I Giganti della Montagna

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Testo

L’ADESIONE DI LUIGI PIRANDELLO AL FASCISMO
Non è il caso di ripercorrere con minuzia le tappe della vita di Luigi Pirandello che sono note a tutti; in questo contesto basterà ricordare che lo scrittore nacque il 28 giugno 1867 presso Girgenti (ribattezzata poi Agrigento sotto il fascismo) da una famiglia di condizioni agiate. Dopo gli studi liceali frequentò la facoltà di lettere inizialmente all’Università di Palermo, poi a quella di Roma, infine a quella di Bonn, dove si laureò nel 1891 in Filologia romanza con una tesi su Suoni e sviluppo di suoni nel dialetto di Girgenti. Grande drammaturgo, scrisse la sua prima commedia, Il Nibbio, nel 1896, mentre il suo primo romanzo, L’esclusa, risale al 1893 (anche se venne pubblicato solo nel 1901). Pirandello ottenne successi non solo in Italia, ma in tutto il mondo, e la sua grande fama fu riconosciuta nel 1934 con la consegna del Premio Nobel per la letteratura, che avvenne due anni prima della sua morte.
Quello che a noi interessa indagare è l’evento che scosse e divise il mondo della critica, ovvero di quando, nel 1924, subito dopo l’assassinio del deputato socialista Matteotti, l’autore siciliano prese la tessera del partito fascista: molti lo considerarono un atto di codardia, un modo per ottenere protezione e appoggio, ma attraverso un’attenta analisi delle sue opere se ne può ricavare un’interpretazione che è del tutto coerente con la visione del mondo pirandelliana.
Lo scrittore siciliano non condivideva né l’idea politica giolittiana né quella socialista, soprattutto gli ideali democratici che venivano propugnati da questa: risulta illuminante a questo proposito un passaggio de Il fu Mattia Pascal, quando il protagonista incontra un ubriaco che lo invita a stare allegro e a non curarsi di niente, suscitando il pensiero del nostro eroe:
« Allegro! Si, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a cercar l'allegria, che tu mi consigli, in fondo a un bicchiere. Non ce la saprei trovare io lì, purtroppo! Ne so trovarla altrove! Io vado al caffè, mio caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d'esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà... Torniamo a casa! ».
L’atteggiamento di Pirandello verso l’ideologia socialista, poi, è ben visibile ne I vecchi e i giovani, romanzo del 1913 incentrato sulle vicende dei Fasci Siciliani. Esemplare è il monologo di Lando Lauretano, nobile, socialista, cosciente delle condizioni del popolo, che interroga se stesso sulle ragioni del proprio agire:
”Che volevano infatti tutti quei suoi compagni? Ben poco, per il momento, in Sicilia. Volevano che, per l'unione e la resistenza dei lavoratori, venissero a patti più umani i proprietarii di terre e di zolfare, e cessasse il salario della fame, cessassero l'usura, lo sfruttamento, le vessazioni delle inique tasse comunali, per modo che a quelli fosse assicurato, non già il benessere, ma almeno tanto da provvedere ai bisogni primi della vita. Volevano, adattandosi modestamente alle condizioni locali, l'impianto di cooperative di consumo e di lavoro e la conquista dei pubblici poteri; fra qualche anno trionfare nelle elezioni comunali e provinciali dell'isola; riuscir vittoriosi in qualche collegio politico, per aver controlli e banditori delle più urgenti necessità dei miseri nei Consigli comunali e provinciali e nella Camera dei deputati. Questo volevano. Ed era giusto. Degne d'ammirazione la fede e la costanza con cui seguitavano quest'opera di protezione e di rivendicazione. Che altro voleva lui? Non c'era altro da volere, altro da fare, per ora. E tanta esaltazione, dunque, e tanto fermento per ottenere ciò che forse nessuno, fuori dell'isola, avrebbe mai creduto che già non ci fosse: che in ogni casolare sparso nella campagna la lucernetta a olio non mostrasse più ai padri che ritornavano disfatti dal lavoro lo squallido sonno dei figliuoli digiuni e il focolare spento; che fossero posti in grado di divenire e di sentirsi uomini, tanti cui la miseria rendeva peggio che bruti. Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve miglioramento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, come quelle accordate da lui nei suoi possedimenti, sarebbero bastati a soddisfare e a quietare quei miseri, senza tanto fragor di minacce, senza bisogno d'assumere quelle arie d'apostoli, di profeti di paladini. Oneste, modeste aspirazioni, quasi evangelicamente disciplinate, da raggiungere grado grado, col tempo e con la chiara coscienza del diritto negato! Poteva egli pascersi di esse, e non pensare ad altro? No, no: troppo poco per lui! Se fosse bastato, magari avrebbe dato tutto il suo denaro, e chi sa, forse allora, da povero, avrebbe trovato in quelle aspirazioni un pascolo per l'anima irrequieta. Ma così, no, non potevano bastargli!”.
Due considerazioni possono essere ricavate: la prima è che Pirandello rifiuta evidentemente il socialismo rivoluzionario e accetta un moderato programma riformista; la seconda, più importante, è che ogni possibile riforma, contemplata dagli schemi democratici, è angusta, risibile, rispetto all’esigenza di autoliberazione che muove le rivolte. Il principe Lauretano sa bene che rivestire l’inquietudine individuale con gli argomenti della rivendicazione sociale è solo un inganno, poiché se la società democratica accettasse le riforme proposte l’individuo vedrebbe soddisfatta soltanto la ragione esteriore, la motivazione più plateale del proprio empito, e quest’empito rimarrebbe sospeso nel nulla. Come per molti intellettuali meridionali delusi dal movimento risorgimentale prima e dal governo unitario poi, per Pirandello la rivolta popolare non riesce a ottenere altro che suscitare violenza. Sempre ne I vecchi e i giovani, Lauretano, uno degli organizzatori della rivolta, vuol vedere i cadaveri degli uccisi, e trova i corpi di due ragazzi stipati nella stessa cassa, uno dei due con grandi occhi neri ancora sbarrati, e in un’altra il cadavere di una bambina. «Questo hanno fatto…» mormora il principe siciliano, ma, al contrario di come si potrebbe pensare, non si riferisce ai soldati, ma accusa della strage i compagni socialisti. Per il nobile sono stati loro a provocare il massacro, sfruttando la carica di ribellione degli individui, seminando il veleno dell’illusione collettiva.
