Giovanni Pascoli: vita e poetica

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Testo

• La vita
Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre1855 a San Mauro di Romagna, da una famiglia di piccola borghesia rurale.
Un tragico evento toccò la sua infanzia: nel 1867 il padre fu assassinato. L'episodio segnò profondamente l’esistenza del piccolo Giovanni, che perdette in breve tempo altri familiari: la madre, la sorella maggiore, i fratelli Luigi e Giacomo.
Avvicinatosi agli ideali socialisti, Pascoli aderì all'Internazionale e conobbe Andrea Costa. Nel 1879 fu arrestato per aver partecipato a una manifestazione di protesta contro il governo, ma dopo tre mesi di prigione, e dopo che anche Giosue Carducci si era schierato a suo favore, fu assolto. Continuò comunque a seguire gli ideali socialisti, come uguaglianza e fraternità.
Si iscrisse all'università di Bologna grazie a una borsa di studio vinta al liceo, cui seguì la laurea in letteratura greca nel 1882.
Iniziò allora un' attività di poeta in latino e vinse vari concorsi internazionali.
Dopo aver insegnato latino e greco presso i licei di varie località (Matera, Massa, Livorno, Bologna), acquistò la casa di Castelvecchio di Barga, in Garfagnana, dove trascorse gran parte della sua esistenza; qui ricostruì il nido insieme alla fedele sorella Maria.
Il 6 aprile 1912 morì a Bologna a causa di un cancro allo stomaco.
• La poetica
La poesia è per Pascoli la voce del poeta che coincide con quella fanciullo che ognuno ha dentro di sé, che riscopre la realtà delle cose, anche delle più piccole; è lo sguardo del bambino che vede le cose “come per la prima volta, con stupore e ne evidenzia gli aspetti più nascosti.
Questo ricorda il pensiero di G.B. Vico, secondo cui la storia è divisa in tre cicli, come la vita dell’uomo, e solamente nel primo ciclo, paragonato all’infanzia, l’uomo, il fanciullo è in grado di essere felice ed inseguire i propri sogni.
Questo concetto lo ritroviamo nel “Fanciullino”, dove il poeta viene definito “l’Adamo che mette nome a tutto ciò che vede e sente”; il nome preciso è per il poeta come una formula magica per comprendere la verità.
Così Pascoli definisce il poeta-fanciullo “veggente”, colui che può conoscere l’ignoto, il mistero.
Con Pascoli, come per altri artisti decadenti, il poeta canta solo per cantare , senza avere impegni né morali né sociali, il poeta scrive in modo disinteressato, anche se il fanciullino invita alla fratellanza tra gli uomini, induce alla bontà e all’amore.
Questa concezione riflette pienamente il suo socialismo umanitario, utopistico, patriottico.
Pascoli infatti rifiuta la divisione in classi, e la conseguente lotta che ne scaturisce; questo si riflette anche nel modo di vedere gli oggetti, le piante, senza classificarle, come nel classicismo in cui venivano cantati solo argomenti elevati, sublimi, per Pascoli anche il più piccolo oggetto può essere carico di poesia , la poesia è anche nelle piccole cose.
Per questo nelle poesie di Pascoli possiamo trovare sia realtà umili, come il mondo contadino in “Lavandare”, sia miti ed eroi classici.
Anche se la sua formazione è stata positivistica, Pascoli è un esponente del Decadentismo italiano; questo deriva dalla visione pessimistica del mondo che si è sviluppata in lui dopo l’assassinio del padre e dalla sfiducia verso la scienza come strumento di conoscenza.
Pascoli si vede come una creatura privilegiata reso superiore dalla sofferenza e dal dolore che domina la terra, sente di dover rendere esemplare la propria tragedia e di insegnare perdono, non vendetta.
Il poeta riconosce legami fra le cose, delle corrispondenze, che non possono essere colte secondo una logica razionale e positivistica, per questo piante, oggetti e animali si caricano di significati umani, cantabili nelle poesie con l’aiuto di figure retoriche, quali sinestesie, analogie e onomatopee.
