Italo Svevo

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Testo

Italo Svevo

Aron Ector Schmitz nacque il 19 dicembre 1861 a Trieste, da una famiglia ebrea appartenente alla media borghesia.
Nel 1973 iniziò ad affrontare studi commerciali in un collegio tedesco, ma finn da giovane si interessò di letteratura leggendo autori come Goethe, Shiller e Heine. Nel 1978 tornò a Trieste, dove proseguì gli studi presso l’Istituto Superiore per il Commercio “Pasquale Rivoltella”, mantenendo sempre la sua passione per la letteratura, tanto che iniziò a scrivere per il giornale triestino d’ispirazione liberal-nazionale e irredentista “L’Indipendente”.
Nel 1880, in seguito al fallimento dell’attività commerciale del padre conobbe l’esperienza della declassazione, passando dall’agio borghese ad una condizione di ristrettezza. Iniziò a lavorare come impiegato bancario presso la “Banca Union di Vienna” di Trieste, ma, insoddisfatto del lavoro, trovò ancora una volta evasione dall’aridità della vita quotidiana nella letteratura. È a questi anni che risalgono i progetti del suo primo romanzo “Una vita”, che si rivelerà però un grandioso insuccesso.
Al 1895 risale il primo degli avvenimenti fondamentali della sua vita: il matrimonio con la cugina Livia Veneziani, incontrata in occasione della morte della madre. Il matrimonio lo portò a due grandi cambiamenti:
1) uno sociale, il passaggio dalla media all’alta borghesia, poiché diventò dirigente dell’industria dei suoceri;
2) uno personale, poiché egli, uomo insicuro, privo di punti di riferimento, che si considerava un “inetto”, poté maturare, trovando una base solida nel matrimonio e diventare un “pater familias”, ruolo da lui ambito come segno di virilità e valore.
La nuova attività lavorativa lo portò, però, a cambiare atteggiamento nei confronti della letteratura, che egli iniziò a considerare un’attività inutile e addirittura dannosa, poiché distraeva dalle occupazioni pratiche, “incatenava” il pensiero e ne condizionava il futuro svolgimento. Forse questa idea maturò in lui a causa del fallimento del suo secondo romanzo “Senilità”. Egli decise, pertanto, di abbandonare definitivamente la letteratura. Tale proposito non fu, però, rispettato totalmente perchè egli continuò a scrivere diari, lettere, annotazioni di vario genere perché riteneva che così avrebbe potuto meglio conoscere se stesso.
Nel 1915 vi furono due avvenimenti fondamentali della vita dello scrittore:
1) l’incontro con Joyce, il quale, dopo aver sottoposto al giudizio di Svevo la sua opera “Dubliners”, esortò lo scrittore triestino a continuare a scrivere, poiché credeva nel grande valore di “Una vita” e di “Senilità”;
2) l’incontro con la psicoanalisi, avvenuto casualmente poiché suo cognato era in terapia da Freud, egli conobbe così le teorie freudiane e le apprezzò molto, tanto che ne intrise i suoi componimenti successivi.
Le basi per un ritorno alla letteratura erano create, mancava solo un’occasione in cui ricominciare a scrivere, e tale occasione si ripresentò con l’inizio della prima guerra mondiale, quando la fabbrica di famiglia venne requisita dagli austriaci, ed egli ebbe di nuovo tempo per la letteratura.
Nel 1919 compose la “Coscienza di Zeno”, che pubblicò nel 1923, ottenendo l’ennesimo fallimento. Decise, allora, di mandare il romanzo a Parigi a Joyce, che, apprezzatolo, lo diffuse negli ambienti intellettuali parigini. Svevo ottenne grandi riconoscimenti in Francia e in Europa, ma non in Italia, dove fu apprezzato solo da Montale.
L’entusiasmo tornò in lui ed egli ricominciò a comporre alcuni racconti e testi teatrali, nonché a progettare un quarto romanzo, ma l’11 settembre del 1928 ebbe un incidente d’auto a Motta di Livenza, presso Treviso, e due giorni dopo morì, in conseguenza delle ferite riportate.

Il nome “Italo Svevo” è uno pseudonimo creato da Aron Ector Schmitz per due motivi:
1) distinguere l’impiegato (Ector) dal letterato (Italo);
2) per evidenziare la multietnicità delle sue origini, segnalando come in lui venivano a confluire la cultura italiana (Italo) e quella tedesca (Svevo).
