Dal Latino al Volgare, passando da Dante sino a Machiavelli

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Testo

LE ORIGINI DELLA LINGUA E DELLA LETTERATURA ITALIANA
L’EVOLUZIONE DAL LATINO ALLE LINGUE VOLGARI
La Questione della Lingua
Niccolo Machiavelli – Il principe
La lingua italiana nasce dalle trasformazioni subite dal latino soprattutto a partire dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C. Già prima del 476 d.C. la lingua latina si divideva in:
• Lingua letteraria
• Lingua parlata o volgare (da “vulgus” = popolo)
Quella che si diffuse maggiormente fu il latino volgare, che si trasformò a contatto con gli idiomi di altri popoli estranei all’Impero Romano. Ne derivarono così nuove lingue chiamate Neolatine o Romanze. Esse sono: l’italiano, il francese o lingua d’oil, il provenzale o lingua d’oc, lo spagnolo o castigliano, il portoghese ed il rumeno.
PRIME TESTIMONIANZE
Nell' 842 dalla Francia si ha la prima testimonianza scritta in volgare romanzo: i Giuramenti di Strasburgo (con questo documento i sovrani che si erano spartiti l'impero strinsero un'alleanza).
In Italia per quanto riguarda attestazioni scritte in volgare la differenza è di poco più di un secolo:
• L'indovinello veronese (un brevissimo scritto datato tra la fine del X sec. e gli inizi del XI sec. così chiamato perché scoperto sul margine di un manoscritto conservato alla Biblioteca capitolare di Verona, probabilmente scritto da un monaco copista. È un vero e proprio indovinello dove il copista ha voluto giocare sul parallelismo fra l'atto di arare e quello di scrivere, fra il contadino e lo scrivano. );
• Il Placito capuano (del 960 d.C. È una formula contenuta in un più ampio documento riferito a un'azione giudiziaria intentata da un laico contro il monastero benedettino di Montecassino, per una questione di proprietà terriera, tutt’oggi conservato nella biblioteca dello stesso.).
Ma per la letteratura italiana vera e propria bisogna aspettare l'inizio del Duecento, e sarà fortemente influenzata da quella provenzale e francese.
La letteratura in Italia nasce in ritardo rispetto alla Francia. poichè la cultura ecclesiastica contribuì a mantenere in qualche modo in vita l'uso della lingua latina, c’era un forte uso di dialetti e il prevalere di attività pratiche, mercantili e tecniche, tra cui spiccavano gli studi giuridici, non facilitavano l’uso del volgare.
LA LIRICA FRANCESE E PROVENZALE
In Francia la letteratura provenzale è costituita dall’“amor cortese”( il poeta si rivolge alla donna amata come il vassallo al suo signore = dipendenza, servizio, protezione, omaggio, fedeltà), nasce alla fine del IX sec. e i suoi poeti sono chiamati TROVATORI. In tale lirica detta anche trovadorica l’amore è inteso come dono del cavaliere ad una donna bellissima e irraggiungibile, ed oltre alla raffinatezza altre caratteristiche sono l’accompagnamento musicale, e che molto spesso è il “Giullare” a cantare i versi del poeta trovatore.
La letteratura francese in lingua d’Oil è costituita da opere di ispirazione epica e cavalleresca. Il centro è sempre un eroe del quale sono narrate le imprese nelle diverse età della sua vita, ma anche quelle della sua discendenza e vendono divulgati gli ideali tipici cavallereschi: l'onore, la lealtà e il sacrificio. Nascono così le CHANSON DE GESTE, con il ciclo CAROLINGIO che narra le gesta compiute da Carlo Magno e i suoi paladini, si parla di una realtà idealizzata, dove si opera una rigidissima censura verso classi sociali diverse dalla nobiltà e dal clero e qualunque tensione viene indirizzata verso il mondo pagano e musulmano.