Di fronte alle posizioni disincantate e sfiduciate nei confronti della democrazia, sappiamo che il tema fondamentale della poetica pirandelliana si risolve nella dimostrazione dell’impossibilità per chi vive in società di ottenere una vera libertà individuale.
Ritornando a Mattia Pascal, ricordiamo che il protagonista del romanzo vive in condizioni di grande miseria, e cerca la fortuna al Casinò di Montecarlo. Riesce a vincere una discreta somma, e mentre sta tornando a casa, scopre che nel suo paese un cadavere rinvenuto in un fiume era stato scambiato per lui. Da qui la decisione di scappare, di liberarsi da tutti i legami che aveva e di far nascere Adriano Meis, l’alter ego di Pascal. Ben presto però Pascal-Meis si renderà conto di non poter vivere al di fuori degli schemi sociali e, dopo una serie di inconvenienti, decide di tornare a casa. Ma qui trova la moglie risposata e finalmente felice, e, considerata la nuova situazione, decide di vivere una vita da emarginato ritrovandosi a non possedere niente e a non essere niente: solo un fu Mattia Pascal.
Mattia Pascal, così come i protagonisti di molte novelle e romanzi, alla fine di tutto, non è solo un individuo fuggito alla società, ma un ribelle sconfitto che ha capito la natura tirannica della società, che ha smarrito ogni illusione nella bontà oggettiva delle leggi e che perciò, al culmine della sua esperienza, si identifica totalmente nella tirannia sociale cercando con gli altri quel rapporto diretto che gli è consentito dal suo essersi messo, un tempo, contro la legge contestandone il valore universale. Se si guarda al monologo di Mattia/Adriano riportato prima, e lo si cala all’interno dell’ideologia di Pirandello, si può notare che segue il filo logico descritto fin qui: l’uomo che detiene il potere assoluto, il despota, può porsi in modo estremamente mutevole con gli altri, non essendo il rapporto mediato da alcuna legge universalmente valida o ritenuta tale. Ma per arrivare a questo punto, il despota deve ribellarsi alla società, proprio come fa Mattia Pascal, e arrivare infine ad una condizione simile a quella del protagonista di “Uno, nessuno e centomila”. Il tiranno ha dunque una funzione rivelatrice e chiarificatrice nella società: egli combatte le illusioni, a cominciare dalla libertà e tutte le possibili promesse di liberazione individuale offerte dalle leggi: egli sa che sono solo mere illusioni, solo parole proferite al vento, e per questo egli sostituisce ad esse un’azione che non è più rivoluzionaria in quanto egli stesso ha appurato l’inconsistenza delle speranze rivoluzionarie ma che è tanto più «vera» quanto più disorganica, ossia rivolta alle esigenze singole di questo e di quello, un’azione che è antipolitica in quanto l’organicità di ogni politica è un’illusione e che è tanto più meritevole per Pirandello quanto più essa è improvvisata, spontanea. Per questo basta vedere le parole con cui termina “Uno, nessuno e centomila”:”Muoio ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori”. 1
Pirandello dunque, pur sapendo che è destinato a fallire, considera fondamentale che l’individuo si ribelli alla società, perché così riuscirà, alla fine del suo percorso, a capire la natura della società stessa.
Ben diverso è invece il suo pensiero verso la rivoluzione di tanti, che considera assolutamente inutile perché, a suo vedere, il moto di ribellione di ognuno non è comunicabile agli altri, e una rivoluzione di massa servirebbe solo a porre un’ulteriore “maschera” sul singolo.
Ecco dunque che l’ascesa di Mussolini non poteva che essere vista di buon occhio da Pirandello: un singolo ribelle che ha capito la tirannia della società, che porta avanti da solo il suo atto di ribellione e propone un governo di fatti e non di parole, “liberando” la mente degli individui dall’illusione di libertà.
Una conferma a questa interpretazione si può vedere nella modifica che lo scrittore porta al suo “Saggio su Verga”: la prima edizione, nel 1920, riportava la frase “i vinti siamo un po’ tutti noi”, che nel 1931 si trasformò in “l’animo nostro mutato e non più da vinti”. Pirandello sembra dire che con il fascismo l’animo non è più vinto dalle illusioni dell’epoca giolittiana, è stato liberato dalle “false maschere” della democrazia. La distruzione di questa illusioni è come liberare l’animo da un’oppressione, quindi renderlo meno vinto.
Con questo però non bisogna credere che per Pirandello il fascismo equivalga alla completa liberazione dell’individuo: per lo scrittore siciliano l’esistenza dell’individuo è, è stata e sempre sarà tragica fondamentalmente. Il fascismo serve quindi a liberare dalle false maschere, dalle ulteriori forme che la democrazia impone all’individuo, mettendo in grado il singolo di concentrarsi sul dramma di fondo che tormenta la sua esistenza.
