoluzione industriale e ad esaltare incondizionatamente la civiltà industriale, la macchina, la velocità e la guerra, sentita come azzeramento totale per una nuova ricostruzione, poiché dopo la necessaria distruzione si profetizzava un nuovo mondo guidato da una generazione giovane, forte, vigorosa.
Altri intellettuali e letterati, ossia i Crepuscolari, cercano di risolvere la crisi fuggendo la città, in un impossibile ritorno alla provincia, alla semplicità, all’innocenza ingenua degli affetti sani della campagna o alle “buone cose di pessimo gusto” del tempo passato. Sarà, però, un tentativo tutto programmato e spesso intellettualmente voluto, a cui gli stessi Crepuscolari, in ultima istanza, non crederanno.
La corrente culturale del Crepuscolarismo aveva, quindi, già avvertito, anche se in sordina, la crisi del secolo romantico di fronte ad un mondo sempre più movimentato, a un’Europa sempre più aperta grazie al lungo periodo di pace ed alle Esposizioni Universali che, oltre all’economia, favorivano lo scambio delle idee.
Guido Gozzano è il poeta di maggior spicco e l’interprete più originale della poesia crepuscolare. Dopo un esordio dannunziano, Gozzano si stacca decisamente dal maestro dietro sollecitanti letture di testi simbolisti. D’Annunzio in quegli anni portava ancora avanti la figura del “poeta – vate”, produttore di cultura e guida spirituale, del poeta che pretende di essere la voce del proprio tempo e l’interprete delle esigenze di un popolo, elaborando valori, modelli culturali, paradigmi ideologici. Gozzano invece, e con lui gli altri crepuscolari, si accorge che i tempi sono cambiati, che le certezze della ragione e della scienza sono venute meno, né possono essere sostituite dal culto, inautentico, della “Vita inimitabile” e dei miti ottocenteschi. Si accorge che l’intellettuale, nell’epoca dell’imperialismo trionfante, è schiacciato tra la grande borghesia industriale e le nuove forze sociali del proletariato, ed ha ormai perso il suo ruolo di guida morale e spirituale. Nella nuova realtà il poeta è una figura superata dalla storia, da sottoporre a corrosione critica, a dissacrazione impietosa. L’ironia in Guido Gozzano, si trasforma in coscienza problematica dell’uomo moderno, solo, deluso, sfiduciato in un mondo sospeso tra il ”non essere più” e il “non essere ancora”, oscillante tra le cose che potevano essere e non sono state; un uomo sospeso in una condizione limbale tra un Ottocento che tarda a morire e un Novecento che fatica a nascere, quasi un bruco che non sa divenire crisalide.
E Gozzano esprime la sua delusione di letterato, definendo il poeta un “gianduia”, fino a vergognarsi di “essere un poeta” e rifiutare “la vita sterile del sogno”. La polemica sulla letteratura, sul nuovo modo di essere poeta e di poetare segnano la fine di un’età della cultura, l’esaurirsi di tutta una civiltà delle lettere.
La corrosione polemica contro la letteratura e il “poeta-vate” è rivolta da Gozzano, e qui sta la novità che lo differenzia dagli altri crepuscolari, non solo verso la tradizione letteraria e i suoi interpreti, ma anche verso i temi della propria poesia e, particolarmente, verso se stesso quale personaggio della sua opera. Gli strumenti di questa polemica sono l’ironia, l’atteggiamento critico, il gusto del commento, il prendere le distanze dalla propria materia. Ecco allora che gli oggetti tipici della tematica crepuscolare (topaie, materassi, vasellame, / lucerne, ceste, mobili) sono consapevolmente e lucidamente definiti “ciarpame / reietto, così caro alla mia Musa!” In “Totò Merùmeni” una sottile ironia investe il letterato, la sua tematica e i suoi atteggiamenti comportamentali; ma questa ironia è autoironia, in quanto Totò è la maschera di Gozzano stesso. Attraverso questa maschera, che gli consente il distanziamento critico e ironico, il poeta filtra la polemica ambivalente sia contro la tradizione letteraria che nella mitologia dannunziana aveva un polo di riferimento, fascinoso e nello stesso tempo respinto, sia verso i temi della propria poesia, a cui sentimentalmente Gozzano fatica ad aderire, sia infine verso se stesso come personaggio della propria opera e della propria avventura intellettuale.
Il “veleno” dannunziano, il “sogno di Sperelli”, che, “troppo l'illuse”, rimane una costante della psicologia e del temperamento dello scrittore e, con esso, della generazione crepuscolare. Totò Merúmeni ci appare come l'antieroe, non schematicamente opposto all'eroe dannunziano o estetista in genere, ma problematico perché fatto di attrazione e repulsione verso quel mondo. Infatti Totò, filtrato dalla consapevolezza ironica, mentre dissolve i sogni di “Vita inimitabile" (“Vita” con la V maiuscola) iniettati dal dannunzianesimo, non riesce a sfuggire all'aridità degli affetti, al freddo intellettualismo del ragionatore «sofista». Nelle rovine di un mondo sognato e mai raggiunto Totò non trova che la dimensione consolatoria della scrittura, atto liberatorio in negativo di una coscienza alienata e racchiusa fra le uniche date significative della sua vita: nascita e morte.