La sua multietnicità gli permise di conoscere e apprezzare diverse culture, ma a ciò contribuì anche la città in cui egli visse: Trieste, appartenente all’Impero Austro-Ungarico, ma al confine con l’Italia e la Jugoslavia, un crocevia commerciale e culturale. Trieste ebbe un ruolo fondamentale nella formazione di Svevo, ispirando e limitando al tempo stesso il suo modo di vedere la vita e l’arte: fu ispiratrice fornendogli diverse culture cui fare riferimento e fornendogli anche una serie di problematiche su cui riflettere, ma lo limitò appunto perché le problematiche che offriva potevano essere capite solo se viste entro i limiti di Trieste stessa, caratterizzata da un forte provincialismo. Questo provincialismo, che si riflette in tutte le sue opere (caratterizzandone i personaggi nelle idee, nei modi di fare, negli accenti…) era dovuto soprattutto alla sua posizione geografica, poiché essendo al confine di due stati che se ne contendevano il possesso, risultava isolata; tuttavia si trattava di un provincialismo tutto particolare perché le caratteristiche di Trieste nascevano dalla fusione di tre culture, con il contributo anche di altri stati, con cui intratteneva un fiorente commercio.
In Svevo non bisogna sottovalutare un altro aspetto molto importante: il suo ebraismo. Italo fu ebreo fin dalla nascita, ma questa sua fede non appare nelle sue opere, quasi come se egli nello scrivere rinunciasse a una parte fondamentale di sé, risultando meno varo da un punto di vista artistico; in realtà Svevo non nascose il proprio ebraismo, egli era talmente amalgamato nella cultura triestina, si sentiva talmente accettato in un clima culturale così aperto, da non aver bisogno di sottolineare questo aspetto della sua vita. In realtà, osservando bene, si possono scorgere nelle opere di Svevo alcuni elementi che potrebbero richiamare il suo ebraismo: la passività, l’inettitudine e la femminilità dei suoi personaggi, tutti ritratti tipici della psicologia ebraica.
Svevo conobbe molto bene la cultura contemporanea sia grazie alla sua città di origine, sia perché egli, da autodidatta studiò autori a lui contemporanei.
Alcuni esempi molto influenti furono:
- Darwin, l’autore della teoria evoluzionistica, fondata sulle nozioni di “selezione naturale” e di “lotta per la vita”, di cui condivise l’idea secondo cui esistono delle leggi naturali immodificabili che sono causa dei comportamenti degli uomini;
- Nietzsche, che lesse direttamente nei testi originali, non attraverso le deformazioni estetizzanti e superomistiche di stampo dannunziano, anzi polemizzò con sarcasmo contro la ridicola concezione del superuomo, una mera utopia;
- Schopenauer, il pensatore che opponeva un misticismo irrazionalistico al sistema hegeliano per il quale “tutto ciò che è reale e razionale”, e che affermava un pessimismo radicale, indicando come unica via di salvezza dal dolore la contemplazione e la rinuncia, con la teoria secondo cui l’uomo si auto inganna di avere libero-arbitrio ma è in realtà dominato dalla sua stessa “volontà di vita” (“voluntas”: atteggiamento vincente, trionfatore; in contrapposizione alla “noluntas”:atteggiamento apatico, rinunciatario);
- Marx, da cui trasse la chiare percezione dei conflitti di classe che percorrono la società moderna, ma soprattutto la consapevolezza del fatto che tutti i fenomeni compresa la psicologia individuale, sono condizionati dalla realtà delle classi;
- Freud.

Le teorie psicanalitiche di Freud, sviluppatesi fra ’800 e ‘900 influenzarono notevolmente Svevo. Egli le conobbe tra il 1908 e il 1912, infatti iniziò ad occuparsi di psicoanalisi nel 1911, discutendone con un allievo di Freud e leggendo alcune opere del filosofo.