IL FASCISMO, LA LETTERATURA E IL TEATRO
Durante il ventennio il fascismo, manifestandosi come regime totalitario, esercitò un condizionamento totale su tutto l’ambito culturale e artistico italiano e di conseguenza anche sulla Letteratura. Tuttavia il regime ebbe mai una consistente influenza diretta per quanto concerne il campo culturale e letterario, ma solo un condizionamento e una provocazione. Infatti il fascismo non produsse una letteratura, una critica, una cultura che ad alto livello e in modi originali riprendessero e riflettessero i suoi miti. Solo con la sua presenza, però, con l’imbavagliamento che mise alla stampa, con il controllo di ogni attività culturale, provocando gli intellettuali italiani a diverse forme di reazione, favorì indirettamente alcune correnti artistiche. Andando quindi ad osservare da vicino il mondo letterario dell’epoca, possiamo veder come esso si dividesse sostanzialmente in tre tronconi: autori vicini ai temi del regime, autori antifascisti, autori “evasivi”. Del primo gruppo tuttavia non troviamo che autori minori, che non hanno lasciato il segno nella letteratura italiana. L’unico grande cantore dei miti nazionalistici del fascismo rimane D’Annunzio, che però non è un figlio ma un precursore del regime. In opposizione con il regime troviamo un gruppo di autori, soprattutto quelli vicini con il genere neorealista, fra cui i più celebri sono Moravia, Vittoriani e Pavese. Questi autori sono caratterizzati da un antifascismo coerente ed attivo: Moravia si spinse anche a comporre un romanzo (La mascherata, 1943) che era satira scoperta dello stesso Mussolini, e fu presto messo sotto censura, lo stesso capitò a Vittoriani con il suo “Garofano Rosso” e a Pavese, che fu anche mandato al confine. Tutti questi fatti fanno vedere un impegno politico ben più attivo di tanti che aderivano tranquillamente anche al partito fascista, pur senza condividere molti aspetti del regime o di tanti altri che preferivano rivolgere la loro attenzione a temi più introspettivi e “evasivi”. Ed è in quest’ottica che si colloca la maggior parte degli autori e delle produzioni letterarie del tempo. Infatti l’instaurarsi del regime, chiudendo, come abbiamo visto, con la sua pesante presenza il dibattito sui temi politico-sociali, favorì essenzialmente lo svilupparsi di una letteratura più introspettiva. Non c’è da meravigliarsi, infatti, che il genere più fecondo di esiti nuovi ed alti sia stata la lirica, vale a dire il genere nel quale meglio si esprime l’individuo che, isolatosi dal mondo esterno, si raccoglie in se stesso. La poesia ha un grande sviluppo, anzi, addirittura subisce una rivoluzione interna, soppiantando le regole classiche e retoriche del poetare con lo svilupparsi della corrente ermetica e l’avvento di autori come Ungaretti, Quasimodo, Montale, Saba. Tuttavia dobbiamo ricordare che anche alcuni di questi autori, ad esempio gli ultimi due menzionati, hanno avuto problemi con il regime, il primo allontanato da alcune posizioni di spicco dopo aver rifiutato la tessera del partito, il secondo costretto alla fuga e alla clandestinità perché di madre ebrea. Come in poesia, anche in prosa ha ampio sviluppo il genere riflessivo ed introspettivo, a scapito della narrazione più classica, aperta la riflessione socio-politica, come era stato da Manzoni in poi sino a Verga. Questa concezione del narrare era comunque già venuta meno nel primo ventennio del secolo, quando l’interesse per una storia organica e personaggi ben definiti era venuto meno a favore di un’analisi più profonda e particolareggiata degli argomenti, del pensiero e dello spirito dell’uomo. I romanzi di questo genere, come quelli di Svevo e anche del nostro Pirandello, erano anche diventati sempre più pretesto per una confessione autobiografica, in cui l’autore riviveva attraverso i personaggi situazioni, stati d’animo vissuti in prima persona. Prevalse dunque sempre più negli anni del fascismo questa letteratura di memorie, fantasie, sogni e divagazioni, a caratterizzare la parte più cospicua degli autori italiani. Stesso discorso possiamo farlo per il teatro, in cui le rappresentazioni erano in genere semplici, non impegnate, oppure destanti dal mondo circostante e difficilmente decifrabili, come sarà caratteristica della produzione dell’epoca di Pirandello (vedi i miti fra cui I Giganti della Montagna).Questo possiamo dire che è il quadro dello sviluppo della letteratura durante il ventennio. Quanto all’attività specifica che il regime svolse nei confronti del mondo letterario, come rispetto alle arti figurative, i vertici del governo fascista videro in esso un tassello importante per esercitare un controllo sulla società italiana. Infatti la letteratura poteva essere un fondamentale veicolo di diffusione verso le masse della “filosofia” fascista e dei suoi miti. E proprio per questo essa doveva corrispondere ai canoni stabiliti dal fascismo. Di conseguenza tutti gli ambiti letterari erano strettamente controllati dal ministro della cultura popolare .
“L’artista che voglia essere consciamente partecipe della vita politica italiana, riveda alla luce della dottrina e della cultura fascista le proprie idee, ricostruisca su direttive di quelle la propria storia mentale. Condizione essenziale è che in questo esame non si sostituisca la concezione personale a quella affermata a quella fascista”
diceva il gerarca Bottai. Inoltre questo controllo molto ravvicinato di ogni attività era volto a favorire anche con rilevanti aiuti statali quegli autori che si dimostravano più vicini al regime, il che era frutto di maggiori consensi anche nel campo intellettuale. E’ infatti cosa nota che lo stesso Pirandello si avvicinò al regime grazie ai fondi a lui promessi da Mussolini per finanziarne l’opera teatrale: per esempio la costruzione di teatro Odaleschi. Altra tappa importante del tentativo fascista di giustificazione nel suo operato dal mondo intellettuale fu il Manifesto degli intellettuali fascisti, promosso da Gentile nel 1925, nel quale i numerosi firmatari tra letterati e uomini di cultura italiani diedero la propria approvazi0one all’operato mussoliniano. Naturalmente questi furono favoriti da fondi statali nelle loro produzioni come gratifica dell’essersi posti in sostegno alle idee del regime.
