Decadentismo

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PROBLEMI CRONOLOGICI RELATIVI ALLA LETTERATURA CONTEMPORANEA
Di comune accordo abbiamo scelto quest’anno di anticipare lo studio del decadentismo.E seguendo il percorso dello sviluppo della lirica italiana, dopo avere studiato Pascoli e D’Annunzio, se ne avessimo l’opportunità, in ordine cronologico potremmo continuare con i crepuscolari, i futuristi, gli ermetici, i neorealisti, insomma con quelli che il Capuana, con felice espressione, chiama gli “ismi” contemporanei. Così nella narrativa dopo avere trattato D’Annunzio, Pirandello, Tozzi, Svevo, la narrativa Solariana e neorealista, potremmo continuare giù fino agli autori che sono stati o sono i protagonisti della nostra storia letteraria : Vittorini, Morante, Pavese, Moravia, Pasolini, Gadda, Sciascia, Calvino, Volponi, , D’Arrigo, Bufalino, Consolo, Eco……Tutto questo ci fa concludere che, dovendo studiare un fenomeno letterario contemporaneo, la data di arrivo non lascia dubbi: è la più vicina possibile, l’oggi che continuamente si sposta in avanti nel succedersi degli oggi. Problematica è sempre, invece, la data di partenza. Non sempre si riesce a trovare il fatto caratteristico, singolare, che segni nella continuità del tempo, il distaccarsi di un periodo dall’altro. Per la poesia in qualche modo è possibile fissare un momento preciso, a partire dal quale qualche cosa è cambiato. Quel momento è determinato dall’uscita dell’antologia Poeti d’oggi, composta da Papini e Pancrazi, che venne fuori nell’anno 1920. Quell’antologia inizia un periodo, in quanto svincola la poesia italiana dalle successive dittature di un poeta egemone, di un primo poeta d’Italia, si fosse chiamato Carducci, o Pascoli, o D’Annunzio. Quella antologia arriva persino a prescindere drasticamente dal fatto che un primo poeta d’Italia c’era ancora, vivo e operante, nella persona di Gabriele D’Annunzio; in luogo di quelle dittature, quell’antologia instaurava la libera concorrenza e rivalità dei poeti, per quel momemto minori, dei poeti senza aureola di vati o di geni; aveva l’aria di inaugurare la libera democrazia dei poeti. Per il romanzo, un fatto altrettanto preciso, capace di diventare un fatto saliente, l’avvenimento che discrimina due periodi, non è così agevolmente reperibile. Ci limiteremo pertanto ad indicare due ipotesi avanzate da insigni storici e critici della letteratura italiana.Una, di Romano Luperini, sostenuta in una conferenza sul Romanzo del 900 fra avanguardia e tradizione, individua lo spartiacque nell’Espressionismo. In questo senso il Fu Mattia Pascal (1904) di Pirandello costituirebbe uno snodo imprenscindibile per l’evoluzione de romanzo italiano del 900. L’altra, di Giacomo Debenedetti, il più sensisibile fra i critiici italiani del 900, colloca la data iniziale del romanzo contemporaneo nel 1930: se non proprio in quell’anno esatto, intorno a quell’anno. Ritroviamo, infatti, in quel’ intorno, avvenimenti e opere iniziali, capaci di fare epoca: l’uscita degli Indifferenti di Moravia nel 1929, la scoperta di Svevo, sia quello di Una vita ( 1892) e di Senilità ( 1898), che vengono letti come nuovi nel 1925, sia quello della Coscienza di Zeno, libro ancora fresco di stampa al momento della scoperta ( era uscito nel 1923). Ma perché solo allora fu riscoperto Svevo? Non ci basta, naturalmente, a spiegarlo la ben nota aneddotica: della amicizia di Joyce che ne porta i romanzi e li fa leggere a Parigi, o del ragazzo triestino che regala i libri di Svevo a Montale e ad altri critici di passaggio per Trieste. La domanda da porci è: come mai, in quel momento si potè gustare il fino ad allora ignorato Svevo? La risposta è che nei critici e nei lettori era nato quel gusto del romanzo che in Svevo era innato. Una risposta, però, che richiede parecchie spiegazioni: come mai questa capacità ricettiva, fino a quel momento, era rimasta assente o assopita? La motivazione va ricercata nelle diffidenze, agnosticismi della Voce e dei vociani contro il genere romanzo. Della documentazione che potremmo darne, ricorderemo solamente il famoso