Svevo non condivise a pieno le teorie freudiane, accettandone solamente quelle ce confermavano quanto lui già pensava della psiche umana; il suo rapporto con la psicoanalisi può essere definito duale:
- da un lato egli ne fu affascinato, poiché ne apprezzava l’attenzione riservata ai gesti quotidiani più banali (lapsus, vuoti di memoria…), ma soprattutto perché vedeva la coincidenza fra l’inconscio di Freud e la volontà di vita irrazionale di Schopenauer;
- d’altro canto, Svevo fu turbato dalla psicoanalisi, perché l’analisi dell’inconscio spesso porta il soggetto a prendere coscienza di verità rimosse, e quindi molto sconvolgenti, ma anche perché diffidava della possibilità di guarire le malattie psichiche con qualsiasi mezzo, come anche sosteneva Schopenauer.
Per questi motive Svevo decise di seguire la teoria psicoanalitica, non tanto come terapia medica, quanto come mezzo letterario; l’analisi psicologica diventa l’argomento principale dei suoi romanzi, e questa analisi viene resa dal punto di vista letterario con il “flusso di coscienza”, una tecnica che consiste nel narrare le idee del personaggio così come si presentano alla sua mente, senza cercare necessariamente un legame logico fra le cose narrate, ma raccontando per “associazione di idee”, come avviene realmente nella nostra psiche.
Un altro elemento che Svevo trasse dalle tesi di Freud fu la coscienza della complessità della psiche umana: ogni singolo individuo è quello che è a causa delle innumerevoli esperienze che ha vissuto durante la sua esistenza, e fra queste un ruolo fondamentale lo ha la società. Per questo motivo Svevo analizza la società a partire dalla psiche dei suoi personaggi e può quindi criticarne i difetti, cosciente del fatto che essa non dice sempre la verità e possiede degli aspetti di cui il soggetto non ha piena padronanza.

Le opere di Svevo furono inizialmente dei grandi fallimenti, forse perché andavano contro i gusti del tempo, stimolando i lettori ad osservarsi, confrontarsi con personaggi scomodi, perché mostrano difetti e problemi comuni a tutti.
Il periodo in cui Svevo scrisse era caratterizzato da una profonda crisi sociale, la “crisi delle certezze”, dovuta alla perdita di importanza del positivismo e alla crisi della borghesia; ciò portò l’uomo alla consapevolezza che non bastavano la sola razionalità, il determinismo scientifico, la casualità necessaria a spiegare la realtà; tale presa di coscienza spinse l’uomo a cercare una via di fuga in mondi fantastici o in ideali di uomo immaginari. Svevo decise di parlare e descrivere l’uomo in crisi, così com’era, dandone un’immagine in cui gli uomini del suo tempo, obbligati a riflettere su se stessi, non amarono rispecchiarsi.
La tipologia che ne emerge è quella dell’”inetto”, che costituisce il tema cardine di tutta l’opera sveviana, in pratica dell’uomo incapace, che non sa vivere e realizzare i suoi progetti. L’inettitudine dell’uomo, secondo Svevo, è una debolezza interiore che rende inadatti alla vita, e caratterizza tutti coloro che sono nella società borghese, ma si distinguono da essa come dei diversi, soprattutto perché non ne condividono i valori come il culto del denaro e del successo personale. Questo “non riuscire ad adattarsi alla società” diventa negli individui una vera impotenza psicologica, perché non riesce più ad intensificarsi con la figura vincente tipica della borghesia, e si auto-esclude, rifugiandosi in mondi fittizi (grazie alla letteratura) e vedendo in ogni altro uomo un antagonista, in grado di agire e reagire nelle varie situazioni, uscendone sempre vincenti, ma anche dei punti di riferimento a cui appoggiarsi e tentare, invano, di sollevarsi dalla propria inettitudine. Se inizialmente per Svevo questa figura fu estremamente negativa, lentamente il suo punto di vista mutò, perché l’analisi su sé e sugli altri a cui porta la malattia mostrò come fosse relativo il concetto di sanità, perché ognuno ha i suoi problemi, le sue “inettitudini”, ma l’inetto risulta forse il più avvantaggiato nella vita, infatti, non avendo sviluppato le proprie possibilità in nessun ambito della società ha in sé un grande potenziale, che lo rende adatto ad emergere in qualsiasi situazione. L’inetto diventa, dunque, colui che sa osservare il mondo dal di fuori e può criticarlo, evidenziandone i difetti, minando alla base le certezze che lo guidano, e per questo diventa un personaggio positivo.