E non meno importante il CICLO BRETONE, che narra le avventure di Re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda (tra i quali Tristano e Lancillotto).
Della produzione in prosa del Duecento c’è da ricordare un importante opera famosa, il MILIONE di Marco polo, dettato in lingua d’Oil al compagno di prigionia Rustichello da Pisa.
LA POESIA RELIGIOSA
La prima manifestazione letteraria in volgare in Italia fu la poesia religiosa, nata a partire dal 1200 d.C. in Lombardia e Veneto con Giacomino da Verona e Bonvesin de la riva, e dove raggiunge le vette di alta poesia in Umbria grazie a San Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi.
Francesco d’Assisi nato nel 1882 dopo aver trascorso la sua giovinezza nel lusso decide di abbandonare le sue ricchezze e di dedicarsi ai poveri. Fonda l’ordine dei frati minori (francescani) e di lui ci restano molte opere in latini contenenti le regole del suo ordine quelle dell’ordine di Santa Chiara. Ma la sua opera più conosciuta è il “cantico delle creature” scritto in volgare. L’opera è un inno di lode a Dio attraverso l’esaltazione delle sue creature ed è stata composta intorno al 1224.
Jacopone da Todi nato nel 1236 turbato dalla morte della moglie si fece frate laico e cominciò a scrivere una serie di componimenti di tono sferzante e drammatico. Questi componimenti chiamati “Laudi” hanno per argomento la corruzione del mondo e l’esortazione degli uomini al pentimento, la più famosa fra queste è “Il pianto della Vergine”.
La prima opera in volgare non religiosa è datata sempre 1200 è di un autore anonimo fiorentino ed è il NOVELLINO, una raccolta di 100 novelle di sintassi molto elementare, di facile comprensione e di sana moralità.
LA SCUOLA SICILIANA
In Sicilia a partire dal terzo decennio del Duecento, si era organizzato in modo politicamente stabile il regno di Federico II e sotto il suo patrocinio si era venuto a formare un ambiente di intensa attività culturale aperto alle culture più diverse. Queste condizioni crearono i presupposti perché qui avesse origine il primo tentativo organizzato di produzione poetica in volgare italiano che va sotto il nome di "scuola siciliana" (così definita da Dante nel suo “De vulgari Eloquentia”) Tra il 1230 e il 1250 burocrati e funzionari di corte e lo stesso Federico si dedicarono alla poesia in volgare, ispirandosi direttamente al modello della lirica trovadorica. Si scelse però di usare un volgare che fosse depurato dagli elementi più dialettali e ricalcato sul modello provenzale, ma anche sul latino ufficiale usati nei documenti della cancelleria del regno. I maggiori esponenti sono Pier della Vigna, Guido delle Colonne e Giacomo da Lentini, ritenuto il caposcuola di questi poeti e l’inventore del sonetto, componimento fatto da 14 versi, generalmente endecasillabi, distribuiti in 2 quartine e 2 terzine.
LA SCUOLA TOSCANA – POETI DI TRANSIZIONE
Alla morte di Manfredi, l’ultimo erede alla casa di Svevia, la tradizione della Scuola Siciliana continuò grazie a un gruppo di poeti toscani.
Questa tradizione verrà chiamata “scuola toscana” o anche di “transizione” intesa come una via di mezzo fra la poesia siciliana dallo stile provenzale e quello che sarà poi il periodo stilnovista.
La scuola Siciliana passando dalla Sicilia alla Toscana, conobbe differenze sociali, economiche e psicologiche. Mentre nel Meridione esisteva un governo di tipo monarchico, nella Toscana c’erano ormai i Comuni, istituzioni che si dimostravano con una mentalità più aperta. Così in un nuovo contesto sociale la poesia siciliana ebbe alcuni ritocchi per uniformarsi alla nuova società.
La poesia d’amore fu resa meno astratta e più concreta e vi si introdussero aspetti politici, religioso e morale.
