La globalizzazione

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La Globalizzazione
È un fenomeno reale e recente che riguarda la progressiva apertura dei mercati nazionali all'estero dando così origine ad un mercato globale che varca i confini nazionali e che condiziona pesantemente con il suo andamento le singole economie nazionali (vi siete mai chiesti perché se cadono le borse asiatiche anche a Milano ne risentono?). La parola deriva dalla fusione di due termini distinti integrazione ed economia globale. Essa denota quindi quel processo tramite il quale aumentano e si intensificano i rapporti di ciascuna nazione nei confronti di molte altre. Quindi non significa come molti credono mondo senza confini, senza frontiere nazionali né mercato unico mondiale. Per molti secoli la competizione economica tra gli stati si è facilmente tramutata in conflitto militare. Nel secondo dopoguerra invece le tendenze all'avvicinamento dei mercati si sono accentuate al punto tale che a partire dagli anni 80 si è cominciato a parlare di globalizzazione. L'industrializzazione ha imposto l'apertura degli scambi e ha dato avvio alla mobilità territoriale di persone e tecnologie destinata a divenire sempre più intensa. Il contributo più grande è avvenuto con la rivoluzione informatica e soprattutto con la possibilità di integrare i sistemi informatici con quelli delle telecomunicazioni. Oggi è possibile inviare in ogni parte del mondo un numero infinito di informazioni, grazie alla rete telematica internet. Questa possibilità di collegare in pochi secondi luoghi distanti migliaia di chilometri ha finito per condizionare anche sistemi di produzione e di commercializzazione in quanto viene eliminato il contatto diretto fra produttore e consumatore, permette alle imprese di avere sedi anche in paesi diversi pur non perdendo mai di vista il loro operato mantenendosi in collegamento con le loro varie filiali. La globalizzazione ha l'effetto più importante nella finanza mondiale è possibile infatti grazie alle reti telematiche spostare capitali, acquistare titoli o venderli o effettuare qualsiasi azione speculativa digitando pochi tasti.
La globalizzazione non ha effetti infatti solo nella commercializzazione ma anche nel campo del lavoro: per molte imprese occidentali il trasferimento di molti stabilimenti produttivi in regioni asiatiche è conveniente poiché si può sfruttare una forza lavoro meno costosa. La globalizzazione ha dato tanto e ha migliorato tanto ma ci ha portato ad essere tutti uguali. Al di là delle singole manifestazioni c'è da dire che questo fenomeno condiziona ogni contesto della vita quotidiana: una stessa bevanda viene consumata a New York come a Pechino, uno stesso zainetto viene utilizzato a Milano come Singapore; uno stesso paio di scarpe viene venduto a Sidney come a Bankok. E lo stesso fenomeno è riscontrabile anche per la cosi detta fabbrica culturale quella che si occupa della vendita di programmi televisivi, cosi vengono veicolati non solo le conoscenze ma anche le mode i fenomeni sociali e anche le credenze religiose. Tutto questo ha portato alla nascita di un "villaggio globale" all'interno del quale le diverse società fino a ieri distinte per culture, tradizioni, credo e mode diverse vengono accomunate. Purtroppo la globalizzazione non ha portato solo riscontri positivi all'interno delle nostre società. La globalizzazione ha portato gli stati più ricchi ad arricchirsi sempre di più a discapito di chi povero lo è ancora e lo sta diventando maggiormente (o meglio, i soldi finiscono nelle mani dei pochi ricchi che gestiscono il commercio di materie prime con l'occidente dei paesi in via di sviluppo). C'era una volta la globalizzazione. Il mondo diventerà tendenzialmente uno, si diceva. La ricchezza dei ricchi salverà i poveri dall'eterna povertà. Le cifre non sostenevano questa "verità" indiscussa, ma i fatti non hanno mai troppo interessato i guru e altri filosofi. Il popolo di Seattle, impropriamente battezzato "no global", provò a sollevare il problema. Mentre da noi fioriscono le fabbriche della dieta, un miliardo e trecento milioni di esseri umani non hanno le risorse per sopravvivere. Una disuguaglianza che cresce anche in piena globalizzazione, o presunta. A Genova, l'anno scorso, gli otto Grandi pressati dalla piazza e dai media spergiurano che la lotta alla povertà, alle epidemie e alla fame nel mondo sarebbe diventata una loro (nostra) priorità. Poi venne l'11 settembre. In cima allo loro (nostra) agenda c'è la sicurezza, la guerra al terrorismo. Ciò che resta dei popoli di Seattle, Genova e Porto Alegre si riproduce in cortei piuttosto smilzi, come ultimamente quello di Roma. Dove a giugno al vertice mondiale sull'alimentazione organizzato dalla FAO, solo l'Italia (paese ospitante) e la Spagna (presidente di turno dell'Unione Europea) salveranno l'onore del mondo sviluppato. Sono gli unici due paesi presenti sui ventinove aderenti al Ocse, considerato il club delle nazioni ricche. Ha ragione il sindaco di Roma Walter Veltroni, a registrare questo paradosso: "Al G8 c'erano solo i paesi ricchi perché i poveri non erano stati invitati.
Al vertice FAO ci saranno solo i paesi poveri anche se quelli ricchi sono stati invitati". In parole povere ognuno si fa gli affari suoi. Peccato che la fame nel mondo sia anche un affare nostro. Ammettiamo pure, per gusto del paradosso, che all'occidente intero non importi nulla di chi muore di fame. Immaginiamo anche che l'idea stessa di genere umano sia superata, che ognuno viva per sé. Spaziamo via ogni giudizio morale e ogni senso di colpa. Restiamo al più stretto istinto di sopravvivenza. Davvero qualcuno pensa che un pianeta spaccato in due, con una minoranza di ricchi e una grande maggioranza di poveri e di sofferenti, possa garantire la nostra sicurezza, il nostro sviluppo? Il caso FAO può essere un episodio; quest'agenzia delle Nazioni Unite non brilla per efficienza, come d'altronde il sistema Onu in generale. Gli Stati Uniti, il paese più importante del mondo, sembrano anzi aver stabilito che le Nazioni Unite siano più un peso che una risorsa. Del Palazzo di Vetro e delle sue diramazioni si può pensare tutto il male possibile. Ma se non sarà la FAO ci dovrà pur essere un luogo in cui americani, europei e giapponesi possano incontrarsi per affrontare insieme l'emergenza fame. Prendendola per quello che è: un problema "loro" oggi; un problema nostro, domani. Ma forse quel domani è oggi.

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