Ma l’interesse maggiore del governo fascista, più che per altri generi strettamente letterari, era per quello che maggiormente poteva essere identificato come mezzo di identificazione di massa: il teatro. Infatti inizialmente è davvero rilevante l’attenzione fascista verso di esso>: nel 1936 addirittura il ministro della cultura popolare proclama per gli italiani il “sabato teatrale”, inoltre sono i grandi i fondi a favore dei commediografi aderenti al fascismo. Il teatro era dunque era al centro dell’attività propagandistica dello stato, ma se questo in un primo momento aveva significato introiti per gli autori, ben presto finì per ritorcersi contro quelli più autonomi. Infatti l’ingerenza del regime iniziò a farsi rilevante anche per quanto riguarda i temi delle stesse opere, favorendo quegli autori minori, che pur facendo lavori senza alcun valore artistico rappresentavano miti e ideali del fascismo stesso. Così il “teatro fascista”, prese il predominio nel mondo teatrale a scapito dei grandi commediografi come Pirandello. A questo dobbiamo aggiungere che a danno di questi va anche lo sviluppo del cinema, ritenuto un mezzo di primaria importanza per gli scopi del regime. Esso infatti in questi anni stava iniziando a prendere proprio il posto del teatro, anzi, convogliando a sé un gran numero di persone assumeva un valore di principale strumento di comunicazione di massa. Questo non poteva esser ignorato dal regime, che presto, soprattutto dagli anni appena precedenti la guerra iniziò, a privilegiare questo rispetto teatrale alla quale vennero tolti i fondi a favore della più convincente propaganda cinematografica. Questo sfavorì totalmente gli autori “autonomi” (quelli che come Pirandello, pur aderendo al partito fascista, mantennero la loro autonomia nei temi delle loro commedie), che se già prima avevano visto occupare sempre più posto dal teatro fascista, ora rischiavano di perdere ancora più spazio con l’avvento del cinematografo. Così si diffuse un malcontento tra di essi verso la politica del regime poiché si sentivano messi da parte ed inascoltati dal potere.
LA CONCEZIONE DEL TEATRO IN PIRANDELLO
Pirandello ha mostrato da sempre un particolare interesse per il teatro, e già nel 1896 realizzò la sua prima opera teatrale “Il Nibbio”: quest’opera era un dramma composto da tre atti ma che non trovò la via della scena nell’anno della sua composizione. Per le prime rappresentazioni teatrali bisogna attendere il 1910 quando a Roma furono rappresentati La Morsa e la Lumìe di Sicilia dalla compagnia di Nino Martoglio. Ma la vera e propria attività teatrale di Pirandello inizia nel 1915 e nello stesso anno per la prima volta fu rappresentato a Milano l’opera “Il nibbio” a cui successivamente verrà cambiato nome per ben due volte (“Se non così” e “La ragione e gli altri”). Negli stessi anni, però, lo scrittore scrive anche testi in dialetto rappresentati poi dalla compagnia di Angelo Musco. Questo era un teatro che faceva perno sulla ridicolizzazione, sulle caricature e sull’assurdo dei personaggi. Il periodo in cui Pirandello scrive i suoi drammi era molto particolare, infatti l’impianto drammatico nei primi anni del novecento era incentrato soprattutto sui problemi familiari, in particolare sull’adulterio ed i problemi economici. Il dramma era improntato sulla vita di tutti i giorni, nonostante a volte ci fosse qualche elemento di stile romanzesco ed a sfondo sentimentale. La psicologia dei personaggi, che a volte mostrava qualche forzatura, era basata su un rigido rapporto tra causa ed effetto, elemento classico del determinismo romanzesco. L’artista siculo sconvolge questi temi, parlando dell’inconsistenza della borghesia, con i ritmi frenetici degli uomini d’affari e della loro vita. Osservando attentamente le sue opere, si può vedere come Pirandello sconvolga la psicologia dei personaggi ed i lettori possano rimanere spiazzati: i suoi personaggi non sono più maschere fisse ma hanno una vera e propria personalità, sebbene a volte risultino incoerenti e contraddittori. Se si analizza la letteratura, si vede come il linguaggio sia originale ed esca fuori dagli schemi, in maniera del tutto geniale; la pensarono diversamente però, coloro che ,sbigottiti da queste innovazioni, fischiarono più di una volta le sue messe in scena, opere che come definì anche Gramsci “bombe che scoppiano nei cervelli degli spettatori”.
Comunque l’aspetto più importante della concezione del teatro in Pirandello è il problema del rapporto tra opera e messa in scena, portata a compimento nel suo forse più famoso testo teatrale, “Sei personaggi in cerca d’autore”, in cui i canoni correnti del teatro vengono stravolti : dall’opera emerge anche la concezione pirandelliana dell’impossibilità di riportare genuinamente sul palcoscenico l’idea che l’autore aveva concepito nella sua mente. Col passare degli anni, Pirandello prova però altre forme espressive, ed approda negli ultimi anni della sua vita al teatro del mito.
Gran parte della cultura europea degli anni trenta era infatti irrazionalistica e fortemente simbolistica: un clima espresso dal libro di Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche (1925), la cui seconda parte s’intitola Il pensiero mitico, e nel quale nacquero anche l’esistenzialismo e il surrealismo e in Italia la pittura metafisica, il “realismo magico” di Bontempelli, il “fantastico” di Savinio, Buzzati, Alvaro e di cui anche Pirandello risentì l’influenza.