Il suo maggiore esponente è Guittone d’Arezzo, la cui più importante opera è il “Canzoniere” una raccolta di componimenti di vario carattere che rispecchiano la sua vita.
Nella prima parte vi si trovano componimenti riguardanti l’amore, ispirati dalla letteratura provenzale, nella seconda parte invece liriche religiose, moralizzanti e politiche. Della seconda parte la lirica più importante è la “Canzone per la rotta di Monteperti” che è una specie di lamento per la sconfitta dei Guelfi proclamando la fine della Giustizia e della Morale con la vittoria dei traditori. Così proprio per questa canzone Guittone d’Arezzo può essere considerato l’iniziatore della poesia politica.
Inoltre il Canzoniere di Guittone d’Arezzo diventò un modello per gli altri rimatori come Chiaro Davanzati nelle cui poesie ritroviamo già i caratteri del “Dolce Stil Novo”.
Altro esponente importante è stato CECCO ANGIOLIERI, che ha lasciato un canzoniere di circa 150 sonetti in cui ha descritto tutto un mondo di vizio e corruzione ora con vero compiacimento, ora con una sorta di velata malinconia. I suoi pregi maggiori consistono nella rapidità esemplare con cui tratteggia figure umane, nella concisione lapidaria del dialogo ma soprattutto di aver contribuito ad avviare nella nostra letteratura quel filone realistico che darà frutti cospicui dopo di lui.
IL DOLCE STIL NOVO
Il dolce stil novo segna l’inizio della grande poesia italiana, nasce a Bologna e di lì si diffonde in tutta la Toscana. Anche questo termine è stato coniato da Dante (divina commedia, purgatorio) per indicare le differenze dello stile “novo” da lui usato con quello della scuola siciliana e di Guittone d’Arezzo, come la limpidezza di stile e la delicatezza di espressione.
Guido Guinizelli è l’iniziatore di questo stile, in una sua famosa poesia si trovano, infatti, i fondamenti di questa nuova poetica.
L’opera è “Al cor gentil rempaira sempre amore” ed i punti cardine della nuova poetica sono:
• Nobiltà intesa come nobiltà d’animo, quindi non più fattore ereditario ma dote spirituale, come conquista personale.
• L’amore come conseguenza e premio di questa nobiltà
• Rappresentazione angelicata della donna, in grado di purificare l’anima dell’amante e di condurlo alla beatitudine.
Al modello lirico e ideologico di Guinizelli si ispirò a Firenze un gruppo di giovani poeti, i cui maggiori esponenti furono Guido Cavalcanti e Dante Alighieri.
Nei suoi sonetti Guido Cavalcanti descrive l’amore come un sentimento forte e violento che può portare fino alla morte; in questo si distacca dagli altri stilnovisti essendo molto più originale.
LA QUESTIONE DELLA LINGUA nel 1300
Il primo che pose l’attenzione sull’importanza di un “unica” lingua, fu Dante Alighieri. Nato nel 1265 a Firenze studiò i classici latini e s’interessò di filosofia, non ancora ventenne si sposò con Gemma Donati dalla quale ebbe 4 figli ma sin dalla giovinezza amò Beatrice (pseudonimo di Bice di Folco Portinari).L’opera di riferimento per la questione della lingua è il “De vulgari Eloquentia”.
A causa della sua attività politica fu condannato all’esilio per molto tempo e morì di malaria nel 1321. Un primo assaggio di quello che è la sua idea circa l’uso del volgare lo anticipa con il “Convivio” opera dottrinale in volgare che doveva essere di 15 libri ma si interruppe al quarto.
L’opera tratta tutta la scienza del tempo e attinge alla Bibbia, a Cicerone, a Seneca ed introduce il concetto dei 4 sensi per la lettura delle Scritture (e non solo, ciò servirà anche per comprendere appieno la divina commedia in seguito): l’allegorico, il morale, il letterale e l’anagogico.
