Seneca

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Testo

Seneca
Vita
Lucio Annèo Seneca nacque in Spagna, a Cordova, probabilmente nel 4 a.C.; figlio di una ricca famiglia equestre, fu presto mandato a Roma ad apprendere le arti retoriche per la carriera politica, e nel 26 d.C. fece un viaggio in Egitto al seguito di un suo zio prefetto.
Tornato nel 31 si inserì nella vita politica romana, ed ebbe così tanto successo che l’imperatore Caligola lo fece condannare a morte invidioso della sua fama retorica (venne poi salvato da un’amante dell’imperatore); non si salvò però dall’esilio che l’imperatore Claudio gli comminò per il coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livella (sorella di Caligola). Restò nella selvaggia Corsica fino al 49, quando Agrippina convinse l’imperatore Claudio a fare tornare Seneca a Roma, per poi farlo diventare tutore del suo figlio di primo letto (il futuro imperatore Nerone). Seneca accompagnò l’ascesa di Nerone al trono, e in quegli anni diresse di fatto il governo (questo è il cosiddetto buon governo di Nerone, nei primi anni del suo impero), ma si distaccò da esso nella sua fase discendente (con il matricidio). Nerone, sospettoso di Seneca, lo fece condannare a morte nel 65 d.C. per la “congiura di Pisone”, di cui poteva sapere qualcosa, ma di cui sicuramente non faceva parte. Seneca invece si suicidò (come raccontato da Tacito) nello stesso 65 d.C.
Opere
Della vasta produzione letteraria di Seneca le opere che occupano maggior spazio sono quelle di carattere filosofico, raccolte postume nei Dialogi: questa opera è formata da 12 libri e tratta questioni etiche e psicologiche.
Di carattere più scientifico sono i 7 libri del Naturales Questiones; abbiamo inoltre 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco, e il Ludus de morte Plaudii (o Apokolokyintosis) che parla della singolare apoteosi dell’imperatore.
Diverse anche le opere perdute, sia di carattere filosofico, sia di carattere scientifico, geografico, etnologico.

Pensiero Filosofico
La filosofia di Seneca unisce elementi pitagorici e cinici, provenienti dalla sua prima educazione, dando grande importanza all'esame di coscienza quotidiano e alle scienze naturali.
Anche nelle tragedie vengono rappresentati caratteri estremamente negativi, forse a significare proprio che "senza retta ratio e filosofia non esiste via di scampo".
Per inquadrare il pensiero di Seneca bisogna ricordare, che essendo figlio di un importante retore, era destinato ad una carriera politica di prim'ordine.
Furono però i casi della vita (malattia, esilio, ruolo di educatore e di consigliere) che accentuarono nella sua filosofia il carattere etico con il quale trattò tutti i temi fondamentali: passioni, rapporto tra uomo e tempo, libertà, incoerenza della schiavitù, felicità, politica, morte, autarkeia. Dal canto suo Seneca aggiunse uno spiccato interesse per la natura ed i suoi fenomeni. Molte furono le filosofie che ispirarono il pensiero di Seneca nella sua vita, le principali furono quella stoica, epicureista e platonica.
Seguendo la filosofia STOICA Seneca:
• sostiene che ci si possa gradatamente avvicinare alla perfezione del saggio controllando e superando la propria ira (vedi “De Ira”).
• è convinto che al raggiungimento della felicità non nuocciano i vantaggi esterni (salute, bellezza, ricchezza), che sono irrilevanti per la vera felicità ma sono comunque preferibili ai loro contrari. (Vedi “De Vita Beata”)
• ha una visione del saggio libero da ogni condizionamento esterno ed è capace di considerare le difficoltà della vita come puri esercizi alla virtù, le quali sono date all’umanità per volontà divina provvidenziale. (Vedi “De Providentia”)
• il saggio non può essere toccato da alcun danno ne da alcuna offesa: l’imperturbabilità presuppone l’assoluta autosufficienza (autarkeia) (Vedi “De Costantia Sapientis”)
• desiderio contrastane di praticare l’otium e il negotium (Vedi “De Tranquillitate Animi” “Epistulae” e il “De Otio”)
In comune con l'EPICUREISMO notiamo invece:
• l'invito a non temere la morte (Vedi “Epistulae”).
• la concezione del tempo e l'invito a vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo (Vedi “De Brevitate Vitae”).
Seneca è però anche influenzato dal PLATONISMO:
• l'elogio dalla conoscenza pura
• la filosofia come iniziazione che porta l'uomo dalle tenebre dell'ignoranza alla luce della conoscenza distinguendolo dall'animale
• la filosofia come mezzo per raggiungere un distacco dalla quotidianità (Vedi “Epistulae”)
il progetto di un principato filosoficamente orientato (Vedi “De Clementia”).