Il modo di produrre di questi scrittori è comunque tra di loro molto diverso, e ciò dipende anche dal motivo per cui essi scelsero di ambientare le loro storie in mondi surreali: anche se alla base di tutti c’è una diffusa sfiducia verso il mondo reale e la comprensibilità che esso può avere attraverso una visione realistico-scientifica, si deve distinguere tra chi si rifugiò nel favoloso per arginare l’invadenza della censura e tra coloro i quali volevano invece soltanto rinnovare la letteratura del bel paese. Alla schiera di questi ultimi apparteneva Massimo Bontempelli (1878-1960) letterato fascista convinto, che, a differenza di Pirandello, coprì anche cariche ufficiali. Dopo aver affidato il mondo magico alla dimensione del sogno egli abbandona questa soluzione “tradizionale” e fa apparire il meraviglioso come qualcosa che “ci passa sempre a portata di mano”, qualcosa che “non è un sogno ma è come quando sogniamo”(Manacorda). Bontempelli fa nascere quel “realismo magico” che egli insegue in tutti i suoi romanzi e che andava diffondendo dalle colonne di “900”, la rivista da lui stesso fondata e diretta.
Chi invece si rifugiò nel fantastico anche per sfuggire alla censura del regime fu Corrado Alvaro (1895-1956), la cui gran parte delle opere è collocata in un ambiente primordiale in cui egli poteva camuffare le ingiustizie e la miseria della sua terra, il meridione, senza il rischio di incorrere nella censura fascista. Si parla per Alvaro di un “mito Primitivo”, anche se esso si avvicina più al fantastico bontempelliano cha al mito come lo intende Pirandello.
Quest’ultimo risentì di questa influenza che contagiò tutta l’Europa, dando voce a una sensibilità per il “favoloso”, per il “lontano”, che da sempre era attiva nelle sue opere, e che si esprime in alcuni temi ricorrenti e caratteristici: la fuga dalla società e l’evasione nell’”oltre”,in un mondo più puro e fatato, ove ogni cosa è un simbolo e dove l’esistenza è vissuta come un sogno; l’odio per il proprio corpo e l’assunzione, in alternativa, del grande corpo universale: il ritorno alla terra madre come fusione col grembo della natura.
Da tutto ciò e da una notevole delusione verso il mondo reale, in cui ormai non c’è più posto per la vera arte e per la verità (Pirandello, come già visto, riponeva inizialmente nel regime una grande fiducia nella possibilità di abbattere le finzioni della realtà, ma dopo poco ne rimase profondamente deluso), nasce la trilogia del teatro dei miti, composta da La nuova colonia (1928), mito sociale incentrato sull’utopia di una collettiva rifondazione della città, Lazzaro (1929), mito religioso incentrato sull’evasione nella fede, non però cristiana in senso stretto, e infine l’incompiuto I giganti della montagna (1934), mito dell’arte in cui il sogno artistico, rappresentato da una compagnia di teatranti in malora, osa sfidare il “brutale mondo moderno”, rappresentato da dei Giganti che abitano nello sfarzo e pensano solo al divertimento, non lasciando posto alla vera arte, la storia che la compagnia vuole rappresentare.

IL FASCISMO E I SUOI RAPPORTI CON “I GIGANTI DELLA MONTAGNA”
Come già analizzato in precedenza, abbiamo potuto notare come il rapporto tra Pirandello ed il fascismo sia quantomeno ambiguo e ricco di sfaccettature; infatti, se all’inizio lo scrittore ammira Mussolini in quanto ritiene che il suo carisma e le sue capacità possano rigenerare una società corrotta ben presto si accorge del distacco che deve avere dal duce, figura che finirà per deludere in breve le sue aspettative di rinnovamento sociale.
Siamo nel 1925 e si inaugura il Teatro d’arte, che doveva essere finanziato da Mussolini: ciò accadrà in maniera accettabile solo per poco tempo dal momento che Pirandello lascerà le sue opere indipendenti da direttive politiche facendo sì che pian piano il Duce perda la considerazione per lui ed il teatro in genere andandosi a concentrare maggiormente verso gli altri media, più diretti e a più largo consumo (diversamente a ciò che succederà a Yeats nel suo Abbey Theatre di Dublino, dove su grandi aiuti finanziari celebrava il nazionalismo irlandese).
Sembra che proprio tramite il Teatro nazionale Pirandello sia venuto in contatto con alcune opere di uno scrittore per molti versi sconosciuto: Dusnany con il suo “Gli dei della montagna” opera che contiene diverse analogie con i Giganti: la genesi dell’opera pirandelliana potrebbe iniziare quindi non nel 1928, come in una dichiarazione dell’attrice Marta Abba, ma, forse ben prima, addirittura verso il 1925 con la scoperta delle opere di Dusnany.
Ma soffermiamoci maggiormente sull’opera di Dusnany: la trama degli “Dei della Montagna” risulta ben congeniata, e mette in scena una sorta di scontro tra gli dei dediti al piacere e un gruppo di arguti mendicanti immersi in una società stupida e facilmente raggirabile; i poveri, infatti, si camuffano in dei per ricevere doni dagli abitanti della città di Kongros, rappresentata fiabescamente e con toni surreali; i finti dei però saranno puniti da quelli veri che li trasformeranno in statue di giada verde.
In questa opera, sono diversi gli spunti ripresi da Pirandello: innanzi tutto tuta l’ambientazione e lo svolgersi delle azioni dove la finzione diventa realtà; ci sono poi le rappresentazioni dei personaggi; il capo dei mendici Agmar, anche se descritto più brevemente(“Agmar, sebbene mal vestito, è alto, imperioso, e più anziano di Ulf”), ricorda molto la figura di Cotrone (“è un omone barbuto, dalla bella faccia aperta, con occhini ridenti splendenti sereni, la bocca fresca splendente anch’essa di denti sani tra il biondo caldo dei baffi e della barba non curata. Ha i piedi un po’ molli e veste, sbracato, un nero giacchettone a larghe falde e larghi calzoni chiari; in capo ha un vecchio fez da turco, e un po’ aperta sul petto una camicia azzurrina2”).