• Le raccolte poetiche
I componimenti pascoliani inizialmente vennero pubblicati su periodici e riviste, separatamente, solo dopo il poeta decise di raggrupparli, non in ordine cronologico ma suddividendoli in base allo stile e alla metrica utilizzata.
Le raccolte vennero pubblicate tra il 1891 e 1911 con i titoli: “Myricae”, “Poemetti”,”Canti di Castelvecchio”, “Poemi conviviali” e “Odi ed inni”, oltre ai componimenti in latino.
==> La prima raccolta fu “Myricae”, dove Pascoli raccolse le ventidue poesie dedicate alle nozze degli amici, uscita nel 1891. Negli anni successivi la raccolta si ampliò fino a raggiungere i 156 componimenti.
Il titolo è tratto dalla IV Bucolica di Virgilio, dove il poeta le definisce umili, “non omnes arbusta iuvant, humilesque myricae”(non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici); Pascoli così se ne impossessa come simbolo delle piccole cose.
I componimenti sono molto brevi, spesso raffigurano la vita campestre, dove sono presenti particolari che dal poeta vengono caricati di significato; troviamo qui l’idea
della morte, specialmente legata ai lutti familiari.
Sono presenti nei testi quelle soluzioni formali tipiche di Pascoli, quali: la poetica del frammento, l’uso di onomatopee e analogie.
Qui troviamo: X Agosto, Lavandare, Novembre.
==> I “Poemetti” (nome della pima edizione, quello definitivo dividerà i componimenti in “Primi poemetti” e “Nuovi poemetti”.
Anche qui argomento dominante è la vita in campagna, ma i componimenti si fanno più ampi, divenendo quasi racconti in versi.
Alcune delle opere dove la narrazione è più articolata, su uno sfondo campestre, sono: “La sementa”, L’accestire”, “La fiorita” e “La mietitura”.
Nella campagna il poeta intende raggruppare tutti quei principi, solidarietà, bontà, laboriosità, saggezza, semplicità che non possiamo ritrovare nella realtà contemporanea.
Ma nei suoi componimenti non troveremo come in Verga la realtà oggettiva, la miseria, il bisogno e la violenza, Pascoli si sofferma sugli aspetti quotidiani, umili, descrivendo minuziosamente le operazioni di lavoro, ritornando alla poetica del fanciullino, per esprimere stupore e meraviglia di fronte alle cose più comuni, ricorrendo a collegamenti con poeti antichi.
Fanno parte dei “Poemetti” anche: “Il vischio”, la “Digitale purpurea”, “L’aquilone”e “Italy”; qui i temi rappresentati sono inquietanti, come l’idea della morte.
==> Altra raccolta sono i “Canti di Castelvecchio”, definiti dal poeta il continuo di “Myricae”; troviamo ancora immagini della vita in campagna, ma anche temi morbosi come il sesso (nel “Gelsomino notturno”) e la morte, riferita alla tragedia familiare.
Qui ritroviamo paesaggi dell’infanzia legati a quelli di Castelvecchio, come per costituire un legame tra il “nido” ricostruito e quello tragicamente spezzato.
Alcune delle liriche presenti sono: : Le ciaramelle, La voce della madre, Valentino, L’ora di Barga, La cavalla storna, La mia sera, Il gelsomino notturno.
==> Il titolo “Poemi conviviali”, altra raccolta pascoliana, deriva dal fatto che molti dei componimenti presenti erano stati precedentemente pubblicati sulla rivista il “Convivio”.
Questi sono ambientati nel mondo antico, quello degli eroi classici; il linguaggio utilizzato tende a riprodurre lo stile classico, anche se i temi affrontati sono quelli consueti della poesia pascoliana, come inquietudine e angoscia.
==> I “Carmina” si possono accostare a i “Poemi convivali”, questi vengono scritti da Pascoli in occasione dei concorsi di poesia latina di Amsterdam.