Un’altra tematica fondamentale dell’opera sveviana, strettamente legata al tema precedente, è la malattia; Svevo sostiene che i veri malati sono coloro che hanno delle certezze immodificabili su cui basano la propria esistenza e che non sanno analizzare se stessi, pertanto il confine fra sanità e malattia si assottiglia notevolmente, in un clima di malattia universale, in cui tutto è soggetto ad una generale degradazione, e questo atteggiamento è sintomo della crisi delle certezze che caratterizza l’inizio del ‘900.
Altre tematiche sveviane sono:
- la morte e il suicidio, visti come una liberazione dalle sofferenze del mondo;
- la degenerazione, cioè vede ogni realtà della natura soggetta a crescita, decomposizione e morte;
- la molteplicità dell’individuo, perché nelle sue opere mostra di essere cosciente della pluralità dei piani della psiche, dell’esistenza nell’individuo di aspetti di cui neanch’egli è pienamente cosciente, tutto ciò rende il soggetto “multisfaccettato” e non più unico, ma è questa sua complessità che lo rende degno di interesse letterario.

UNA VITA (1892)
È la storia di un giovane, Alfonso Nitti, che abbandona il paese e la madre per venire a lavorare a Trieste, dopo che la morte del padre, medico condotto, ha lasciato la famiglia in ristrettezze. Si impiega presso la banca Maller, ma il lavoro gli appare arido e mortificante. Il giovane, imbevuto di letteratura, orgoglioso della sua cultura umanistica, evade costruendosi “sogni di megalomane” e vagheggiando la gloria letteraria. L’occasione per un riscatto dalla sua vita vuota e solitaria, riempita solo dalle avide letture presso la biblioteca comunale, gli è offerta da un invito a casa del padrone della banca, Maller. Alfonso conosce così Macario, un giovane brillante e sicuro di sé, e stringe con lui una forma di amicizia. In Macario l’eroe, nella sua provinciale goffaggine e timidezza, trova una sorta di appoggio e di modello. La figlia di Maller, Annetta, ha anch’essa ambizioni letterarie, e sceglie Alfonso come collaboratore nella stesura di un romanzo. Alfonso, pur senza amare Annetta la seduce e la possiede. A questo punto l’eroe avrebbe la possibilità di trasformare radicalmente la sua vita, sposando la ricca ereditiera. A tale soluzione è spinto insistentemente dalla signorina Francesca, istitutrice in casa di Maller e sua amante, che aspira anch’essa al salto di classe attraverso il matrimonio con il padrone. Alfonso, invece, preso da un’inspiegabile paura, fugge da Annetta e da Trieste, adducendo come pretesto una malattia della madre. Tornato al paese, trova effettivamente la madre gravemente ammalata. Dopo la sua morte ritorna di nuovo a Trieste, deciso a rinunciare alla crudele “lotta per la vita” che domina nell’ambiente in cui vive, credendo di aver scoperto nella rinuncia e nella contemplazione la sua vera natura (si rivela in questo l’influenza di Schopenauer). Ma la realtà smentisce le belle teorie e i nobili programmi. Afonso credeva di aver interamente superato le passioni, invece, all’apprendere che Annetta, sdegnata di lui, si è fidanzata con Macario, è invaso da una dolorosa gelosia; riteneva di non curarsi più del giudizio degli altri, ed invece si sente ferito dal disprezzo e dall’odio che lo circonda nella banca. Trasferito ad un compito di minore importanza, affronta indignato il signor Maller, ma nell’emozione si lascia sfuggire frasi che vengono interpretate come ricatti. Da questo momento commette errori irreparabili: scrive ad Annetta per chiederle che cessino le persecuzioni nei suoi confronti, ma di nuovo il suo gesto è avvertito dai Maller come ricattatorio. All’appuntamento che egli ha chiesto alla ragazza, per una definitiva spiegazione, si presenta il fratello, che lo sfida a duello. Alfonso, sentendosi “incapace alla vita”, decide di cercare nella morte una via di scampo, il mezzo per divenire “superiore ai sospetti e agli odi”, distruggendo la fonte della sua infelicità, il suo organismo “che non conosceva la pace”.
Si tratta del romanzo della “scalata sociale”, in cui un giovane provinciale ambizioso si propone di conquistare il successo nella società cittadina, ma anche del romanzo”di formazione”in cui un giovane si forma alla vita.