Il Convivio è importante perché lo scrittore apre la via del sapere, prima esclusivamente degli ecclesiastici, anche ai non dotti e perché rappresenta il primo grande esempio di prosa volgare scientifica e filosofica.
Il DE VULGARI ELOQUENTIA, viene scritto quasi contemporaneamente al Convivio, ma in latino, perché indirizzata principalmente ai dotti. Doveva comprendere 4 libri ma fu interrotta al secondo. Nel primo libro Dante sostiene la legittimità dell’uso del volgare in letteratura e in poesia, sulla base di una ricostruzione minuziosa della storia dei linguaggi dalla creazione dell’uomo fino ai giorni suoi, che, se si tiene conto delle conoscenze scientifiche del tempo, appare sorprendente. La distinzione fondamentale, che sta alla base della teoria linguistica dantesca, è quella tra il volgare e la grammatica:
- il volgare è una lingua naturale, che si impara fin da piccoli e che si parla quotidianamente
- la grammatica è una lingua artificiale, creata da dei saggi, stabile e duratura nel tempo, il latino.
Il problema, dunque, per lo scrittore che ha scelto di trattare le sue materie in lingua volgare è quello di riuscire a sollevare il linguaggio parlato, rozzo e troppo comunale, al livello della grammatica; questo “ volgare illustre ((capace di dare lustro a chi ne fa uso nei suoi scritti), cardinale ((in quanto cardine attorno al quale ruotano tutti gli altri dialetti), regale ( perché se in Italia ci fosse una reggia sarebbe la sua sede), curiale ((ossia degno di una corte e di un tribunale) ” è in Italia “ quello che è di ogni città e che sembra non appartenere a nessuna, con il quale tutti gli altri volgari italiani si confrontano ”: non dunque una vera e propria lingua migliore delle altre, ma una lingua colta, ottenuta mediante un raffinamento intellettuale, affidato ai vari gruppi di letterati in rapporto fra loro operanti nei diversi centri della penisola. Dante tuttavia vedeva nella frammentazione politica d’Italia un ostacolo insormontabile alla creazione di questa lingua; la mancanza di unità politica influisce sulla mancanza d’unità linguistica.
Nel II libro Dante afferma che il volgare illustre si addice agli argomenti più elevati, quelli cioè che trattano delle virtù militari e morali dell’amore. Inoltre distingue tre “stili”: quello tragico, ossia elevato; quello comico, ossia mediano; quello elegiaco, ossia umile.
LA QUESTIONE DELLA LINGUA nel 1500
Dopo il ritorno del Latino proposto dall’Umanesimo la questione della lingua riprese vigore alla fine del 1400, al fiorire del Classicismo, e si accentrò soprattutto nella contrapposizione fra fiorentinità e italianità.
Cercare una lingua che, superando la frantumazione delle esperienze quattrocentesche, si imponga con caratteri ben definiti in tutta la penisola significa cercare una comune identità della cultura italiana.
Fra i grandi sostenitori del Fiorentino nascono due importanti correnti contrapposte:
La corrente fiorentina, sostenuta fra gli altri da Niccolò Machiavelli (che scrisse “Dialogo intorno alla lingua”), Pierfrancesco Giambullari e Benedetto Varchi, proponeva l'adozione del fiorentino com’era parlato all'epoca. Ci fu una breve variante senese, rappresentata soprattutto da Claudio Tolomei, per il quale la lingua viva da prendere a modello era la parlata di Siena.
La corrente arcaizzante, detta poi "bembismo", ebbe il suo maggior rappresentante in Pietro Bembo, che nelle Prose della volgar lingua (1525) si oppose all'ipotesi di fondare l'italiano sull'uso linguistico comune delle corti rinascimentali, la cosiddetta "lingua cortigiana", perché non si può, affermava, considerare vera lingua letteraria una parlata che non sia nobilitata dall'opera di grandi scrittori. Per lo stesso motivo si dichiarò contrario all'adozione del fiorentino parlato, perché non era lingua abbastanza elaborata. Propose dunque l'adozione della lingua fiorentina del Trecento, in particolare quella di Petrarca per la poesia e quella di Boccaccio per la prosa; Dante non fu considerato sufficientemente esemplare, perché aveva accolto nella Divina Commedia voci provenienti da dialetti o lingue diverse.