Qui sono raffigurati personaggi dell’antica Roma, persone umili, gladiatori e schiavi, dove viene proiettata l’ideologia pascoliana dell’uguaglianzia e della fratellanza rispetto alla schiavitù.
==> Nelle raccolte “Odi ed inni”,”Poemi italiaci”, “Canzoni di re Enzio” e “Poemi del Risorgimento” Pascoli estende il significato di “nido” a tutta la nazione comprendendo il dramma dell’emigrazione e delle conquiste coloniali, necessarie per la sopravvivenza dei più poveri.
Inoltre Pascoli scrive anche dei saggi, come il “Fanciullino”, dove espone la sua poetica dicendo che dentro di noi esiste un fanciullo, nell’infanzia questo si confonde con la persona, ma nella maturità riesce a farci cogliere determinate sensazione ed emozioni che solo un fanciullo può avere.
Non tutti ascoltano la sua voce, ma il poeta ci riesce, arrivando a percepire le stesse emozioni, che ci permettono di piangere o di ridere.
Come l’Adamo che dà per la prima volta nome alle cose e scopre relazioni fra di esse, senza bisogno di una logica razionale.
Pascoli diviene anche critico, nei tre volumi dedicati a Dante, in “Minerva oscura”, “sotto il velame”, “La mirabile visione”, dove cerca di interpretare la poesia dantesca, anche se i suoi sforzi non saranno apprezzati dalla critica.
• Simbolismo pascoliano
Pascoli è un poeta simbolista; ogni oggetto viene percepito in modo isolato, cosicché attraverso l’immaginazione, il ricordo, le esperienze passate ne viene fatto un simbolo.
- L’“aratro dimenticato” in mezzo al campo diviene simbolo di una vita solitaria, piena di malinconia e di tristezza;
- i “fiori” divengono simbolo dell’incomunicabilità e annunciatori di morte;
- il “cipresso” è paragonato alla tomba;
- i “mostri” con cui indica guerra,
- il “nido” è inteso come la famiglia, disfatta dalle numerose morti, che il poeta ha cercato di ricostruire, per proteggersi dal mondo e dagli uomini. Questo però lo porta ad allontanarsi dall’altro sesso, così da non poter dimostrare la propria maturità, vedendo il sesso con gli occhi di un fanciullo, osservando morbosamente con fascino e disprezzo quel mondo sconosciuto.
• Le soluzioni formali
Pascoli fornisce soluzioni formali fortemente innovative, che apriranno la strada alla poesia del ‘900.
Innanzitutto abbandona l’“ore rotundo”, cioè lo stile classico in cui la frase, o il verso era composto secondo gerarchie con frasi principali , coordinate e subordinate.
In Pascoli la frase si frantuma, viene utilizzata la paratassi, per questo le poesie vengono formate da brevi frasi che sembrano non avere legame tra loro, di fatto i rapporti sono analogici, intuitivi, individuabili scorgendo le segrete corrispondenze tra gli oggetti (come afferma nel “Fanciullino”).
Non esiste più gerarchia tra le parole, tutte hanno lo stesso valore, sta al poeta caricale di significato.
Nelle poesie di Pascoli troviamo gli aspetti fonici, cioè i suoni che scaturiscono dalla lettura delle parole.
In prevalenza Pascoli utilizza onomatopee, cioè suoni scritti come parole, come il “don don di campane” in “Nebbia” o lo “sciabordare delle lavandare” in “Lavandare”, attraverso l’uso di assonanze e allitterazioni come nel “Gelsomino notturno” per indicare la lontananza dalla scena.
Con l’abbandono dello stile classico inizia ad adoperare numerosi enjamements che spezzano i versi.
Utilizza la sinestesia figura retorica che accomuna sensi diversi indispensabile per la sua poetica simbolista e decadente, come vista e udito o vista e olfatto, come nel “Gelsomino notturno” il verso “l’odore di fragole rosse”.