I Dialogi
Una delle poche opere databili, e quindi riferibili ad un avvenimento della vita di Seneca, è la Consolatio ad Marciam;in quest’opera l’autore consola Marzia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, per la morte del figlio trattando questioni filosofiche quali la fugacità del tempo, la precarietà della vita e la morte come destino dell’uomo (temi attorno ai quali ruoterà la filosofia di Seneca); nello stesso genere della consolazione vi sono altre due opere: Ad Helviam Matrem in cui Seneca rassicura la madre e sottolinea alcuni aspetti positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo; poi c’è Ad Polybium in cui consola un potente liberto di Claudio per la morte del fratello ( per questa opera Seneca fu accusato di opportunismo).
Le singole opere dei Dialogi formano ognuno delle trattazioni filosofiche su specifici argomenti, come ad esempio i tre libri del De ira in cui Seneca tratta delle passioni umane, analizzando i meccanismi di origine e i modi per inibirle e dominarle (tutto secondo la filosofia stoica in cui si può inserire Seneca).
Quest’opera è dedicata al fratello Novatio, a cui dedicherà anche il De vita beata che tratta della felicità e di quanto la ricchezza può influire nel perseguirla. Con quest’opera Seneca vuole fronteggiare alle accuse di incoerenza tra quello che scriveva e la sua condotta di vita (Seneca accumulò un’immensa ricchezza grazie alla posizione occupata a corte e anche grazie all’usura). Secondo Seneca quindi la felicità non si ha tramite le ricchezze e i piaceri, ma nella ricchezza della virtù, e questo è il compito dell’uomo saggio.
Il superiore distacco del saggio dalle contingenze terrene si può notare anche nella trilogia dedicata all’amico Sereno: il De constantia sapientis, De otio e il De tranquillitate animi, in cui Seneca abbandona il pensiero epicureo per avvicinarsi a quello stoico. Nel De constantia sapientis Seneca esalta l’imperturbabilità e la fermezza del saggio di fronte alle avversità; nel De tranquillitate animi Seneca parla della via di mezzo che deve intraprendere il saggio tra l’otium contemplativo e l’impegno sociale proprio del civis romano, inserendosi così nella politica sociale: l’obiettivo del saggio è sempre quello della serenità d’animo, ma con essa egli deve essere di esempio agli altri. Ma se nel De tranquillitate animi ancora vi sono dei dubbi su quale via intraprendere, nel De otio Seneca sceglie nettamente la via dell’ozio contemplativo, in quanto il saggio è impossibilitato dalla critica situazione politica, che gli impedisce di essere esempio per gli altri, e che non fa restare al saggio alcuna alternativa tranne il ritirarsi nella meditazione privata.
Tra il 49 e il 52 si colloca un’altra opera di Seneca: il De brevitate vitae. In questa opera Seneca parla della fugacità del tempo e della vita che appare troppo breve perché l’uomo non riesce ad afferrarne l’essenza ma la disperde in futili occupazioni.
Agli ultimi anni dovrebbe corrispondere il De providentia,dedicata a Lucilio,in cui Seneca parla del disegno provvidenziale che regola le vicende umane che premia i malvagi e punisce gli onesti. Secondo Seneca tutto questo rientra nel progetto del logos, che vuole mettere alla prova il sapiens stoico per esercitarne la virtù.