Alfonso inaugura un tipo di personaggio, l’”inetto”, che ritornerà regolarmente, attraverso varie incarnazioni, nei libri successivi di Svevo. L’inettitudine è sostanzialmente una debolezza, un’insicurezza psicologica, che rende l’eroe “incapace alla vita”.
Due figure sono molto rappresentanti:
- l’antagonista, rappresentato dal padre Maller;
- il rivale, rappresentato da Macario.
La narrazione è condotta da una voce “fuori campo”. Predomina la focalizzazione interna al protagonista.

SENILITÀ (1989)
Il protagonista, Emilio Brentani, trentacinquenne, vive di un modesto impiego presso una società di assicurazioni triestina e gode di una certa reputazione in ambito cittadino per un romanzo pubblicato anni prima, dopo il quale però non ha più scritto nulla. Egli ha attraversato la vita con prudenza, evitando i pericoli ma anche i piaceri, appoggiandosi alla sorella Amalia, con cui vive e che lo accudisce “come una madre dimentica di se stessa”, e all’amico Stefano Balli, scultore, uomo dalla personalità forte, che compensa l’insuccesso artistico con un’eccezionale fortuna con le donne, e che rappresenta per il debole Emilio una sorta di figura paterna. L’insoddisfazione per la propria esistenza vuota e mediocre spinge però Emilio a cercare godimento nell’avventura, che egli crede “facile e breve”, con una ragazza del popolo, Angiolina, da lui conosciuta casualmente. emilio si propone semplicemente di divertirsi senza impegnarsi, imitando il dongiovannismo dell’amico Balli. In realtà si innamora perdutamente della ragazza, idealizzandola e trasformandola nella sua fantasia in una creatura angelica. La scoperta della vera natura di Angiolina, che ha numerosi amanti e si rivela cinica e mentitrice, scatena la sua gelosia, che assume veri e propri caratteri ossessivi. Ma egli non riesce a staccarsi dalla ragazza: un tentativo di separazione lo getta in uno stato di prostrazione profonda, privandolo di quella energia vitale che aveva trovato nel rapporto, e che egli defisse “gioventù”. Di conseguenza riallaccia la relazione, ma il possesso fisico, a cui finalmente arriva (in verità per volontà di Angiolina) lo delude e lo lascia insoddisfatto, perché ha avuto non la figura ideale che ama, ma la donna reale, di carne, che disprezza. È sempre più disgustato da Angiolina che, oltre a mentirgli sistematicamente, si rivela rozza e volgare. L’amico Balli si interessa anch’egli ad Angiolina, prendendola come modella per una statua; e la ragazza si innamora perdutamente di lui. La gelosia patologica di Emilio si concentra allora tutta sull’amico. Nel frattempo la sorella Amalia vive un’avventura parallela e analoga alla sua: la grigia zitella, che non ha mai conosciuto la vita e il godimento, si innamora di Stefano Balli, l’affascinante artista bohémien, e, non osando rivelare i suoi sentimenti, trova appagamento solo nei sogni. Emilio, accortosene, allontana l’amico da casa sua, ma in tal modo distrugge la vita della sorella. Amalia cerca l’oblio nell’etere, minando così il suo fisico già debole, che soccombe alla polmonite. Emilio lascia il capezzale di Amalia morente, per recarsi all’appuntamento con Angiolina, deciso ad abbandonarla definitivamente e a dedicarsi tutto alla sorella. Ma l’addio non avviene con la dolcezza e la dignità sognate: Emilio, scoprendo un ennesimo tradimento di Angiolina, si lascia trasportare dall’ira e la insulta violentemente. Dopo la morte di Amalia, Emilio torna a rinchiudersi nel guscio della sua “senilità”, guardando alla sua vita come un “vecchio” alla sua “gioventù”. E nei suoi sogni fonde insieme le due fondamentali figure femminili della sua vita, Amalia e Angiolina, in un’unica figura, pensosa e intellettuale, che diviene anche il simbolo della sua utopia socialista.
I personaggi del romanzo pensano, sentono, si comportano in un certo modo perché vivono in un certo contesto, che li ha conformati anche nell’intimo.