articolo del De Robertis Saper Leggere ( La Voce, 30 Marzo 1915). Che cos’è questo saper leggere? E’, nelle testuali parole del De Robertis “ guardare all’imponderabile, acquisire il senso dell’imponderabile, rapire quanto si può più di segreto alla pagina”. Questa poetica esclude quindi dal suo saper leggere la lettura dei romanzi. In altri termini implica un dovere leggere limitato solamente a un tipo di prodotti letterari, che concedono le superiori ebbrezze di quella caccia all’imponderabile; ma in quel tipo di prodotti letterari non può rientrare il romanzo. Quel tipo di sapere leggere mette alla gogna i “ mondi”, i “drammi spirituali”, gli “psicologismi”: cioè altrettanti ingredienti che sono indispensabili allo scrittore di romanzi. Insomma la cultura vociana con il suo gusto per la prose poetique, per il frammentismo, per l’autobiografismo, negava, nei fatti, la legittimità del genere letterario romanzo. E il romanzo rinasce quando giunge il “Tempo di edificare” ( 1923). Così è intitolato un saggio di Borgese ( siciliano, autore di un romanzo intitolato Rubè) per il quale,negando implicitamente il frammentismo vociano, è giunto il tempo del ritorno al romanzo, al dramma, alla costruzione in piena regola. Dunque quel tempo di edificare coincide col nuovo tempo di tutta la letteratura italiana, a cui incombe ormai il dovere e l’impegno di opere costruttive e di maggiore lena. Le considerazioni espresse fin qui ci consentono dunque di fissare la nascita della letteratura contemporanea intorno agli anni 20-30. Ma queste considerazioni cronologiche non ci dicono ancora in che cosa consiste la “ rivoluzione” per cui legittimamente possiamo parlare di letteratura contemporanea; non ci dicono ancora quale nuovo sentimento e giudizio del mondo, quale percezione ha l’uomo contemporaneo del proprio essere ed esserci nel mondo. A queste domande cercheremo di rispondere, con metodo rigorosamente storicista, nel capitolo seguente, affrontando, ancora una volta, una questione cronologica: quando nasce la storia contemporanea?
PROBLEMI CRONOLOGICI SULLA STORIA CONTEMPORANEA
A questa domanda, già altre volte,abbiamo dato una risposta:Il prologo in “cielo” va ricercato nella prima rivoluzione industriale e nella cultura illuministica. Sappiamo, infatti, come gli ultimi decenni del settecento si fossero caratterizzati, specialmente in Inghilterra, per un generale sviluppo della economia determinato da alcuni fattori che si possono così sintetizzare: una rivoluzione tecnologica, che alla base aveva l’invenzione del motore a vapore e la sua applicazione nell’industria tessile ed estrattiva; il rapido incremento della produzione industriale; lo sviluppo dell’urbanesimo; la nascita di una borghesia capitalistica e della classe ad essa antagonista, il proletariato. E’ il trionfo della borghesia capitalistica che,forte della sua potenza economica, tende a modificare i rapporti di forza nei confronti delle classi fino ad allora dominanti, aristocrazia e clero, e così facendo, con l’illumismo, afferma principi che sono ancora oggi alla base della nostra storia: l’esistenza di diritti naturali dell’uomo e del cittadino; il concetto di sovranità popolare e di nazione; del liberalismo e della democrazia sul terreno delle dottrine politiche, del liberismo sul terreno delle dottrine economiche: Da questi principi e dalle aspirazioni nazionali muove appunto la contestazione all’ordine voluto dai congressisti di Vienna e i grandi fatti nuovi e qualificanti, che caratterizzeranno l’Europa del primo ottocento, saranno i fermenti nazionali in tutti quei paesi (Grecia, Polonia, Italia,Germania) dove erano state deluse le aspirazioni unitarie e ( spesso intrecciata con queste) la lotta della borghesia contro l’assolutismo monarchico e i ceti privilegiati per la partecipazione e gestione dello Stato.Se, dunque, i prodromi della storia contemporanea ( il prologo in “cielo”) vanno ricercati nella prima rivoluzione industriale e nell’illuminismo, è possibile fissare, invece, per il prologo in “terra” una data ben precisa: 1870 ( Sedan, sconfitta della Francia ed unificazione