La musica

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Testo

La Musica
MOTIVAZIONI:
La musica: un mondo che mi ha sempre affascinato e mi ha convinto a creare un percorso multidisciplinare nel quale poter analizzare la sua importanza e la sua funzione in diversi ambiti. La passione per la chitarra classica è nata alle scuole medie, quando ho deciso di seguire il corso musicale. La musica, e in particolare quella classica, è in grado di trasmettere sentimenti molto forti, poiché per la sua natura non rappresenta nulla di figurativo, ma sa creare suggestive atmosfere sonore che possono suggerire a chi le ascolta immagini o ricordi. La dimensione evocativa della musica è quindi il motivo che più mi ha spinto a intraprendere questo itinerario. Sono rimasto colpito dalla posizione che la musica ha saputo occupare in diversi ambiti disciplinari: un filosofo la eleva a tal punto da ritenerla la migliore delle arti come via di liberazione da una vita dolorosa nella quale il piacere e la gioia sono momenti effimeri e fugaci; un poeta la considera la miglior via per avvicinarsi alla natura, per poter creare la profonda unione con essa, e riuscire a liberarsi di ogni regola morale completando la metamorfosi panica; una scrittore inglese le conferisce una forza inaspettata: la forza di evocare in una donna ricordi passati dolorosi, pur essendo in un contesto di festa e di gioia; un poeta sceglie la poesia e la musicalità del verso per poter divulgare una dottrina filosofica materialista e meccanicista, lontana dal pensiero a lui contemporaneo. La musica è dunque un’arte presente in ogni aspetto del reale, nella vita quotidiana e nelle occasioni singolari. Per tutti questi motivi ho deciso di analizzare l’importanza e l’uso della musica in diversi ambiti disciplinari.
INTRODUZIONE:

Esecuzione di “Danse des lutins”.
La tonalità del brano è mi minore e inizia con la prima battuta incompleta, tramite la tecnica dell’anacrusi, secondo la quale l’accento ritmico si sposta dal primo tempo in battere al secondo il levare: ciò condizionerà tutto il carattere del brano che risulterà sempre in movimento.
“Danse des lutins” è apparentemente un brano semplice e scorrevole, ma in esso sono contenute le principali caratteristiche della musica romantica. La melodia è dolce e malinconica ma accattivante, mentre l’armonia è di stampo romantico (libero da obblighi di percorsi armonici ma carico di espressività). Semplice è la struttura in forma A-B-A, che vuole dire A: esposizione, B: sviluppo, A: ripresa.
Sono presenti inoltre frequenti variazioni di tonalità anche in una stessa battuta, frasi irregolari nella loro lunghezza che spezzano la più rigida struttura classica.
Tale brano mostra le principali differenze tra lo stile classico e quello romantico che proverò a mettere in luce.
Un brano classico si presenta solitamente in una tonalità che non varia e rimane la stessa per tutto il brano. Altra particolare caratteristica di un brano classico è la divisione delle “frasi musicali” secondo uno schema ben preciso: in otto battute che formano un periodo. Nelle prime quattro battute si trova la frase principale e, nelle altre quattro, la “risposta”: tale schema viene seguito in tutto il brano, creando una suddivisione precisa e “matematica”. In “Danse des lutins”, invece, le frasi musicali sono disgiunte dalla divisione regolare: il brano inizia in levare e le semifrasi (di due battute) terminano sul secondo tempo delle battute, dividendole in questo modo a metà. Di stile romantico è anche la presenza dei suoni armonici finali, ritenuti più evocativi, quindi adatti a tale stile nel quale gli artisti tendono ad allontanarsi dallo schema preciso della musica classica: sono presenti crescendi e decrescendi di volume, frasi più corte e alcune più prolungate, che “spezzano” la precisa ritmicità classica.
Tale brano in un certo senso si avvicina anche allo stile contemporaneo del Novecento, che coincide con l’avvento del decadentismo: ogni schema razionale viene messo da parte, per lasciare spazio alla libertà espressiva. La musica di autori contemporanei dei primi 60 anni del 900 si presenta più difficile da ascoltare in quanto atonale e completamente staccata da schemi razionali; ne vuole essere un chiaro esempio lo studio n° 3 di Leo Brouwer, che, come noterete, risulterà meno ricco melodicamente ma estremamente vivace ritmicamente. Il risultato, molto soggettivo comunque, sarà di ascoltare 2 brani completamente differenti tra loro ma che contengono elementi per suscitare particolari emozioni.
In “Danse des lutins” sono presenti note alterate che non fanno parte della tonalità del brano e che da un punto di vista classico sarebbero considerate errate e non sarebbero ammesse, mentre dal punto di vista del musicista contemporaneo risultano persino troppo legate alla tonalità e vengono quindi portati all’estremo; il risultato è un brano che al nostro udito, abituato a una melodia tonale, giunge una musica “strana” che potrebbe non trasmettere particolari emozioni, ma che si inserisce completamente in un contesto in cui cade ogni razionalità, in ambito letterale come in quello artistico (si giunge infatti all’astrattismo).