La parte preponderante della narrazione è assunta naturalmente dall’analisi del protagonista, che campeggia al centro dell’attenzione per quasi tutto il romanzo. Emilio è:
- dal punto di vista sociale, un piccolo borghese, la cui squallida condizione è anche nel suo caso effetto di un processo di declassazione; al tempo stesso è un intellettuale, che ha scritto in gioventù un romanzo, ed è intriso di letteratura, tanto da interpretare costantemente il reale attraverso schemi letterari;
- dal punto di vista psicologico, un debole, un “inetto”, che ha paura di affrontare la realtà e per questo si è costruito un sistema protettivo, conducendo un’esistenza cauta che gli garantisce calma e sicurezza, ma implica la rinuncia al godimento, la mortificazione della vita; è una sorta di limbo, di sospensione vitale, che il titolo del romanzo defisse “senilità”, che si oggettiva nella chiusura entro il nido domestico.
È un romanzo focalizzato quasi totalmente sul protagonista (solo per brevi tratti il punto di vista adottato è quello di Amalia o di Stefano Balli, mai comunque quello di Angiolina). I fatti sono filtrati sistematicamente attraverso la sua coscienza e sono presentati come li vede lui. Ma poiché Emilio è portatore di una falsa coscienza e si costruisce continuamente maschere, alibi, autoinganni, la sua prospettiva è deformante, il suo punto di vista è inattendibile.

LA COSCIENZA DI ZENO
Il protagonista-narratore è una figura di “inetto” che Svevo stesso, nel “Profilo autobiografico” definisce un “fratello” di Emilio e Alfonso (anche se si differenzia dai precedenti eroi nella collocazione sociale, poiché non appartiene più alla piccola borghesia impiegatizia, ma alla ricca borghesia commerciale). Abulico e incostante, negli anni giovanili conduce una vita oziosa e scioperata, passando da una facoltà universitaria all’altra, senza mai giungere ad una laurea e senza dedicarsi ad alcuna attività seria. Il padre, facoltoso commerciante, non ha la minima stima per il figlio, e nel testamento lo consegna in tutela al fidato amministratore Olivi, sancendo così la sua irrimediabile immaturità e la sua irresponsabilità infantile. I rapporti del figlio col padre sono improntati alla più classica ambivalenza: pur amandolo sinceramente, Zeno, con il suo ozio e la sua inconcludenza negli studi, non fa che procurargli amarezze e delusioni, rivelando così inconsci impulsi ostili ed aggressivi. Il vizio del fumo, a cui Zeno collega intollerabili sensi di colpa, ha nel suo fondo inconscio proprio l’ostilità contro il padre, il desiderio di sottrargli le sue prerogative virili e di farle proprie (Zeno ragazzo comincia a fumare rubando un sigaro acceso dimenticato dal padre). Quando già è sul letto di morte, il padre lascia cadere un poderoso schiaffo sul viso del figlio che lo assiste, e Zeno resta nel dubbio angoscioso se il gesto sia prodotto dell’incoscienza dell’agonia o scaturisca da una deliberata intuizione punitiva, e cerca quindi disperatamente di costruirsi alibi e giustificazioni per pacificare la propria coscienza, per dimostrare a se stesso di essere privo di ogni colpa nei confronti del padre e della sua morte (che in realtà, nel suo inconscio, fortemente desiderava). Privato della figura paterna, l’”inetto” Zeno, che ha sempre bisogno di appoggiarsi ad un “padre”, va subito in cerca di una figura sostitutiva, e la trova in Giovanni Malfenti, uomo d’affari che incarna l’immagine tipica del borghese, abile e sicuro nell’attività pratica, dalle poche ma incrollabili certezze, dominatore incontrastato del suo mondo, costituito dal lavoro e dalla famiglia. Malfenti è dunque il modello di uomo con cui l’”inetto” Zeno non riesce più a coincidere, come non vi riuscivano i suoi predecessori, Alfonso e Emilio, e rappresenta perciò nel sistema dei personaggi l’Antagonista, il ruolo che era del banchiere Maller in “Una vita” e di Balli in “Senilità” (nella misura in cui questi rappresentava per Emilio una figura “paterna”). Zeno decide di sposare una delle sue figlie, si direbbe solo per “adottarlo” come padre. Si innamora della più bella, Ada, ma con il suo comportamento goffo e stravagante sembra far di tutto per alienarsi i sentimenti della ragazza. Respinto da lei, rivolge la domanda di matrimonio