della germania). A partire da questa data, nei decenni successivi, i grandi principi dell’ottocento subiscono una involuzione, anzi vengono capovolti e negati. Per intendere questo processo, ancora una volta, faremo riferimento al generale sviluppo dell’economia europea determinato da alcuni fattori che così si possono sintetizzare: una rivoluzione tecnologica, che alla base ha l’invenzione del motore a scoppio e la sua applicazione nell’industria, negli autotrasporti e nell’aviazione; una concentrazione di mezzi finanziari ingenti per sostenere il rapido incremento del processo di industrializzazione in atto (capitalismo finanziario); l’espansione dei prodotti di massa destinati ai mercati internazionali; l’affermarsi di una classe imprenditoriale con forti connotati di omogeneità e valori comuni in ogni stato nazionale. E’ ancora una volta il trionfo della borghesia, della sua potenza, ma anche della sua involuzione. E’ la logica stessa della struttura economica della borghesia, di quella borghesia che pure aveva guidato nel primo ottocento i moti rivoluzionari per la creazione degli stati nazionali e per l’affermazione delle libertà costituzionali e dei diritti dell’uomo, a spingere i grandi Stati borghesi d’ Europa alle conquiste coloniali, alla spartizione del mondo e, successivamente, alle grandi guerre per una diversa divisione del mondo e per l’egemonia economica. Questo processo di involuzione viene chiamato imperialismo ed è caratterizzato dalla negazione, anzi dal capovolgimento, degli stessi valori che la borghesia aveva esaltato nel periodo precedente, quando aveva una funzione rivoluzionaria e progressiva. Così al principio della libera concorrenza si sostituiscono i grandi momopoli (cartelli, trust, ma anche barriere protezionistiche per le merci e prodotti nazionali) che costituiscono una negazione o meglio una degenerazione del liberismo economico. Così al principio dell’uguaglianza si sostituisce la realtà della ingiustificata disuguaglianza che divide i nuovi detentori del potere e della ricchezza e le grandi masse lavoratrici mantenute in condizioni di arretramento e di miseria, agglomerate nelle mostruose città moderne e legate alle fabbriche e alle macchine non meno degli antichi servi della gleba al terreno che coltivavano. Al principio della fratellanza si sostiuisce lo sfruttamento coloniale di centinaia di milioni di uomini di altre razze, considerati più bestie che uomini solo per il diverso colore della pelle, si sostituiscono i nuovi miti della superiorità della razza bianca e di determinati popoli su altri, si sostituisce, infine, il mito della guerra, dei suoi valori, della sua necessità epuratrice. Al principio della libertà si sotituisce la polemica contro le istituzioni liberali ( il parlamento, il suffragio universale), l’accanita resistenza contro lo sviluppo delle organizzazioni operaie, l’esaltazione della forza, della violenza, dell’uomo particolarmente dotato, del superuomo. Tale svolta reazionaria nasce non solo per la grande paura della Comune di Parigi e dell’espandersi del socialismo, ma anche perché la vittoria della Germania di Bismark apparve come la vittoria dell’antico regime, del principio che nega la sovranità e il diritto dei popoli a decidere del loro destino. E a poco a poco venne meno il mito di una Europa solidale, quello per il quale Santorre di Santarosa, Bayron morirono per la libertà della Grecia. E Polacchi e Ungheresi morirono per la libertà d’Italia. E Garibaldi, dimentico di Mentana, aveva combattuto per la libertà della Francia. Così il principio nazionale si corrompeva diventando fanatismo nazionalistico. I grandi ideali dell’ottocento venivano, in tal modo, negati e capovolti. Non è da stupire che gli intellettuali sentano di trovarsi di fronte a un vuoto ideale, ad una mancanza di valori che diano un significato alla vita. La storia del difficile e complesso rapporto fra gli intellettuali e la classe dirigente nel periodo dell’imperialismo è appunto la storia della cultura del novecento. Questa cultura, nel campo specifico della letteratura, prende il nome di decadentismo.