Filosofia e potere
Dedicati a Lucilio sono anche i Naturalium questionium libri VII, che è l’unica opera scientifica di Seneca rimastaci. In questa opera Seneca analizza alcuni fenomeni celesti e terrestri quali i terremoti, i temporali, le comete, il che è il frutto di una vasta osservazione durata forse anni. Con questa opera Seneca forse intendeva dare un supporto scientifico al suo sistema filosofico.
Un’altra opera di Seneca tramandata separatamente dai Dialogi sono i sette libri del De Beneficis. L’opera analizza la natura e le modalità degli atti di beneficenza, i doveri morali del beneficiato e le conseguenze morali degli ingrati. L’opera sembra trasferire sul piano morale il progetto di una società equilibrata e concorde, che Seneca aveva fondato sull’utopia di una monarchia illuminata.
L’opera in cui Seneca ha esposto più ampiamente la sua concezione del potere è il De Clementia.
In questa opera, dedicata al giovane imperatore Nerone, quasi come un programma politico, egli non mette in discussione la legittimità del principato, anche se in quel periodo stava assumendo aspetti monarchici, in quanto essa andava bene con la concezione di un logos universale che regola le vicende umane, ma il problema è quello di avere un buon sovrano: in un regime di potere assoluto, l’unico freno ad esso è la sua coscienza che lo dovrà trattenere dal guidare lo stato in modo tirannico.
La clementia quindi è la virtù che dovrà avere il sovrano per governare i suoi sudditi: solo grazie ad essa egli potrà ottenere da loro consenso e dedizione, che assicurano la stabilità dello stato.
In uno stato che si affida alla coscienza del princeps, un ruolo essenziale assume la filosofia che deve formare la coscienza personale del princeps. Seneca si impegnò a fondo sotto questo punto di vista, proponendo un stato con un princeps moderato e un Senato salvaguardato della sua libertà e aristocrazia; in questo stato equilibrato un ruolo importantissimo assume la filosofia che deve educare l’elitè politica.

Le Epistole a Lucilio
Se è vero che non vi sono tante differenze tra l’otium meditativo e l’impegno civile, è anche vero che dopo il suo ritiro dalla politica Seneca si muove soprattutto nell’ambito della coscienza individuale.
L’opera principale di questo periodo e la più famosa in assoluto sono le Epistole ad Lucilium.
Ancora oggi si discute se queste lettere sono ad un amico fittizio o reale, in quanto sono possibili tutte e due le opzioni: vi sono alcune lettere lunghe quanto trattati, mentre ce ne sono altre come risposta alla lettera dell’amico.
Seneca è ben cosciente di inserire nella cultura romana un nuovo genere letterario quale quello epistolare, riprendendo un po’ Platone, ma soprattutto Epicuro. Le lettere di Seneca sono uno strumento di accrescimento morale attraverso cui si può arrivare alla sapientia; inoltre non hanno la forma di un insegnamento dottrinale, ma, grazie alla lettera, vi è un colloquium più intimo tra chi si scrive e gli insegnamenti sono più diretti.
Proprio grazie al suo avvicinarsi alla realtà la lettera è lo strumento ideale per la pratica quotidiana della filosofia. Seneca infatti tratta nelle sue lettere ogni giorno un tema diverso, cominciando da un tema semplice e immediato, fino ad arrivare alle ultime lettere che assomigliano più ad un trattato filosofico; questa forma di scrittura è presa dalla scuola epicurea che diceva che alla sapientia si arrivava dopo graduali momenti.
Queste lettere però non sono solo delle dimostrazioni di verità filosofiche, ma esortano al bene.
Gli argomenti delle lettere, che sono presi dalla vita quotidiana, sono generalmente ricondotti alle tematiche della tradizione diatribica: essi infatti vertono sull’indifferenza del saggio nei confronti della seduzione mondana, sulla sua indipendenza e autosufficienza, e proponendo una vita dedicata alla meditazione e al perfezionamento interiore attraverso una profonda riflessione sulle debolezze e i vizi propri ed altrui.
Seneca nelle sue lettere parla anche della condizione degli schiavi, assumendo toni di pietà altissimi, quasi ad avvicinarsi al cristianesimo; c’è però da dire che l’etica di Seneca è profondamente aristocratica, come si può vedere dal disprezzo delle masse popolari abbrutite dagli spettacoli del circo.
Il distacco dal mondo e dalle sue passioni accresce pari a quello dell’esaltazione dell’otium, otium visto non come inerzia, ma continua ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici, ma a tutti attraverso le Epistole.
La conquista della libertà interiore è quindi l’obiettivo che il saggio si deve porre, a cui si accompagna la meditazione quotidiana della morte, a cui si deve guardare con serenità perché è il simbolo dell’indipendenza dell’uomo dal mondo.