alla sorella minore Alberta e, al rifiuto anche di questa, fa la sua proposta alla sorella più brutta, Augusta. In realtà Augusta era la moglie che Zeno aveva scelto inconsciamente: si rivela infatti la donna di cui egli ha bisogno, sollecita e amorevole come una madre, capace di creargli intorno un clima di dolcezza affettuosa e di sicurezza. Augusta, come il padre, ha un limitato ma solido sistema di certezze, che ne fanno un perfetto campione di “ sanità” borghese. È l’antitesi di Zeno, che è invece irrimediabilmente “diverso”, incapace nel suo intimo di integrarsi veramente in quel sistema di vita e di concezioni, anche se vi aspira con tutte le sue forze, in un disperato desiderio di normalità e “salute”. Zeno è “malato”: la sua malattia è la nevrosi, che simula tutti i sintomi della malattia organica. Egli proietta nella malattia la propria inettitudine, ed attribuisce la colpa dei propri malanni al fumo: la sua esistenza è pertanto costellata da tentativi di liberarsi dal vizio, nella convinzione che solo così potrà avviarsi verso la “salute”, non solo fisica ma morale e sociale, cioè diventare un borghese degno di questo nome, ma questi tentativi finiscono sistematicamente nel nulla. Alla moglie Zeno affianca la giovane amante Carla, una ragazza povera che egli affetta di proteggere in modo “paterno” (si riproduce così, in certa misura, il rapporto tra Emilio e Angiolina). Il rapporto però è reso difficile e infinitamente ambiguo dai senti di colpa di Zeno verso la moglie, sinché Carla non lo abbandona per un uomo più giovane. Come è inevitabile, Zeno aspira ad entrare nella normalità borghese non solo divenendo buon padre di famiglia, ma anche accorto uomo d’affari. Fonda perciò un’associazione commerciale con il cognato Guido Speier, che ha sposato Ada. Questi è un bell’uomo, disinvolto, sicuro di sé, fornito delle doti più versatili; è insomma l’antitesi di Zeno, ed incarna perciò il ruolo del rivale, coma Macario in “Una vita” e Balli in “Senilità”. Anche verso di lui Zeno nutre fortissime ambivalenze. L’amicizia e l’affetto fraterno ostentati nei suoi confronti mascherano un odio profondo, che si tradisce clamorosamente ai funerali di Guido, morto suicida per un dissesto finanziario: Zeno sbaglia corteo funebre, uno di quegli “atti mancati” che Freud ha dimostrato essere estremamente rivelatori dei nostri impulsi inconsci. Zeno, ormai anziano, decide di intraprendere la cure psicanalitica, e qui ha inizio la stesura di quel memoriale che costituisce il corpo più cospicuo del romanzo. Zeno però si ribella alla diagnosi dello psicanalista, che individua in lui il classico complesso edipico. Lo scoppio della guerra favorisce alcune sue speculazioni commerciali, che trasformano paradossalmente l’”inetto” Zeno in un abile uomo d’affari (in realtà, come rivela un frammento del “quarto romanzo”, Zeno perderà tutto con la fine della guerra: il successo era stato frutto solo del caso). Zeno si proclama così perfettamente guarito. Non sappiamo bene che non è vero e che queste resistenze sono un sintomo tipico della malattia. Ma Zeno ha buon gioco, nelle pagine finali, a sottolineare il confine incerto tra malattia e salute nelle condizioni attuali, in cui la vita è “inquinata alle radici”. Il romanzo termina così in chiave apocalittica, con una riflessione di Zeno sull’uomo costruttore di ordigni, che finiranno per portare una catastrofe cosmica.
La “Coscienza di Zeno” è costituita da un memoriale, o confessione autobiografica, che il protagonista Zeno Cosini scrive su invito del suo psicanalista, il dottor S., a scopo terapeutico, come preludio che dovrebbe agevolare la cura vera e propria. E lo scrittore finge che il manoscritto di Zeno venga pubblicato dal dottor S. stesso, per vendicarsi del paziente, che si è sottratto alla cura frodando al medico il frutto dell’analisi. Al testo del memoriale si aggiunge infine una sorta di diario di Zeno, in cui questi spiega il suo abbandono della terapia e si dichiara sicuro della propria guarigione in coincidenza con i successi commerciali ottenuti durante la guerra con fortunate speculazioni. Il romanzo è dunque narrato dal protagonista stesso, dietro la finzione narrativa dell’autobiografia e del diario, pertanto ha un impianto autodiegetico.