IL DECEDENTISMO E IL PENSIERO FILOSOFICO E SCIENTIFICO
Se in termini sociali il Decadentismo nasce come conseguenza del processo involutivo e reazionario della classe borghese, in termini filosofici emerge dalle ceneri del positivismo. La filosofia positivistica, che si era trionfalmente affermata negli anni tra il 1850 e il 1870, era allora entrata in crisi. Essa, come è noto, aveva diffuso una profonda fiducia nella scienza e nei suoi metodi. A giudizio dei positivisti non c’era problema umano o sociale che la scienza non potesse risolvere; non c’erano segreti o misteri che riguardavano le origini dell’uomo e le origini dell’universo che essa non potesse svelare. Esisteva l’ Inconosciuto ( quella parte della verità che i progressi della scienza non avevano ancora illuminato), non esisteva l’Inconoscibile. Ebbene , intorno al 1870 quella fede era venuta meno: Per citare una manifestazione più significativa, già il filosofo positivista inglese, Herbert Spencer ( 1820- 1903), nella prima parte dell’opera Primi Principii aveva stabilito la nozione di Inconoscibile ( Spencer affermava che “ la potenza, di cui l’universo è per noi la manifestazione, è per noi completamente impenetrabile) e aveva restituito alla Religione quel dominio che le era stato strappato dalla scienza ( a suo avviso, la Religione è il riconoscimento del mistero nell’assoluto, la Scienza la conoscenza del relativo). Dunque il mistero, che i positivisti avevano voluto sopprimere in tutti campi, riappariva come un’obiezione ai risultati insufficienti ottenuti dalla scienza, oppure come un bisogno insopprimibile dell’uomo. Ma accore ricordare che la crisi del positivismo ha ripercussioni ben più vaste: innanzi tutto la riaffermazione dell’autonomia della filosofia rispetto alla scienza, sentita come ancella sciocca e presuntuosa e dunque inaffidabile, poi una generale sfiducia nel razionalismo, che si manifesta o nelle forme moderate di rilettura dei sommi maestri Kant ed Hegel ( donde il neo-Kantismo e il neo-idealismo) o più ancora nel prevalere di correnti decisamente irrazionali come le filosofie dell’azione, il pragmatismo ecc. Non è nostra intenzione tracciare un panorama completo degli orientamenti filosofici di questa età, non ne abbiamo le competenze e del resto un panorama completo ci porterebbe troppo lontano dai nostri interessi letterari. Ci limiteremo pertanto a ricordare solamente alcuni pensatori che hanno influenzato maggiormente poeti e artisti, inziando da Bergson. Secondo il filosofo francese l’universo ( cioè il mondo e l’uomo) è una creazione continua: è quindi sempre se stesso e nel contempo altro da sé. Un tale concetto non può essere adeguatamente colto dall’intelligenza. L’essenza dell’intelligenza è quella di spiegare le cose, ma rischia di fare un lavoro inutile, spiegando qualcosa presto destinata a non essere più. Le categorie che utilizza, cioè quelle di tempo, spazio, causalità, sono false e astratte e non sono in grado di cogliere l’universo nel suo divenire. La sola facoltà che può fare questo è l’intuizione che, a “colpi di sonda”, riesce a penetrare al centro della durata, nel mistero stesso dell’Essere; essa sola è in grado di cogliere la “novità creativa” dell’eterna evoluzione. Centralissima è dunque la nozione di durata, che subentra a quella di tempo. Mentre il tempo (quello dell’orologio, del calendario) è creazione astratta dell’uomo, la durata è il tempo concreto, espressione della coscienza del movimento evolutivo. Mentre nel tempo astratto c’è distinzione tra passato- presente – futuro e la progressione è regolare, continua e irreversibile ( ad Es. tutti i minuti sono uguali –cioè di sessanta secondi-; dopo uno viene sempre un altro- e non è possibile la sospensione-; un minuto passato è finito per sempre e dunque non può essere più), nella durata manca la distinzione, la progressione è irregolare, discontinua e reversibile ( ad esempio, passato e futuro sono nel presente come ricordo). In tale prospettiva assume dunque il massimo valore la memoria, che non è più “la soffitta del passato”, ma piuttosto la cosciente esperienza della durata e dunque coincide con l’essere, ciascuno di noi è di fatto tutto quello che “ricorda” di essere stato o che sarà. In questo senso “La ricerca del tempo perduto” di Proust, la produzione di Joyce, “ “La coscienza di Zeno” di Svevo sono esemplari applicazioni di questa concezione del tempo come durata. La filosofia di Nietzsche
Per i temi affrontati e per le diverse finalità date all'irrazionale, nonché per il l ruolo di interprete della crisi della coscienza europea, del disagio e dello smarrimento dell'uomo moderno, rientra nell'area decadente Friedrich Nietzsche (1844-1900).
Opponendosi al Positivismo, Nietzsche ne rifiutò categoricamente il determinismo, lo scientismo e la fede nel «fatto». Ricollegandosi al pensiero di Scho-penhauer (1788-1860), ne trasformò il senso di rinuncia e l'ascetismo in una sorta di volontà creatrice, nel proposito di esplicare le forze libere insite nell'uomo, nell'obiettivo che la vita dovesse essere vissuta in ogni sua manifestazione. Egli pervenne a queste sue conclusioni attraverso studi di filologia classica, di cui si servì per analizzare il pensiero dei Presocratici ed esplorare la civiltà greca del VI secolo a.C.