Tra i sostenitori dell’Italianità ricordiamo Giangiorgio Trissino che rifacendosi al DE VULGARI ELOQUENTIA di Dante sostiene la necessità di una lingua che contenga gli elementi comuni a tutti i dialetti.
L'opera di Bembo ebbe immediata risonanza e decretò il successo della corrente arcaizzante, che divenne preponderante dalla metà del secolo (lo stesso Varchi l'abbracciò intorno al 1560) grazie anche all'opera di Leonardo Salviati e alla fondazione dell'Accademia della Crusca (nel 1612 uscì il Vocabolario degli Accademici della Crusca, considerato sino all'Ottocento la massima autorità in fatto di lingua).
NICCOLO’ MACHIAVELLI
Nato nel 1469 da Bernardo di Buoninsegna, dottore in legge, e Bartolomea de’Nelli, soffrì in gioventù delle ristrettezze economiche della famiglia, che pure apparteneva all’antica e illustre nobiltà dei Machiavelli, feudatari guelfi di Montespertoli.
Si sa poco dei suoi primi studi: unica fonte è il libro di ricordi del padre, dal quale risulta che Machiavelli studiava sui libri di casa, fra i quali c’erano le Deche di Tito Livio. Frequentò lo Studio fiorentino ed ebbe, per maestro, l’umanista Marcello Virgilio Adriani, che lo raccomandò al governo della Repubblica.
Senza possedere particolari meriti, nel 1498 Machiavelli fu posto a capo della seconda cancelleria, scavalcando concorrenti ben più autorevoli.
L’ingresso di Machiavelli nella scena politica coincise con un periodo particolarmente inquieto della vita della Repubblica: si era concluso il processo contro Savonarola con la condanna a morte del domenicano e la nuova maggioranza tentava di consolidare il potere cercando un nuovo equilibrio. I Medici erano stati allontanati quattro anni prima, in seguito alla discesa di Carlo VIII.
A soli ventinove anni, Machiavelli si ritrovò a capo di un ufficio corrispondente a quello di un moderno sottosegretario al Ministero degli Esteri e della Guerra, anche se in realtà le maggiori decisioni venivano prese dai Dieci di libertà e di balìa. Nel 1498 ricevette l’incarico della segreteria dei Dieci e, dopo alcune missioni minori, fu inviato come ambasciatore alla corte francese, presso la quale restò per circa sei mesi. Fu quella la sua vera scuola: l’opera degli ambasciatori di allora richiedeva destrezza negli incarichi pratici, doti di osservatore, mediatore e relatore scaltro e preveggente.
Legazioni e commissarie portarono Machiavelli, dal 1499 al 1512, per incarico dei Dieci, alle corti di diversi signori. Nel 1500, dovette riferire sull’andamento della guerra contro Pisa e fu testimone della rivolta dei mercenari svizzeri e guasconi posti dal re di Francia al servizio di Firenze. Subito dopo ebbe l’incarico di calmare il re, irritato per i provvedimenti presi da Firenze contro i rivoltosi. Nel 1502, fu inviato ad Urbino presso Cesare Borgia che, impadronitosi di varie città della Romagna, minacciava la Toscana.
Tornato a Firenze, sposò Marietta Corsini, dalla quale ebbe cinque figli.
Intanto, la Repubblica aveva creato gonfaloniere a vita Pier Soderini che, confidando in Machiavelli, lo aveva mandato ambasciatore in nuove missioni: nel 1502, per la seconda volta presso Cesare Borgia, l’anno dopo a Roma, nel 1504 in Francia per chiedere aiuti militari contro gli Spagnoli e i Veneziani; nel 1505 a Perugia, a Mantova e a Siena, e l’anno dopo incontro a Giulio II, che voleva conquistare Perugia e Bologna.