Il linguaggio diviene analogico, infatti vengono accostate realtà completamente diverse, che solo con l’immaginazione si può scoprire la somiglia tra le due.

• Poesie
X AGOSTO
San Lorenzo, io lo so perchè tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perchè sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano invano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
(da “Myricae”)
In questa poesia viene ricordato da Pascoli il giorno in cui suo padre venne ucciso, segnando profondamente la sua esistenza e cambiando la sua visione del mondo.
Così paragona la pioggia di stelle ad un pianto, causato appunto dalla morte del padre associata analogicamente a quella di una rondine, in modo da riproporre il tema a lui caro del nido, che ora è rimasto indifeso nei confronti del mondo esterno.
Da questo momento in Pascoli matura un pensiero negativo, quello dell’ingiustizia umana, sia a causa dell’omertà della gente che dalle indagini svolte con inerzia, infatti gli assassini non furono mai rintracciati.
Come nelle altre poesie troviamo figure retoriche quali sinestesie (e restò negli aperti occhi un grido), enjambements (E tu, Cielo, dall'alto dei mondi/sereni, infinito, immortale), metafore (d'un pianto di stelle lo inondi) e analogie, tra il padre e la rondine.
Novembre
Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini e orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.

(da “Myricae”)
Nella prima strofa troviamo un’immagine primaverile, o almeno l’illusione che viene creata dalle piacevoli condizioni climatiche.
Questa sensazione svanisce subito nella seconda quartina, quando ci si accorge che il paesaggio è segnato dall’autunno, e non dalla primavera, cosicché tutti i sogni scompaiono nell’immagine della morte, infatti il pruno che prima diffondeva profumo adesso è secco come le altre piante che precedentemente sembravano in fiore.
Nell’ultima strofa si ha definitivamente l’immagine dell’inverno che sta arrivando e di conseguenza la fine della vita.
Nella poesia ritroviamo fanciullino, infatti il poeta da il nome preciso a piante ed oggetti; troviamo inoltre il verso frammentato, l’uso della paratassi, composto da tutte frasi principali.
Lavandare
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
Come l’aratro in mezzo alla maggese.
(da “Myricae”)
Osservando la prima strofa questa poesia potrebbe sembrare opera di un poeta verista, infatti appare come la semplice descrizione di un paesaggio rurale; al contrario questa è piena di significato, infatti sia il campo mezzo arato che l’aratro senza buoi danno un senso di solitudine, di abbandono, rimarcato nelle successive strofe dal canto delle lavandaie.
Questo fa riporta alla mente la sensazione di abbandono che affligge il poeta, dovuta alle numerose morti che hanno segnato la sua vita.
Nella poesia troviamo figure retoriche come enjabements (che pare/dimenticato), onomatopee (lo sciabordare delle lavandare), metafore (nevica la frasca), similitudini e analogie, tra l’aratro e l’abbandono.
Il gelsomino notturno
E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
E` l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
(dai “Canti di Castelvecchio”)
Questa poesia è tratta dai “Canti di “Castelvecchio” e dedicata alle nozze dell’amico Gabriele Briganti, in particolare alla prima notte, infatti Pascoli affronta il tema del rapporto sessuale, argomento a lui sconosciuto a causa della grave situazione familiare segnata da numerosi lutti, che hanno portato il poeta a “chiudersi” in quel “nido”, che lui stesso ha voluto ricostruire con le due sorelle Ida e Maria, come per essere protetto dal mondo esterno.
Inoltre nella poesia troviamo sempre l’idea della vita legata a quella della morte ([…]Nasce l’erba sopra le fosse), questo sempre a causa dei numerosi lutti vissuti che nel nido hanno bloccato il poeta, impedendogli di avere rapporti con l’altro sesso e perciò di maturare.