Una prima teorizzazione del suo pensiero si ebbe con La nascita della tragedia (1872), un'opera in cui pensiero filosofico e orientamenti estetici trovano una prima formulazione. Opponendosi alla tesi neoclassica del Winckelmann, che riscontrava nell'arte greca una «nobile semplicità e una calma grandezza», egli riscopriva nel mondo greco l’incontro-scontro di due momenti eguali e contrari, il dionisiaco, simbolo dell'ebbrezza orgiastica, della forza creativa, espressione dell'adesione entusiastica all'essenza della realtà, che è fondamentalmente irrazionalità e dolore, e l'apollineo, espressione della calma olimpica, della serena armonia, della proporzione equilibrata. L'espressione artistica del dionisiaco era la musica, quella dell'apollineo l'arte figurativa. Il dionisiaco si sarebbe calato, secondo Nietzsche, nella tragedia di Eschilo e Sofocle, mentre con l'età di Socrate, di Platone e di Euripide si sarebbe affermato l’apollineo, contraddistinto da una concezione intellettualistica e razionalistica della vita e sintomo del decadimento della civiltà greca.
Successivamente, con La gaia scienza (1882) e con Genealogia della morale (1887), Nietzsche addebitava al Cristianesimo la responsabilità di avere definitivamente offuscato l'antico spirito dionisiaco attraverso la morale dell'ascetismo e della rinuncia alla vita. Il concetto del Dio cristiano si configurava come espressione di uno spirito rinunciatario e pusillanime. Al limite del suo pensiero, egli affermava «la morte di Dio», con ciò alludendo al tramonto definitivo del sistema dei valori trascendenti e nichilistici propugnato dall'etica cristiana e all'avvento di una nuova era basata sulla naturalità dell'essere umano e sulla sua dimensione umana. Superando la nostalgia per il passato ed ogni forma di palingenesi, pervenne (Così parlò Zarathustra, 1885) alla teorizzazione di un nuovo tipo umano, «l'Oltreuomo» (Uebermensch). Si trattava di un mito umano che riassumesse in sé il primitivo spirito dionisiaco, che si ponesse «al di là del bene e del male» e la cui morale fosse basata sulla volontà, sulla «fedeltà alla terra», sul ritorno alle radici fisiche e naturali e sul ripudio di ogni consolazione metafisica. In esso si sarebbe condensata la «volontà di potenza», intesa come forza capace di trasmutare il mondo e di sviluppare le infinite capacità potenziali insite nell'uomo e soffocate da secoli di abnegazioni dei valori della fisicità.
Il pensiero nietzschiano non si deve ovviamente intendere come uno scadere in facili ottimismi, né l'idea di dominio e il disprezzo dei sentimenti pietistici insiti nella morale oltreumana devono essere scambiati con gratuite deformazioni della teoria darwiniana della selezione naturale. Il suo pensiero si pone invece come una disposizione ad accettare totalmente ed entusiasticamente l'esistenza nel suo divenire incessante (amor fati), con tutto il bene e il male in essa insito e con il necessario ripetersi nell'uomo degli stessi dolori e piaceri di sempre in un eterno processo circolare. È la dottrina dell'«eterno ritorno», priva tuttavia delle componenti finalistiche ed escatologiche insite nel pensiero greco, aliena da ogni ordine cosmico, ma procedente sulla linea del «caos» e dell'irrazionalità. In questa dimensione universale «l'Oltreuomo» supera la propria mera individualità ed associa ogni suo istante temporale al ritmo extratemporale, sentendosi solidale con i cicli cosmici.
La filosofia nietzschiana è stata arbitrariamente fuorviata. La «volontà di potenza» è stata scambiata con una dottrina che esaltasse la violenza e l'annientamento dei più deboli: da qui l’interpretazione fatta da D'Annunzio ne Le vergini delle rocce e la sua distorta celebrazione nell'età nazista. L'«Oltreuomo» nietzschiano in realtà non è altro che il filosofo, l'unico in grado di comandare e di legiferare, l'unico in cui «conoscere» significa «creare», in cui la «volontà di verità» diventa «volontà di potenza».
La psicoanalisi di Freud
Di una più precisa puntualizzazione si rende meritevole l'opera di Freud, per avere esplorato campi della psiche mai toccati dalle precedenti correnti scientifiche.
L'Ottocento positivista aveva sviluppato gli studi nel campo della psicologia servendosi del modello comportamentistico. Questo, procedendo sulla scia delle teorie evoluzionistiche (Darwin, Pavlov), analizzava il comportamento umano basandosi sulla fisiologia e sulla psicologia animale e spiegava i fenomeni psichici complessi mediante l'indagine fisiologica e attraverso un'interazione organismo-ambiente. Con Freud, invece, si entra nel campo della psicologia del profondo, ovvero in un particolare campo di studi in cui i sintomi e i comportamenti patologici sono studiati in mancanza di lesioni organiche.