In quegli anni Machiavelli aveva steso alcuni scritti, dettatigli dalle varie esperienze, e specialmente in alcuni di loro già traspirava il nucleo della sua dottrina politica.
Decise anche di realizzare un’idea che aveva cominciato a maturare dal tempo della sua prima missione a Pisa: convinto dell’infedeltà delle truppe mercenarie, persuase Pier Soderini ad organizzare un esercito nazionale. Vinte le resistenze degli oppositori politici del gonfaloniere, fu approvata la legge istitutiva della milizia e Machiavelli fu nominato segretario del nuovo ufficio. Si mise quindi ad arruolare truppe in campagna e in città per formare un esercito di almeno 5000 fanti. Alla fine del 1507, in vista di una minacciosa discesa imperiale, Pier Soderini volle affiancare Machiavelli all’ambasciatore in Germania, Francesco Vettori. Durante il viaggio Machiavelli fu per tre giorni in Svizzera ed ebbe modo in seguito di dare un giudizio acuto su quel paese, come fece più estesamente per la Germania. Al ritorno dalla missione arruolò altri soldati per espugnare finalmente Pisa.
Formatasi frattanto la Lega di Cambrai, andò a Mantova e a Verona per versare all’imperatore Massimiliano I la somma imposta ai Fiorentini. Nel 1510 fu inviato per la terza volta in Francia per persuadere Luigi XII della neutralità di Firenze nella guerra tra la Francia e il Papa; nel 1511 dovette darsi da fare per placare l’ira di Giulio II, dopo che Firenze aveva ospitato il concilio scismatico pisano.
Intanto, la situazione della Repubblica fiorentina, coinvolta nella guerra tra la Francia e il papa, si era fatta disperata: le truppe spagnole erano entrate in Toscana e le accompagnava, come legato pontificio, il cardinale Giulio dè Medici. Così, tra il 1511 e il 1512, Machiavelli si dovette occupare della difesa di Firenze, adoperandosi perché venisse approvata la “Provvigione per le milizie a cavallo”.
Il 29 agosto la milizia fiorentina fu sconfitta a Prato, gli Spagnoli entrarono in città e il 16 settembre i partigiani dei Medici occuparono il palazzo della Signoria. Il ritorno dei Medici dopo diciotto anni di esilio significò per Machiavelli, inviso per i suoi ideali repubblicani e l’amicizia con Soderini, l’esonero dall’incarico, il confino per un anno entro il territorio del dominio e, nel 1513, il carcere e la tortura perché sospettato di aver preso parte ad una congiura antimedicea.
Grazie ai suoi incarichi politici, che lo portavano continuamente a viaggiare in tutta Europa, il Machiavelli elaborò così il suo pensiero:
• In quanto storico egli è convinto che lo studio del passato sia indispensabile per capire il presente ed orientarsi nella costruzione del futuro;
• In base alla concezione naturalistica dell’uomo, ritiene che esso non possa cambiare, così come non cambiano nei secoli tutti gli elementi della natura;
• L’uomo non è solo immutabile ma anche malvagio ed inaffidabile (concezione pessimistica dell’uomo), gli uomini sono “volgo” cioè una massa informe che ha bisogno di essere guidata e plasmata;
• è necessario che questo volgo sia guidato da un uomo-eroe (il Principe di cui parlerà nella sua famosa opera) il quale dotato di qualità superiori (“virtù”) può dar vita ad uno Stato forte e duraturo;
• Tutto deve essere fatto in nome dello Stato: la religione e la vita stessa dell’uomo sono strumenti del vivere civile.