Il costante atteggiamento ambiguo e autoironico dell’ispirazione consente al poeta di non identificarsi, come invece succede negli altri crepuscolari, con l'oggetto della rappresentazione; a volte allontana questo oggetto nel tempo e nello spazio, a volte cerca di non prendere troppo sul serio quanto afferma. Alla signorina Felicita confessa: “Mi piaci. Mi faresti più felice / d'un'intellettuale gemebonda... Ed io non voglio più essere io! / Non più l'esteta gelido, il sofista, / ma vivere nel tuo borgo natio, / ma vivere alla piccola conquista / mercanteggiando placido, in oblio / come tuo padre, come il farmacista...” Ma l'inserimento in quel buon mondo provinciale è solo un momentaneo vagheggiamento: “Quello che fingo d'essere e non sono”. All'esteta e al sofista che ha letto Nietzsche, Gozzano contrappone il “borghese buono”, il “buon giovane sentimentale romantico”, all'”intellettuale gemebonda” contrappone la signorina Felicita con la sua dimessa “faccia buona e casalinga”; ma la consapevolezza del cattivo gusto di quelle buone cose e di quel buon mondo, la vigile disposizione ironica impediscono una vera adesione affettiva a questa nuova realtà. L'ironia si trasforma in coscienza problematica dell'uomo moderno, solo, deluso, sfiduciato in un mondo sospeso tra il « non essere più » e il « non essere ancora », oscillante tra le cose che potevano essere e non sono state; un uomo sospeso in una condizione limbale tra un Ottocento che tarda a morire e un Novecento che fatica a nascere, quasi un bruco che non sa divenire crisalide: “non amo che le rose / che non colsi”.
Una costante di Gozzano è allontanare nello spazio e nel tempo gli oggetti e materiali della sua lettura del reale. Nel componimento “L’amica di nonna Speranza” tratto da “I Colloqui” l'occasione per la rappresentazione di un mondo passato è offerta al poeta da una fotografia con dedica ritrovata in un vecchio album di famiglia; la fotografia porta la data “ventotto di giugno del mille ottocentocinquanta”, quando la nonna Speranza e l’amica Carlotta avevano appena diciassette anni. Alla regressione temporale, si accompagna l'allontanamento spaziale nell'intimo del salotto borghese di provincia, ricostruito dal poeta nelle sue suppellettili, nei suoi arredi, nei suoi abbigliamenti, ma anche nei suoi “conversari”, nei suoi gusti letterari, politici, musicali. Nel giardino, di fronte al lago, le collegiali Speranza e Carlotta parlano d’amore sfogliando margherite “per sortilegio sui teneri versi del Prati”, poeta romantico allora di moda.
Nei confronti del mondo rievocato, di quel mondo di “buone cose di pessimo gusto”, Gozzano fa scattare un'affettuosa, divertita ironia. Il poeta, infatti, è troppo disincantato, “chiaroveggente”, come dirà di se stesso, per lasciarsi trascinare e coinvolgere nel gioco della semplice evocazione di oggetti, d’ambienti, di personaggi affioranti dal passato, o per dare la propria adesione sentimentale a quel pur caro mondo di memorie che riaffiorano alla fantasia. L'orizzonte fantastico-evocativo, stimolato dalla foto di Carlotta, trova un approdo finale nella labilità di quell’ingiallito cartone, emblema amaro della vanità dei sogni e dell’inutile evasione in un mondo di memorie accarezzate, ma fatalmente naufragate. L’unica donna che il poeta avrebbe voluto amare è quella della foto, cioè una donna che non esiste più.
La problematicità tematica, il contrasto tra un mondo di cose evocate e ripudiate, amate e derise, trovano conferma nel linguaggio, soprattutto nell'utilizzo frequente dell'aggettivo antitetico: “buone cose di pessimo gusto”, “dolci bruttissimi versi”; Carlotta, nome “non fine ma dolce”; così “goffe ed aggraziate”, così “snelle e tozze” ad un tempo, ecc. Frequente ancora il contrasto tra un lessico banale, sciatto, quotidiano, tipico dell'armamentario crepuscolare (stoviglie, biciclette, rotaie del tram, the, caffè, ecc.), e un lessico aulico, frutto del “veleno” dannunziano assorbito da Gozzano giovane (peplo, rebescare, cornucopia, armillo, ecc.).
Interessante è l'uso del “dialogo” nel testo poetico (“Avvocato, non parla: che cos'ha?”), che diviene una strumentazione espressiva di contrasto e di straniamento tra messaggio poetico ed autore, onde evitare ogni adesione sentimentale o retorica.
La rima è spesso usata contrapponendo parole di diverso livello stilistico e con funzione dissacrante ed ironica: divino/intestino, lusinga/casalinga/fiamminga, Yacht/cocotte, ecc.
Insomma tutta la strumentazione espressiva è da Gozzano giocata su un sapiente dosaggio di prosaico e di sublime, di aulico e di banale; il tutto controllato dalla sottile e vigile ironia che non si smentisce neppure quando il poeta definisce il suo modo di fare poesia: “lo stile di uno scolare / corretto un po' da una serva”.

GUIDO GOZZANO

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