Il concetto fondamentale dell'indagine psicoanalitica freudiana è quello di inconscio: Ecco come lo stesso Freud lo definisce: «Una rappresentazione, o qualunque altro elemento psichico, può essere presente ora nella mia coscienza, e scomparire subito dopo; essa può dopo un intervallo riapparire immutata, cioè, come usiamo esprimerci, riemergere dalla memoria e non risultare da una nuova percezione dei sensi. Per rendere conto di un tale fatto siamo costretti a supporre che la rappresentazione era presente in noi anche durante l'intervallo, seppure latente nella coscienza [...] Chiameremo allora "conscia" soltanto la rappresentazione che è presente nella nostra coscienza e di cui abbiamo percezione, [...] invece le rappresentazioni latenti dovranno essere designate come "inconsce".
L'inconscio si configura quindi come strati psichici (ereditari, indotti, repressi), pulsioni, stimoli, pensieri, comportamenti, di cui possiamo constatare solo le conseguenze, mentre l'origine reale e i processi rielaborativi ci rimangono nascosti.
Nella terminologia freudiana esso coincide con l'Es (pronome neutro della lingua tedesca). L'Es è la forza istintiva e inconscia che costituisce il fondo oscuro della psiche. La sua definizione al neutro si fa indicativa di una natura impersonale che conserva in sé le latenze sia del mascolino che del femminino. In esso risiedono le forze tenebrose, istintuali e primitive che giacciono nei sotterranei della psiche, come l'ansia, l'aggressività, l'istinto di sopravvivenza, l'appagamento dei bisogni, l'energia sessuale (libido). In esso si raccolgono tutte le esperienze traumatiche dell'infanzia, i desideri insoddisfatti, le emozioni represse, le sensazioni, i ricordi latenti. Questo magma non si rappresenta staticamente, ma come un processo, un passaggio continuo dal conscio all'inconscio e viceversa.
Dall'Es si sviluppa una forza che prende il nome di Io. Esso rappresenta il momento della coscienza, funge da filtro, da agente regolatore tra le pulsioni istintuali dell'Es e il mondo esterno, esercita un'azione di vigilanza sulla nostra persona per controllare "i mostri" dell'Es . In esso risiede la capacità riflessiva e razionale. Ha il compito dell'autoaffermazione.
La terza forza, che assieme all'Es e all'Io costituisce l'apparato psichico, si definisce Super-Io. È anch'essa un'energia impersonale che racchiude il potere plasmante della famiglia, dell'ambiente, della nazione, della tradizione, della razza. È insomma il ricettacolo di forze etiche ove si condensano valori, ideali, fedi, codici comportamentali, modelli ideologici, frutto di un lungo processo di evoluzione della specie umana e comunque non rigidamente intesi, ma differenziantisi sia nel tempo che nello spazio, che nel singolo individuo.
Posto al centro di queste due forze impersonali e opposte in cui si coagulano diverse eredità del passato, l'Io deve di volta in volta tentare una difficile armo
nia tra gli istinti dell'Es, istinti di conservazione, sessuali, di vita (Eros), di
morte (Thanatos), e gli imperativi del Super-Io.
È facilmente intuibile quale rivoluzione le teorie freudiane abbiano determinato, non solo nel campo della medicina, ma anche in quello dell'arte e della critica. Con l'indagine psicoanalitica, l'opera d'arte viene considerata come un mito, un simbolo, una trasfigurazione dell'inconscio dell'autore. Nelle sue raffigurazioni, nel suo linguaggio egli non ha fatto altro che sprigionare energie psichiche latenti a lui ignote a livello di coscienza. È grazie ai contributi della psicoanalisi che noi possiamo comprendere la prorompente istintualità di un Baudelaire o di un Rimbaud, frutto di una oppressiva censura familiare e sociale; il difficile rapporto che Saba ha sempre avuto con la donna risale ad un antico complesso derivatogli dalla mancanza della figura paterna, È ancora con le suggestioni psicoanalitiche che possiamo interpretare il difficile rapporto esistente tra Zeno Cosini (in La coscienza di Zeno) e il padre, o ravvedere nella metamorfosi del kafkiano Gregor Samsa un riflesso del difficile rapporto che Kafka ha avuto con suo padre. Anche la sindrome dissociativa di un Mattia Pascal rientra nel solco della psicoanalisi.