Gli scalognati poi sono sette, tanti quanti i mendicanti; esiste un’analogia anche per lo svolgersi delle azioni: in Pirandello prima fuori della villa e poi dentro, per Dusnany prima fuori delle mura e dopo entro le mura della città di Kongros.
Risulta importante per entrambi i testi poi, l’uso del colore verde, infatti, se per gli “Dei della montagna” è un tema ricorrente (le statue di Giada, i vestiti dei mendici usati per sembrare dei, la fiamma verde nella scena finale ecc) anche per “I giganti della montagna” è di rilievo (sulla vecchia porta della villa si trovano alcune tracce dell’antica verniciatura verde, il farsetto inverdito di Milordino, la lingua verde, il riflettore verde, gli occhi verde chiaro di Cromo le tre apparizioni verdi e la falda della montagna dei giganti di un tenerissimo verde).
E’significativa, infine, una frase pronunciata da Crotone in favore della categoria dei mendicanti:”Ecco come parlano i mendicanti, gente sopraffina, contessa, e di gusti rari, che han potuto ridursi alla condizione di squisito privilegio, che è la mendicità.”
Non sappiamo con precisione quanto l’opera dello scrittore anglosassone possa aver influito sulla posteriore opera pirandelliana, certo è che i personaggi, la struttura della storia e così via per certi versi coincidono; siamo così portati a pensare che l’agrigentino abbia rielaborato personalmente ed in maniera geniale gli spunti più interessanti trovati nell’opera di Dusnany.
Possiamo quindi vedere come con l’inizio dei Giganti si affievolisca decisamente l’ammirazione di Pirandello verso il fascismo poiché dal corpo dell’opera esce fuori un’immagine dell’uomo alla ricerca del mito e del sogno (proprio come Dusnany) che si scontra duramente con l’idea del super uomo tipica del fascismo; vediamo poi che la figura di Ilse, con la sconfitta della sua arte, con la sua favola che nessuno riesce ad apprezzare, denuncia la brutalità di un governo, quello fascista, che soffoca e vuole sottomettere la letteratura e le genialità dell’artista.
Tutto questo non vuol dire che “I giganti della montagna” siano un’opera di tipo politico che attacca il fascismo anche a livello internazionale; in essi si cerca piuttosto di sottolineare il contrasto tra gli interessi politici e gli interessi che sono squisitamente artistici.
E’ interessante soffermarsi sul percorso artistico di Pirandello che arriva ai “Giganti della montagna”; e per fare ciò è importante prendere in esame un’altra sua opera: “La nuova Colonia”, precedente mito pirandelliano, che presenta in sé tematiche importanti del fascismo.
“La nuova Colonia”, è un dramma che fa riferimento al colonialismo italiano di quel periodo:
Currao, innamorato della prostituta Spera, decide di fondare insieme ad altre persone una colonia nell’isola dove è nato, ormai deserta a causa di un terremoto; la comunità si dà leggi proprie e la vita continua: si celebrano nozze, Currao diventa il sovrano dell’isola e deve sposare Mita, una donna illibata; ma ad un certo punto le cose non vanno più per il verso giusto e l’isola, dove troneggia la figura della Spera che dall’apice di uno scoglio grida la catastrofe, viene colpita da un terremoto.
La prima importante tematica fascista presente è quella del ruolo femminile indirizzato verso la creatività e la creazione mentre il ruolo maschile è dedito alla costruzione, attività direttamente collegata a quella dell’architettura; tuttavia, nella visione di Pirandello la figura maschile è destinata a sprofondare verso il basso, mentre quella femminile ad innalzarsi verso l’alto soprattutto con l’immagine finale della Spera irta su una scogliera ad annunciare la catastrofe.
Risulta interessante notare come, sia il concetto di catastrofe, come altri presenti nel testo, quali l’intuitività femminile in contrapposizione alla razionalità del filosofo, l’attacco della democrazia, la virtù individuale, siano propri già del fascismo; nonostante ciò Pirandello in questa opera, ancora una volta, esce fuori dai canoni della dittatura ed anzi ne sottolinea una definitiva sconfitta, in quanto l’elemento propagandistico della colonizzazione per impiantare la vera civiltà (tema questo, molto caro allo stesso Mussolini) ne esce sconfitto in quanto i coloni dell’isola vengono puniti con la morte e la distruzione.
E proprio grazie al rapporto morte - rigenerazione e fondazione – creazione si collegano “I giganti della montagna” con “La nuova colonia”: possiamo vedere, infatti, come Cotrone e gli Scalognati siano i creatori, coloro che materializzano sogni e fantasmi mentre i coloni sono senza dubbio i giganti, dediti alle feste ed insensibili all’opera del giovane scrittore e della sua perenne interprete Ilse; e proprio questi giganti figurano altresì coloro i quali, nella società del tempo, rimanevano insensibili al teatro e non capivano appieno la forza etica e spirituale dell’artista (tra questi possiamo annoverare senza dubbio il Fascismo che, come già ricordato, ben presto preferì distaccarsi dal teatro per concentrarsi sugli altri media, anche a scapito di quel teatro dell’arte che tanto premeva a Pirandello).
Ma non basta poiché la stessa isola che richiama al mito, nella quale si svolge tutta la vicenda calza perfettamente con l’immagine dell’Italia dove ci sono altri tipi di mostri che quotidianamente cercano di uccidere il palcoscenico, sia per quanto riguarda la poesia sia per quanto riguarda le favole (basti pensare soltanto alla “Favola del figlio cambiato”, che venne più volte fischiata e poco apprezzata, agli scarsi fondi ricevuti da Pirandello e alla progressiva freddezza della gente verso il teatro).