Confinato così nella solitudine della campagna, nacquero le sue opere maggiori: il “Principe”, “Discorsi sopra la Prima deca di Tito Livio”, l’Arte della guerra” e la commedia “Mandragola”.
Un documento di particolare valore è la corrispondenza con Francesco Vettori, suo antico compagno di legazione, ambasciatore a Roma: lettere che, scritte in una prosa che conserva la vivezza e l’autenticità di un colloquio diretto, sono di grande importanza per capire la complessa e a volte sconcertante personalità di Machiavelli.
Già nel 1513 aveva cominciato i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio la cui stesura e correzione si protrasse fin verso il 1519; di getto nello stesso anno 1513 scrisse Il principe. In queste due opere si trova il pensiero dello scrittore nella forma più matura e vigorosa. Argomento dei Discorsi è l'analisi delle leggi che reggono la politica in una repubblica, tenendo conto della grande lezione degli antichi Romani; nel Principe è affrontato il problema della fondazione del principato e dei modi di conservarlo. Di sentimenti repubblicani il Machiavelli era, infatti, convinto che a costituire uno Stato fosse necessaria l'azione energica di un solo capo, e che pertanto il principato sia la prima necessaria fase dello Stato, il quale successivamente trova una sua stabilità non più nella volontà di un individuo ma nella imparziale forza delle leggi. Tenendo presente la situazione politica d'Italia Il principe venne dunque scritto come libro di politica militante; ma l'ingegno fortemente speculativo dell'autore, pur estraendo prove ed esempi dalla recente politica e in particolare dalla condotta esemplare di Cesare Borgia, poneva qui nella forma più recisa i princìpi fondamentali della sua dottrina: indipendenza della politica dalla morale e riconoscimento delle dure leggi della politica, indissolubile rapporto dialettico di virtù e fortuna, necessità di fondare in Italia l'unità statale sull'esempio delle grandi monarchie dell'Europa occidentale.
Divenendo il confino progressivamente meno rigoroso il Machiavelli poté recarsi di tempo in tempo a Firenze, dove frequentò anche le riunioni degli Orti Oricellari. Lì il Trissino, circa il 1514, aveva esposto le sue teorie sulla lingua e a loro confutazione il Machiavelli scrisse il Dialogo intorno alla nostra lingua, nel quale, con grande originalità di vedute, sostenne la tesi della fiorentinità della lingua; e come relazione di discussioni svoltesi negli Orti Oricellari vennero presentati anche i dialoghi dell'Arte della guerra, scritti più tardi fra il 1519 e il 1520.
Nel 1520, Machiavelli ottenne dallo Studio fiorentino l’incarico di scrivere gli annali e le cronache della città. Iniziò così la stesura delle Istorie fiorentine, alle quali si dedicò dal 1520 al 1526, con l’interruzione di qualche breve incarico.
Gli ultimi eventi politici tennero Firenze in continuo turbamento a causa della guerra tra Francesco I e Carlo V. Machiavelli, che aveva tentato inutilmente di formare un esercito nazionale guidato da Giovanni dalle Bande Nere per ostacolare la marcia vittoriosa di Carlo V, si occupò della difesa della città e assunse l’ufficio di cancelliere dei Cinque Procuratori delle Mura.
Nel 1527, giunse a Firenze la notizia del Sacco di Roma, la città si ribellò ai Medici e proclamò di nuovo la Repubblica. Fu eletto gonfaloniere Niccolò Capponi e Machiavelli sperò di essere eletto dal ricostituito ufficio dei Dieci della Guerra, ma a causa dei suoi rapporti coi Medici, gli fu preferito un altro.
Amareggiato e indebolito dai disagi di quegli ultimi mesi, morì dopo una breve malattia, lasciando i suoi nella povertà.
Machiavelli è importante perché viene ritenuto l’inventore di una nuova scienza, la politica, in quanto scinde questa dalla religione, e quindi dalla provvidenza, e la basa su fatti della realtà, le leggi universali. Il nuovo concetto della politica si basa sullo studio dell’uomo e le leggi che regolano la sua vita. Col Machiavelli non ha inizio il pensiero politico moderno, fondato sulla distinzione di politica e morale.