Lo stile drammatico
Seneca rifiuta la compatta architettura neoclassica ciceroniana che, nella sua disposizione ipotattica, organizzava la gerarchia logica interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, frantumando l’impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all’antitesi e alla ripetizione.
Seneca usa questo suo stile aguzzo per penetrare ed esplorare i segreti dell’animo umano e le contradizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortarli al bene.

Le tragedie
Le tragedie attribuite con certezza a Seneca sono nove (anche se qualche dubbio sussiste per l’Hercules Oetaeus), tutte di soggetto mitologico greco. Non sappiamo nulla di queste, sulla loro rappresentazione, sulla data di composizione, e quindi vengono di solito elencate come le ha sempre riportate la tradizione.
• L’Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle euripideo, tratta il tema della follia di Ercole, causata da Giunone, che lo porta ad uccidere la moglie e i figli. Rinsavito Ercole ha intenzione di suicidarsi, ma alla fine desiste nel suo intento e va a purificarsi ad Atene.
• Ispirato da due drammi euripidei, le Troiane e l’Ecuba, Seneca scrive le Troades, in cui si parla del destino delle donne troiane impotenti di fronte al sacrifico di Polissena, figlia di Priamo, e di Astianatte, figlio di Ettore ed Andromaca.
• Le Phoenissae sono improntate sull’Edipo di Sofocle e sulle Fenicie di Euripide, e ruotano attorno al tragico destino di Edipo. E’ l’unica opera rimasta incompleta da Seneca.
• La Phaedra, sempre improntata sul modello euripideo e sofocleo, narra dell’amore incestuoso di Fedra verso il figliastro Ippolito: quest’ultimo, restio alle seduzioni della donna, viene ucciso dal padre Teseo sotto denuncia della stessa Fedra.
• Sempre a Euripide si rifà la Medea, la cupa vicenda della principessa Medea abbandonata da Giasone e assassina per vendetta dei figli avuti da lui.
• L’Edipo re sofocleo è alla base dell’Oedipus in cui Seneca narra il famoso mito di Edipo che ucciso inconsapevolmente il padre Laio, si sposa con la madre Giocasta; quando viene a saperlo questi per la rabbia si acceca.
• All’omonima tragedia di Eschilo si ispira l’Agamennon in cui si narra l’uccisione di Agamennone al ritorno dalla guerra di Troia da parte della moglie Clitennestra e del suo amante Egisto.
• Al cupo mito dei Pelopidi si ispira il Thyestes: Atreo, animato da odio per il fratello Tieste che gli aveva sedotto la sposa, lo invita ad un banchetto ove gli offre come carne quella dei suoi bambini.
• Nell’Hercules Oetaeus, tratto dal Trachinie di Sofocle, Seneca narra il mito della gelosia di Deianira che per riconquistare Ercole, che si era innamorato di Iole, gli invia una tunica intrisa di sangue del Centauro Nesso, creduto un filtro d’amore ma che in realtà era una pozione mortale. Ercole annusata la tunica fa innalzare un rogo e vi si getta dentro, andare così tra gli Dei dell’Olimpo.
• Octavia, di argomento romano (sorte della moglie di Nerone). Sebbene la sua composizione sia da collocare negli anni di vita di Seneca, al suo interno è presente la descrizione della morte di Nerone (68 d.C.), successiva di tre anni a quella di Seneca.