Bisogna però ricordare, allo stesso tempo, come l’aspra critica non sia rivolta soltanto nei confronti dell’Italia ma anche verso gli Stati Uniti e tutto il teatro commerciale in genere come rivela una lettera indirizzata all’amante Marta Abba nel Luglio 1935 da New York, da un Pirandello sdegnato:
“offende brutalmente l’arte e di quanto più intimo e segreto”.
La contrapposizione Giganti-Scalognati e quindi Coloni-Creatori è ulteriormente sottolineata dall’aspetto fisico che segue lo schema Gigante-Nano, tema già più volte affrontato nella letteratura classica ed epica; gli scalognati, infatti, sono tutti descritti come degli “ometti”, mentre i Giganti richiamano maggiormente la figura negativa dei Ciclopi omerici; sono molti infatti gli elementi che richiamano i giganti a queste figure mitologiche ad iniziare dalla descrizione che Stefano Pirandello stila nel suo finale (“giganteschi gesti, enormi corpi in lotta, braccia e pugni ciclopici levati a colpire”) per finire con la traduzione da parte di Pirandello del “Ciclope” di Euripide in dialetto siciliano.
I “Giganti della montagna” quindi, prefigurano una morte del mondo che è costretto a ricongiungersi con la miticità; in particolare, leggendo il finale del figlio Stefano capiamo che il terreno in cui si svolge questa morte è il teatro in cui si scontra la poesia con la società, il tutto di fronte agli occhi del pubblico, impersonato dai Giganti nel dramma ma che esiste realmente e spesso si dimostra di una ferocia inaudita.
E la morte di Ilse sta quindi a significare la morte del teatro per la sua rinascita; tutto ciò si ricollega al pensiero di Pirandello che credeva in un mondo ormai finito la cui un’unica uscita era la totale rinascita: fu proprio questo suo pessimismo e questa speranza nella risurrezione che lo portò ad aderire agli albori della dittatura fascista, ma come dimostra il testo risultò insoddisfatto anche della nuova realtà, meschina e fredda nei confronti della produzione teatrale.
Discorso a parte è da fare nei confronti del cinema in quanto la censura e la spinta fascista è molto più evidente: la storia della “Nuova colonia”, ad esempio, risulta, infatti, scritta in visione molto ottimistica, dove è presente un sorte di lieto fine con un ritorno al lavoro per cercare di far prosperare nuovamente la colonia.
Molti sono gli episodi significativi presenti nell’intreccio quali la necessità intima di doversi dare leggi, tribunali, tutto a sottolineare il concetto “libertà non è anarchia”, la figura di Curaro che diventa il capo del suo gruppo seppur composto da emarginati.
Possiamo quindi vedere come il racconto si sviluppi in maniere didascalica secondo le linee fondamentali del fascismo: la necessità di leggi e consenso, il principio del lavoro, la colonizzazione specialmente in Africa, la pace sociale, le virtù del singolo, l’ottimismo.
Possiamo quindi concludere che mentre nella sceneggiatura cinematografica, a maggior impatto mediatico le direttive fasciste, come le censure imposte, creano una storia a proprio uso e consumo da dare in pasto al pubblico, nella versione teatrale Pirandello si distacca notevolmente dalla volontà di Mussolini e propone grazie al mito un’aspra critica contro lo Stato nei confronti del teatro. Se, poi, andiamo ad analizzare passo passo il testo de “I giganti della montagna”, in alcuni punti non possiamo non riflettere su frasi e situazioni che a prima vista possano sembrare insignificanti.
Iniziamo con la frase con cui Cotrone, all’inizio del mito, chiede informazioni sugli attori che stanno salendo verso la villa: “E allegri! C’è anche una donna?Sarà una regina spodestata”, frase senza dubbio importante e che può avere un significato nascosto; la figura di Ilse, che per la maggior parte dei critici è a buon ragione la figura del teatro, sottolinea con questa frase il misero stato attuale del teatro bistrattato dal fascismo che lo ha spodestato dal suo ruolo di primato culturale a favore del cinema.
La crisi e la sofferenza di Ilse e del teatro quindi, non è descritta soltanto con la battuta sopra citata; se prendiamo, infatti, un passo poco successivo vediamo alcuni commenti particolarmente significativi:
SPIZZI: Lei non sa nulla, non può saper nulla dell’eroico martirio di questa donna!,
e ancor prima
MILORDINO: Oh, Dio, com’è pallida….
MARA-MARA: Pare morta…;
una morte dunque, del teatro che si rivela però solo in apparenza poiché Ilse non tarda a parlare e rincara la dose per la situazione teatrale citando “La favola del figlio cambiato”:”Ne ridono tutti così, la gente istruita che pure lo vede che piango, e non se ne commuove…”; a non capire l’importanza del teatro, non è quindi solo la massa incolta, ma anche gli intellettuali e l’elitè, tra cui possiamo senz’altro annoverare anche il regime fascista. La critica contro il cinema poi, è lampante nello scambio di battute tra gli scalognati e gli attori che sono alla ricerca di un teatro dove poter mettere in scena “La favola del figlio cambiato”:
CONTE: Ma non c’è un teatro nel paese?
COTRONE:C’è, sì, ma per i topi, signor Conte, è sempre chiuso. Anche se fosse aperto non ci andrebbe nessuno.
QUAQUÈO: ….pensano d’abbatterlo….
COTRONE: ….Si per farci un piccolo stadio…
QUAQUÈO: …Per le corse e le lotte..
MARA-MARA: No, no, ho sentito che ci vogliono fare il cinematografo”.