Inoltre, Machiavelli fu tra i primi a teorizzare l’unificazione dell’Italia, ma nel 1500 non c’erano le condizioni per realizzarla, infatti, le sue opere, in cui esprime queste teorie, sono considerate utopie.
Machiavelli è indubbiamente uno dei più straordinari personaggi sia della nostra storia che della nostra letteratura. Per la storia perché ha dato un’impronta indelebile allo studio attraverso la realtà sia dell'organizzazione politica del principato che della repubblica (Il Principe e i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio), e per la nostra letteratura perché la novella Belfagor e la commedia La Mandragola sono veramente due capolavori, tanto che se si fosse dato al teatro avrebbe impresso sicuramente una svolta al teatro italiano.
IL PRINCIPE
Il Principe è un’operetta molto breve, scritta in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero; si articola in ventisei capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino, secondo la consuetudine trattatistica di quel periodo.
La materia è divisa in diverse sezioni. Nei capitoli dal I all’XI si esaminano i vari tipi di principato e si mira ad individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra principati ereditari, a cui è dedicato il II capitolo, e nuovi; questi ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo stato ereditario di un principe, capitolo III, o nuovi del tutto, capitolo IV e V; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie, capitolo VI; oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui, capitolo VII in cui viene proposto come esempio il Duca Valentino.
Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze; Machiavelli distingue la crudeltà in due modi: bene e male. La crudeltà bene è quella impiegata solo per assoluta necessità e che si conviene nella maggiore utilità possibile per i sudditi; mentre la crudeltà male è quella che cresce col tempo anziché cessare ed è compiuta per l’esclusivo vantaggio del tiranno.
Nel capitolo IX, si affronta il principato civile, in cui il principe riceve il potere dai cittadini stessi; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell’XI si parla dei principati ecclesiastici, in cui il potere è detenuto dall’autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa.
I capitoli dal XII al XIV sono dedicati al problema delle milizie. Machiavelli giudica negativamente l’uso degli eserciti mercenari perché combattevano solo per denaro, sono infidi e pertanto costituiscono una della cause principali della debolezza degli stati italiani e delle pesanti sconfitte da essi subite nelle recenti guerre; per Machiavelli, la forza di uno stato consiste nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattono per difendere i loro averi e la loro vita.
Nei capitoli dal XV al XXIII, tratta dei modi di comportarsi del principe coi sudditi e con gli amici. E’ la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente è più radicale e polemico, in cui Machiavelli, anziché esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe, va dietro alla scelta effettuale delle cose. Sono questi capitoli che hanno suscitato più scalpore, e hanno tirato per secoli su Machiavelli l’esecrazione e la condanna.
Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella crisi successiva al 1494, hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore è essenzialmente l’ignavia dei principi, che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava e porvi i necessari ripari.
Da qui scaturisce naturalmente l’argomento del capitolo XXV, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, di porre gli argini alle variazioni della fortuna, paragonata ad un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati.
L’ultimo capitolo, cioè il XXVI, è un’appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energetico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l’Italia dai barbari.
Il Principe è un’opera di insegnamento: Machiavelli è il primo storico che crede possa avvenire l’unità d’Italia, ma le sue dottrine, in questo periodo, vengono considerate utopiche, in quanto sono irrealizzabili. Secondo lui, la storia è considerata come espressione di pochi individui eccezionali.
Machiavelli ed il suo pensiero sono ricordati erroneamente oggi con la frase: “Il fine giustifica i mezzi” mentre in realtà ad un’accurata analisi non si trova riscontro di tale affermazione del pensiero machiavelliano, il quale poteva altresì intendere che “il Principe per il bene dello Stato, doveva poter fare tutto”

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