Le tragedie di Seneca si ispirano a drammi greci che quasi sempre conserviamo. Presentano comunque notevoli differenze rispetto ai modelli: scene aggiunte, omesse, o diversamente sviluppate, e diversità anche molto rilevanti nelle motivazioni delle azioni e nella caratterizzazione dei personaggi.
Non sappiamo a quale tipo di fruizione fossero destinate. A lungo si è ritenuto che esse non potessero essere rappresentate: sia perché prevedono l’esecuzione sulla scena di uccisioni, apparizioni mostruose, ecc.; sia perché i personaggi tengono spesso discorsi molto lunghi che comportano altrettanto lunghi silenzi di altri personaggi presenti in scena; sia infine perché appare complessivamente scarsa la preoccupazione per la dinamica dello sviluppo drammatico, mentre l’attenzione è sui discorsi, sui dialoghi e sulla coerenza dei singoli quadri. Ma oggi molti riconoscono che la destinazione scenica, benché poco probabile, non è però inammissibile: gli atti sanguinari potevano essere simulati, e anche lo spettatore teatrale poteva appassionarsi più all’eloquenza delle parole che allo sviluppo drammatico di azioni del resto notissime.
Lo stile tragico di Seneca presenta, esasperate, le stesse caratteristiche di quello del filosofo. La sobrietà della sintassi, concentrata all’eccesso, enfatizza la parola grazie all’incessante ricorso a figure di suono e senso, ad interrogative retoriche, ad esclamative e ad ogni altro espediente declamatorio. Tanta magniloquenza serve a descrivere scenari raccapriccianti, a gridare orrori che altrimenti la parola normale non riuscirebbe nemmeno a pronunciare. Cellula dello stile senecano continua ad essere la “sententia”, che spesso interviene a salvare, con le sue definizioni o asserzioni fulminanti, anche quella che parrebbe la parte più debole della tragedia, il dialogo. Il teatro tragico di Seneca vive non tanto dei contrasti tra i personaggi, quanto tra quelli che avvengono dentro i personaggi. I monologhi di Seneca sono lunghissime effusioni sentimentali, lunghe confessioni, lunghi dialoghi interiori. Ad essi si contrappongono i cori che il più delle volte espongono solo la voce interna dell’autore stesso. In Seneca si avverte il gusto del Pathos esagerato, la tendenza a creare appunto delle sentenze rispettando i parametri caratteristici della “brevitas” asiana. Spesso per raggiungere l’apice della drammaticità l’autore intervalla lo svolgimento delle vicende con lunghe digressioni che venivano a creare storie più piccole pressoché indipendenti dalla trama della tragedia. Quello senecano è quindi uno stile molto chiaro, incisivo, che coinvolge facilmente l’attenzione del lettore. Tutte le tragedie risultano divise in cinque atti: cinque parti costituite da dialoghi o monologhi di personaggi, separate l’una dall’altra da quattro parti corali. Orazio per primo aveva teorizzato la divisione della fabula in cinque atti.
Seneca ha approfondito nelle sue tragedie tutto quello che la sua opera filosofica condannava. Infatti ci si trova di fronte ad immagini che, sotto forma di “exempla” riassumono l’emblema della dottrina stoica, anche se le analogie non sono da accentuarsi troppo per due validi motivi:
- persiste comunque una matrice specificatamente letteraria e non filosofica;
- nell’universo tragico il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male: la realtà infatti, spesso descritta in toni cupi e atroci è lo scenario nel quale regna il male che coinvolge non solo la psiche umana, ma il mondo intero, conferendo al conflitto tra bene e male una dimensione cosmica e una portata universale.
Il saggio stoico doveva educarsi quotidianamente al controllo delle passioni, al distacco dai beni terreni e dalle lusinghe del potere, alla ricerca del giusto e del bene. Lo strumento di tale ricerca della virtù era la “ratio” ben applicata (o mens bona). Nelle tragedie la virtù, il bene, la giustizia vengono irrisi e calpestati, ogni forma di ragione smarrita, ogni legge umana e divina infranta. Per il saggio stoico lo studio della natura era uno strumento per elevarsi alla conoscenza del divino. Nelle tragedie l’unica scienza è la magia nera, il dominio delle forze della natura a scopo malefico. Al contrario della morale senecana, qui non c’è orrore, sevizia, mutilazione o crimine di sangue che non venga illustrato con agghiacciante compiacimento.
Nei Dialogi e nelle Epistulae morales è mostrato come l’anima che assecondi la propria natura non possa che guardare in alto, verso la luce, verso quelle altezze spirituali da cui viene e a cui è destinata a tornare dopo la morte. I personaggi delle tragedie, invece, rifuggono dalla vista della luce, lanciandosi con voluttà a capofitto dentro le buie voragini aperte nella loro anima da ogni sorta di passione o ambizione.
- La tragedia di Seneca è esperienza totale del male e lo conduce a esperire poeticamente tutti i nodi, o tabù, antropologici più importanti: incesto, parricidio o altra forma di assassinio di un familiare, cannibalismo. Raramente l’infrazione si presenta unica: il più delle volte il “nefas”, l’atto contro ogni legge umana e divina, è multiplo. Inoltre, nelle tragedie, ha grande rilevanza il tema del potere, e in particolare del potere tirannico, incontrollato e sanguinario, e ciò riflette evidentemente all’esperienza personale dell’autore, tuttavia senza esplicite allusioni. La riflessione sul potere è riportata al mito, non perché esso faccia da copertura a prese di posizioni su questioni contingenti di attualità, bensì per esaltare la dimensione generale, primordiale, di quei grandi temi.