Così la «memoria spontanea o sensoriale» di cui parla Proust si apre alle sollecitazioni di un inconscio che emerge grazie ad uno stimolo sensoriale; l'intero monologo di Molly Bloom e il suo «flusso di coscienza» nell'Ulisse di Joyce scorrono lungo processi inconsci; la trasfigurazione onirica del dramma sessuale ed esistenziale che ha colpito il protagonista de La morte a Venezia di Mann avviene attraverso processi che rientrano nell'indagine, psicoanalitica.
Quell'«ignoto» disperatamente cercato da Rimbaud nella Lettera del veggente , risponde a pulsioni inconsce che gli fanno percorrere l'asse del maledettismo per pervenire a quello della veggenza. L'intero movimento surrealista , con il suo «automatismo psichico» sarebbe incomprensibile senza gli apporti della psicoanalisi.
Ma questo breve profilo degli orientamenti culturali di fine secolo sarebbe riduttivo se non ricordassimo anche le scoperte della scienza. “La nascita di geometrie non euclidee ( che per es. contraddicono il principio secondo il quale due parallele non si incontrano mai) apre la strada a ricerche e a risultati che, dalla pura teoria, passano poi alla concretezza dell’indagine fisica che a sua volta ipotizza curvature non euclidee dello spazio cosmico. Queste indagini sono alla base anche della teoria della relatività einsteiniana, con la la quale vegono meno i capisaldi della fisica newtoniana. Se quest’ultima resta valida e verificabile entro i fenomeni del sistema solare, essa non è più tale a livello a livello cosmologico generale, cioè per le grandi distanze e per velocità che si avvicinano alla velocità della luce. In questo caso tempo e spazio si uniscono a formare una quarta dimensione, sicchè la localizzazione dei fenomeni naturali non è più riferibile a uno spazio e a un tempo newtoniani assoluti, ma è relativo al punto di vista dell’osservatore e cioè al sistema di misura e di riferimento impiegato”. Qualcosa di analogo alla cosmologia o macrofisica accade nella microfisica, cioè nello studio dei fenomeni subatomici, per cui oggi la fisica pensa ( teoria dei quanti di Plank) che i fenomeni siano serie di eventi nei quali si manifesta una energia, ha identificato energia e materia, infine a ha rinunciato all’idea di legge e l’ha sostituita con quella dell’onda di probabilità.Quest’ultima teoria ha immediati riflessi anche in letteratura e specialmente nel romanzo. ( Si prenda ad esempio il Dottore Zivago di Boris Pasternak. I protagonisti del romanzo, Lara, Zivago, si incontrano, in modo poco plausibile, a distanza di tempo e di vicende, in luoghi diversi ed inaspettati, tra il turbine della rivoluzione russa e della guerra contro le armate Bianche che seguì la rivoluzione di ottobre. Pasternak non sa o non vuole darci un perché di quegli spostamenti ed incontri; i romanzieri tradizionali hanno, invece, sempre l’aria di sapere quello che è accaduto durante quelli intervalli omessi e taciuti:. Pasternak no: se anche lo sapesse ha tutta l’aria di volerci mostrare che non gli importa di saperlo. Se potessimo tradurre tutto questo in un linguaggio da dilettanti di fisica moderna, dovremmo dire che Pasternak ci fa assistere all’urto degli atomi che scatena la reazione; ci dà la localizzazione del punto di urto: non può dirci la traiettora degli atomi che vi concorrono, il percorso che hanno percorso per giungere a scontrarsi, perché quella loro traiettoria sfugge al calcolo e ricostruirla per vie di congetture sarebbe un lavoro superfluo ai suoi fini. Insomma Pasternak si limita a constatare che esiste una probabilità statistica che Lara e Zivago si incontrino e ne approfitta per costruire la scena, che è necessaria drammaticamente allo sviluppo del romanzo, affinchè il romanzo sprigioni il suo significato di testimonianza sulle grandezze e su quelli che , per Pasternak, sono i tralignamenti di una grande rivoluzione.). Dunque le trasformazioni della scienza, la psicologia del profondo di Freud, le nuove filosofie sono altrettanti avvenimenti che danno vita, nei loro campi diversi, ad un nuovo sistema di coordinate dell’uomo nel mondo e quindi a nuovo sentimento e giudizio del mondo. E senza dubbio, nella misura in cui si è stabilito un nuovo sistema di coordinate , se ne riscontrono effetti anche in letteratura.