Un’altra testimonianza, quindi della progressiva perdita di importanza della rappresentazione teatrale a favore del cinema.
Due personaggi che poi senz’altro si rivelano importanti per portare avanti la causa pirandelliana sono Cromo e Cotrone; il primo, infatti, in più di una occasione simboleggia l’artista che non ha più fiducia nel futuro e che preferisce pensare non tanto al palcoscenico quanto alla paga, al successo ed alla gloria; il secondo, invece, è colui che rimane fedele a l’onestà del teatro anche a costo di perdere tutto e che rifiuta di indossare una “maschera” come dice in una battuta fondamentale:
“Potevo essere anch’io, forse, un grand’uomo, Contessa. Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: decoro, onore, dignità, virtù, cose tutte che le bestie, per grazia di Dio, ignorano nella loro beata innocenza. Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze. Guardiamo alla terra, che tristezza! C’è forse qualcuno laggiù che s’illude di star vivendo la nostra vita; ma non è vero. Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede; ma nell’anima che parla chi sa dove; nessuno può saperlo: apparenza tra apparenza, con questo buffo nome di Cotrone… e lui, di Doccia… e lui, di Quaquèo… Un corpo è la morte: tenebra e pietra. Guai a chi si vede nel suo corpo e nel suo nome. Facciamo i fantasmi. Tutti quelli che ci passano per la mente (…)”.
Esce ancora una volta da queste parole quindi, una critica alla vita contemporanea che non può esprimersi nella sua reale ispirazione artistica, soprattutto sotto le pressioni della gerarchia fascista, dove l’unico modo per scappare è crearsi dei fantasmi interiori.
Altro personaggio fondamentale è il Conte: colui che ha dato anima e corpo, arrivando a sperperare tutte le proprie ricchezze per divulgare l’opera teatrale, e, nonostante il suo fallimento continua imperterrito nella sua missione; anche a lui Pirandello assegna battute di grande valore:
“Ma no, io non sono un esaltato; io ho creduto veramente nell’opera….” E poi continua “Avvilire l’opera è per me come avvilire lei –indica la moglie- avvilire il prezzo che ha per me quanto lei ha fatto! L’ho pagato con tutto il mio patrimonio, e non me ne importa, non me ne pento! Purché lei stia in alto però, e questa condizione in cui mi sono ridotto sia almeno nobilitata dalla bellezza e dalla grandezza dell’opera; se no… se no, tutto il disprezzo della gente… lei lo capisce… e le risa..”;
ciò sta a significare che niente è più importante della purezza dell’opera, specialmente se a macchiarla sono le direttive politiche. Questo tema, caro a Pirandello, si rivede poi anche in altri diversi passaggi interpretati da vari personaggi: “CROMO: (…)Tant’è vero che non si deve andar mai contro a ciò che il cuore comanda!”, “COTRONE: E tu non sai che non bisogna aver paura delle parole?”, “COTRONE: Povera opera! Come il poeta non ebbe da lei l’amore, così l’opera non avrà dagli uomini la gloria (…)” e, soprattutto, “ILSE: (…) Anche per una sudicia lode in un giornale!”. Si può così facilmente vedere, soprattutto con quest’ultima battuta come Pirandello abbia una profonda repulsione contro ogni forma di condizionamento o di assoggettamento contro un regime ogni giorno più oppressivo; lo stesso Cotrone, che è ormai libero dalle gerarchie e dalle convenzioni sociali è costretto a muoversi nell’oscurità come afferma all’inizio del testo: “(…) Pensate che per noi non c’è pericoli, e vigliacco chi ragiona! Perbacco, ora che vien la sera, il regno nostro!”; un’oscurità che lo nasconde e lo protegge, così come chi vuol esprimere il proprio genuino pensiero non può farlo alla luce del sole ma con mille attenzioni e rischi.
Dopo un’ attenta analisi possiamo quindi vedere come la sua iniziale spinta fascista si sia ormai completamente esaurita con il passare del tempo. La società in cui vive è ormai fonte di corruzione, meschinità ed insensibilità. Ecco perché Pirandello attua, tra le righe e non, un’aspra denuncia nei confronti del regime nella sua ultima ed interminabile opera “I giganti della montagna”.
BIBLIOGRAFIA
TESTI
• LUIGI PIRANDELLO, Quando si è qualcuno, La favola del figlio cambiato, I giganti della montagna, Mondatori, Milano, 1993
STUDI CRITICI
• AUTORI VARI, Pirandello e il teatro del suo tempo, Centro nazionale di studi pirandelliani, Agrigento, 1983
• AUTORI VARI, Pirandello e la drammaturgia tra le due guerre, Edizioni del centro nazionale di studi pirandelliani, Agrigento, 1985
• RENZO DE FELICE, Intellettuali di fronte al fascismo, Bonacci editore, Roma, 1985
• LEONARDO SCIASCIA, Pirandello dall’A alla Z, in supplemento al numero 26 de del 6 luglio 1986
• AUTORI VARI Letteratura italiana – Le questioni, Giulio Einaudi Editore, Torino 1986
• GIAN FRANCO VENE’, Pirandello fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione” Arnoldo Mondadori, Milano,1991
• AUTORI VARI, Pirandello e la politica, atti del 28° convegno internazionale Agrigento 7-10 dicembre 1991, Mursia, Milano, 1992
• G.BALDI, S.GIUSSO, M. RAZZETTI, G. ZACCARIA, Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Paravia Bruno Mondadori Editori, Varese, 2002
• PIRANDELLO L’UOMO SEGRETO
1 Gian Franco Venè, “Pirandello Fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione”Arnoldo Mondatori Editore, 1991, Milano.
2 Luigi Pirandello “Quando si è qualcuno, La favola del figlio cambiato, I giganti della montagna” Arnoldo Mondatori Milano 1993
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