Per questo il poeta vede il rapporto sessuale solo come una violenza alla carne, ma di questo è incuriosito, anzi ha una voglia morbosa di conoscerlo, sviluppando in lui tendenze voyeuristiche. Dalla poesia appare la lontananza del poeta dalla scena che sta descrivendo, attraverso l’uso della parola “là”, come “Splende un lume là nella sala” e “là sola una casa bisbiglia”.
La poesia è ricca di figure retoriche, come enjambement (Per tutta la notte s'esala /l'odore che passa col vento), sinestesie (Dai calici aperti si esala /l'odore di fragole rosse), metafore (l'urna molle e segreta) e metonimie (Sotto l'ali dormono i nidi).
Pascoli paragona così il fiore, che si apre di notte, al rapporto sessuale, che si sta consumando, e che all’alba appare appassito a causa della nottata in cui è stato fecondato.
Questa visione del sesso ci riportata al tema del fanciullino Pascoliano.
Nebbia
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valeriane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
Che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

(dai “Canti di Castelvecchio)

In questa poesia Pascoli parla alla nebbia, la nebbia che lo aiuta a dimenticare esperienze lontane e dolorose.
La vede come un’amica che lo protegge dal dolore della vita, insieme ai peschi, ai meli e al proprio cane; quella protezione che cerca il fanciullo dentro il poeta, che ha cercato di ritrovare chiudendosi nel “nido”, allontanando così possibili amori, che potrebbero portare in lui infelicità e sofferenza.
Infine le chiede di proteggerlo anche il giorno del suo funerale, quando farà la strada tra uno stanco “don don di campane”.
In questa poesia troviamo figure retoriche quali: anafora (Nascondi le cose lontane), onomatopee(don don), enjambements (la mura ch’ha piene le crepe/di valeriane), allitterazioni(involate al volo).
Digitale purpurea
I
Siedono. L'una guarda l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,
l'altra... I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti
più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;
quei piccoli anni così dolci al cuore...»
L'altra sorrise. «E di': non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?
i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di...?»
«morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.
Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor che bagna
l'anima d'un oblìo dolce e crudele.
Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano lontano.
II
Vedono. Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.
Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.
E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche...
Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate
oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perché mai?) piangete...
Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro!
Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.
In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l'alito ignoto spande di sua vita.
III
«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono. In quell'ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.
Memorie (l'una sa dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!
«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»
mormora, «sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenziosi. M'inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi... (l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido...) si muore!»
( dai “Poemetti”)
Nella lirica Pascoli descrive un possibile colloquio tra Maria, la sorella con cui viene ricostruito il nido, e un’amica conosciuta negli anni del convento.
Queste ricordano gli anni passati e in particolare quel fiore che aveva attirato in particolare la loro attenzione, la digitale purpurea, il fiore proibito, velenoso, a cui non potevano avvicinarsi.
L’amica confessa a Maria di aver trasgredito alle imposizioni delle suore e di essere entrata nella serra dove crescevano questi fiori e di avere sentito quel profumo dolce di rose e di viole che ora la sta portando alla morte.
Il fiore rappresenta la trasgressione, la quale per Pascoli può essere rappresentata dal rapporto sessuale (come nel “Gelsomino notturno”), dall’uso di droghe (come per altri poeti e scrittori decadenti necessarie per conoscere l’ignoto).
Subito Pascoli descrivendole, differenzia le due donne, la sorella “bionda, semplice di vesti e di sguardi”, per evidenziare la sua purezza, l’amica invece: “ma l’altra, esile e bruna, l’altra…”, inducendo il lettore a vedere qualcosa di preoccupante nella seconda. Gli occhi di una “semplici e modesti”, gli altri addirittura ardono.
Nella poesia troviamo figure retoriche come enjambements (molli terrapieni/
erbosi), l’analogia, tra il fiore e la trasgressione, e anafore.
Ritroviamo anche qui la poetica delle piccole cose e il fanciullino di Pascoli, nel voler chiamare ogni oggetto, ogni animale, ogni pianta con il suo nome così da dare loro un significato sublime.

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