LA LETTERATURA DECADENTE
Dunque, ormai sappiamo, diverse e molteplici filosofie accompagnano la crisi del positivismo, quasi tutte riconducibili ad un comune denominatore, l’irrazionalismo, che nega ogni valore conoscitivo alla ragione ed affida ad altre facoltà umane (la sensibilità, l’intuizione ) la possibilità non di comprendere il mondo, ma di intuirlo. In questo senso una precisazione filosofica recò Noberto Bobbio col saggio su LA FILOSOFIA DEL DECADENTISMO. Il Bobbio afferma che” il Decadentismo è, assai più che un gusto letterario o uno stato d’animo, un atteggiamento di vita: implica quindi una determinata concezione del mondo e si ripercuote su tutti gli atti della vita spirituale”. La filosofia sottesa al Decadentismo è l’Esistenzialismo, espressione della crisi dell’uomo moderno, che ha abbandonato l’ottimismo fiducioso del Rinascimento e dell’Illuminismo e si ripiega su se stesso, sulla propria esistenza individuale, chiusa in un’insuperabile finitezza; e alla serenità che dava il sentimento della padronanza sulle cose sostiuisce l’angoscia di fronte al nulla. Carattere fondamentale dell’esistenza umana diventa la “deiezione”, cioè l’essere gettati nel mondo ignari della propria provenienza e del proprio destino, ignari del senso ultimo della vita. Da qui quel senso di sradicamento e di condanna alla solitudine e alla incomunicabilità di tanta letteratura del novecento Per essa esiste l’uomo, ontologicamente, eternamente solitario, svincolato da tutti rapporti umani e a maggior ragione da tutti i rapporti sociali. Così, per es., il romanziere americano Thomas Wolfe, poteva fare la seguente confessione: “ il mio sentimento della vita si fonda sulla salda persuasione che la solitudine non è per nulla qualcosa di raro o di singolare, qualcosa di peculiare solo a me e a pochi altri uomini solitari, ma il fatto ineluttabile, centrale dell’esistenza umana”.
Dalle riflessioni, fin qui condotte, possiamo intanto dedurre una considerazione: in senso stretto non è possibile fissare il termine ad quem del decadentismo, giacchè per molti versi potremmo ancora definire decadenti la nostra arte e la nostra cultura. Insomma il Decadentismo si presenterebbe come la letteratura di una crisi spirituale o socio culturale che iniziata con la fine del secolo diciannovesimo ancora non si sarebbe esaurita. Pur nella varietà delle manifestazioni artistiche e delle poetiche ( gli ismi contemporanei: crepuscolari,espressionismo,futurismo.dadaismo,cubismo,surrealismo ecc.) il termine è sinonimo di contemporaneità. Non tutti tuttavia sono d’accordo nel dare una interpretazione così estensiva al termine. Altri studiosi ritengono di doverne limitare l’uso al periodo che va grosso modo dagli ultimi decenni del secolo diciannovesimo al primo decennio del secolo ventesimo, ovvero all’età dell’imperialismo, estendono, cioè, il termine fino al fiorire delle avanguardie storiche ( espressionisti, crepuscolari, vociani, futuristi). Comunque nell’eccezione più ristretta e storicamente più rigorosa il termine Decadentismo designa un gruppo di letterati francesi, sopra tutti Rimbaud, Verlaine, Mallarmè, che tra il 1880-1886 animarono la vita culturale parigina.. Dopo avere dato vita a numerose riviste (“ La Nouvelle Rive Gauche”, “La Vogue” “La Revue Wagnerienne” ed altre) trovarono un loro organo ufficiale nella rivista “Le Decadent”. Le due antologie dei poeti “ maledetti” preparata dallo stesso Verlaine sembrarono dare una piattaforma al raggruppamento, come del resto, la pubblicazione , nel 1885, del romanzo A’ rebours di Huysmans.. In realtà in Francia da questo primo movimento abbastanza caotico si enucleò la corrente simbolista, iniziata con la pubblicazione della rivista “Le simboliste”, diretta da Moreas. Il principio da cui partono i simbolisti è di volere “interpretare per simboli il mondo reale” e da allora i poeti decadenti furono chiamati simbolisti e la provvisoria definizione di decadenti, inventata da Verlaine, non avrebbe avuta altra vita che metaforica e critica. Proprio l’enuclearsi dal decadentismo di una corrente simbolista induce ad affermare l’impossibilità di tracciare una poetica del decadentismo in generale e a sottolineare invece l’esistenza di poetiche diverse di singoli autori, tutte ricnducibili ad un clima poetico e a un sentire comune a tutti gli artisti di questa età.
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