Apokolokyntosis
L’Apokolokyntosis , ovvero il Ludus de morte Plaudii (apogeo della morte di Claudio), è un’opera veramente singolare. Intanto il titolo venne dato da Dione Cassio riferendosi alla Kolokynta che in greco significa “zucca”, come emblema di stupidità; quindi il brano è una parodia dell’episodio della divinizzazione di Claudio da parte del senato dopo la sua morte. Il curioso titolo va quindi inteso come “deificazione di una zucca”, con riferimento alla fama di cui Claudio godeva.
Vi sono però dei dubbi sull’autenticità di quest’opera da parte di Seneca: infatti era stato proprio Seneca a scrivere la laudatio funebris per l’Imperatore morto, e sembra strano che subito dopo la sua morte egli abbia scritto un’opera sarcastica contro l’imperatore che l’aveva mandato in esilio.
L’opera si apre con un elogio al successore di Claudio, in cui si auspica un periodo di prosperità per l’Impero. Il componimento dopo si apre con la morte di Claudio e la sua vana ascesa verso l’Olimpo; ma gli Dei lo ricacciano come tutti i mortali negli inferi ove diventa schiavo del nipote Caligola e ove viene affidato al liberto Menandro (pena del contrappasso: lui era vissuto in mano dei suoi potenti liberti e ora anche agli inferi è in mano a uno di loro).
L’opera rientra nel genere della satira menippea (da Menippo di Gadara, iniziatore di questo genere), e alterna perciò prosa e versi di vario tipo.
Numerose sono le citazioni di vario tipo, citazioni famosissime da satiri greci e latini, facendo così assumere all’opera un carattere di parodia letteraria (che rientra perfettamente nello stile menippeo).

Gli Epigrammi
Sotto il nome di Seneca vanno anche alcune decine di epigrammi scritti in bello stile, ma non brillanti, e attribuiti a lui dalla manualistica del IX secolo (anche se l’attribuzione è molto libera…).

Esempio