De rerum natura, Lucrezio

Materie:Appunti
Categoria:Latino

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Data:15.02.2001
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Testo

LIBRO I
Genitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dèi, Venere datrice di vita, che sotto gli astri vaganti del cielo popoli il mare percorso dalle navi e le terre fertili di frutti, poiché grazie a te ogni specie di viventi è concepita e, nata, vede la luce del sole: te, o dea, te fuggono i venti, te (fuggono) le nuvole del cielo, e il tuo arrivare; a te soavi fiori sotto i piedi fa spuntare l'artefice terra, a te sorridono le distese del mare e placato splende con un diffuso lume il cielo. Infatti appena è dischiuso l'aspetto primaverile del giorno e libero si ravviva il soffio del fecondo zefiro,per primi gli uccelli dell’aria te, o dea, e il tuo giungere annunziano, colpiti nei cuori dalla tua potenza. Poi fiere e gli armenti balzano per i prati rigogliosi e attraversano a nuoto i rapidi fiumi: così presi dal fascino ognuno ti segue ardentemente dove intendi condurlo. Infine, per i mari e i monti e i fiumi rapinosi e le frondose dimore degli uccelli e le pianure verdeggianti, a tutti infondendo nei petti carezzevole amore, fai sì che ardentemente propaghino le generazioni secondo le stirpi. Poiché tu sola governi la natura e (poiché) senza di te niente sorge nelle divine regioni della luce, niente si fa gioioso, niente amabile, te desidero compagna nello scrivere i versi ch'io tento di comporre sulla natura per il nostro Memmiade, che tu, o dea, in ogni tempo volesti eccellesse ornato di ogni dote. Tanto più dunque, o dea, concedi alle mie parole fascino eterno. Fa' sì che frattanto le terribili condizioni della guerra, per i mari e le terre tutte placati,si sospendano. Tu sola infatti puoi con tranquilla pace giovare ai mortali, poiché sulle dure opere della guerra ha dominio Marte potente in armi, che spesso sul tuo grembo s'abbandona vinto da eterna ferita d'amore; e così, guardandoti dal basso in alto, abbandonato il collo ben formato, nutre d'amore gli avidi occhi anelando a te, o dea, e, mentre sta supino, il suo respiro pende dalle tue labbra. Quando tu, o dea, abbandonata con il tuo corpo santo, su di lui sdraiato avvolgendolo dall'alto, emetti dalla bocca soavi parole: chiedendo, o gloriosa, per i Romani placida pace. Infatti in tempi avversi per la patria non possiamo noi compiere quest'opera con animo sereno, é l'illustre progenie di Memmio può in tali frangenti mancare alla comune salvezza.

LIBRO VI (vv1138-1162)

Un tempo tale tipo di malattia e mortifero flusso, nel paese di Cecrope, resero funerei i campi e devastarono le strade, svuotarono di cittadini la città. Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto, (ove era) nato, dopo aver percorso molte regioni del cielo e grandi spazi di terreno, piombò alfine su tutto il popolo di Pandione. Allora, a mucchi erano preda della malattia e della morte. Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore e ambedue gli occhi arrossati di una luce diffusa. Anche la gola, nera nell'interno, sudava sangue, e cosparso di piaghe il passaggio della voce si serrava, e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue, infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto. Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia aveva invaso il petto e si era estesa allo stesso il cuore afflitto dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita. Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzoni morte, nel modo in cui puzzano i putridi cadaveri insepolti. E subito le forze dell'animo ‹e› tutto il corpo languivano, già sul limitare stesso della morte. E erano assidui compagni di intollerabili mali un'ansiosa angoscia e un pianto commisto a lamenti. E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno a contrarre assiduamente i nervi e le membra, distruggeva quelli che già prima erano stati spossati, affaticandoli.

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