Nuovo e originale, nell’impianto narrativo, è anche il particolare trattamento del tempo, quello che Svevo chiama “tempo misto”. Il racconto, nonostante l’impostazione autobiografica, non presenta gli eventi nella loro successione cronologica lineare, inseriti in un tempo oggettivo, come nei romanzi ottocenteschi in cui il protagonista racconta la propria vita, ma in un tempo tutto soggettivo, che mescola piani e distanze, in cui il passato riaffiora continuamente e si intreccia con infiniti fili al presente.
I vari capitoli sono: il vizio del fumo e i vani sforzi per liberarsene, la morte del padre, la storia del proprio matrimonio, il rapporto con la moglie e la giovane amante, la storia dell’associazione commerciale con Guido Speier; alla fine si colloca il capitolo “Psico-analisi”, in cui Zeno sfoga il proprio livore contro lo psicanalista e racconta la propria presunta guarigione.
In Zeno vi è un disperato bisogno di “salute”, cioè di normalità, di integrazione nel contesto borghese: vorrebbe essere un buon padre di famiglia, attivo e abile uomo d’affari. Però, contro ogni sua intenzione, non riesce mai a coincidere veramente con quella forma compiuta e definita di uomo. Zeno finisce per scoprire che la “salute atroce” degli altri è anch’essa “malattia”.

RACCONTI
- “Una lotta”: novella che recava molti motivi destinati ad essere sviluppati più tardi, come il conflitto debole-forte, la figura del letterato inetto e sognatore.
- “L’assassinio di via Belpoggio”: un lungo racconto che anticipa temi e procedimenti dei romanzi a venire; particolarmente significativa è l’analisi dei tortuosi processi psicologici innescati da un omicidio, nei quali si aggrovigliano sensi di colpa, ricerche di giustificazioni e di alibi morali, che fanno già presentire i labirinti interiori degli eroi dei successivi romanzi sveviani.
- “La tribù”: viene rifiutato il percorso graduale, lunghissimo e faticoso, attraverso cui l’umanità, grazie allo sviluppo industriale, potrà giungere al socialismo, e viene proposto di “incominciare dalla fine”, saltando le tappe intermedie.
- “Lo specifico del dottor Manghi”: si tratta dell’invenzione di un farmaco che diminuisce l’energia vitale e consente così di allungare la vita.
- “Vino generoso”: malattia, vecchiaia, gioventù, soddisfazione del desiderio attraverso il sogno, impulsi segreti dell’inconscio, ambivalenze e sensi di colpa, bisogno di stabilire ad ogni costo la propria “innocenza”.
- “Una burla riuscita”: malattia, vecchiaia, gioventù, soddisfazione del desiderio attraverso il sogno, impulsi segreti dell’inconscio, ambivalenze e sensi di colpa, bisogno di stabilire ad ogni costo la propria “innocenza”.
- “La novella del buon vecchio e della bella fanciulla”: malattia, vecchiaia, gioventù, soddisfazione del desiderio attraverso il sogno, impulsi segreti dell’inconscio, ambivalenze e sensi di colpa, bisogno di stabilire ad ogni costo la propria “innocenza”.
- “Corto viaggio sentimentale” (incompiuto): malattia, vecchiaia, gioventù, soddisfazione del desiderio attraverso il sogno, impulsi segreti dell’inconscio, ambivalenze e sensi di colpa, bisogno di stabilire ad ogni costo la propria “innocenza”.
- “Il vecchione” o “Le confessioni del vegliardo”: una continuazione di Svevo.

COMMEDIE
- “Aristo governatore”: dramma in versi.
- “Terzetto spezzato”
- “Un marito”
- “La rigenerazione”: protagonista è il vecchio Giovanni Clerici, un alter ego di Zeno, che si sottopone ad un’operazione miracolosa per ringiovanire; l’operazione scatena le energie vitali del vecchio, che si proietta a recuperare la propria giovinezza, ma fa anche emergere le sue ambivalenze e i suoi impulsi aggressivi verso il mondo familiare che lo circonda.
- “Le ire di Giuliano”
- “Le teorie del conte Alberto”
- “Il ladro in casa”
- “Una commedia inedita”
- “Prima del ballo”
- “La verità”
- “Terzetto spezzato”
- “Atto unico”
- “L’avventura di Maria”
- “Inferiorità”
- “Con la penna d’oro”

Esempio