LETTERATURA ITALIANA:
“La pioggia del pineto” di Gabriele D’Annunzio
“La pioggia nel pineto” di Gabriele D’Annunzio è una lirica fondamentale nella produzione del poeta, contenuta nel libro Alcyone, sezione delle “Laudi”, composta da quattro strofe di versi liberi di varia lunghezza. Il testo narra la metamorfosi del poeta e della donna amata (Ermione), in elementi della natura, attraverso l’importante concezione panica, elemento fondamentale del suo pensiero. I due protagonisti sono ritratti durante una passeggiata nel pineto: un’ improvviso temporale estivo spinge il poeta a richiedere il silenzio della donna, poiché riescano a escludere il rumore delle parole umane e lasciare spazio all’armonia di suoni che la pioggia crea, abbattendosi sulle varie essenze della vegetazione.
Il tema fondamentale di questa poesia è quindi la metamorfosi panica della donna, prima, e del poeta, poi, i quali riescono ad avvicinarsi ed immedesimarsi completamente nella natura, attraverso una dissoluzione dell’ identità individuale alla ricerca di un’identità globale nuova, che si configura nella natura.
L’autore decadente analizza tale tematica creando una suggestiva immagine naturale strettamente collegata alla dimensione musicale. Attraverso ripetizioni, enjambements, rime di diverso tipo (baciate, interne, rimalmezzo), assonanze, consonanze, allitterazioni e onomatopee, l’autore crea un’atmosfera musicale presentando una vera e propria orchestra nella quale si contraddistinguono le voci soliste delle cicale e delle rane che si alternano con quella corale prodotta dalla pioggia che cade su ogni elemento naturale. L’autore unisce il panismo e la musica poiché vuole creare un esempio di poesia pura: alla base del simbolismo e del panismo stesso c’era la convinzione che la musica e l’armonia legano ogni essere della Natura; essa diventa quindi uno strumento per attuare la completa metamorfosi del poeta con la natura.
Il “taci” iniziale rivolto dal poeta alla donna vuole creare fin dall’inizio una distanza profonda tra la dimensione umana delle parole della donna e la voce musicale della pioggia che cade sugli elementi naturali. D’Annunzio abbraccia la concezione del panismo in quanto egli vuole liberarsi da ogni norma morale e aspira a una completa unione con la natura, attraverso una metamorfosi che spersonalizza l’uomo e annulla la sua individualità, per sostituirla a una nuova identità globale, unita a quella di tutti gli elementi naturali.
La dimensione musicale ne “La pioggia nel pineto” assume quindi importanza oltre che sul livello tematico anche su quello formale: le parole diventano veri e propri suoni e le continue ripetizioni conferiscono alla lirica un’impronta ritmica molto accentuata.
La musica diventa simbolo dell’unione tra il mondo umano e quello naturale, che si fondono l’uno nell’altro e parlano il linguaggio universale dei suoni. Nella rassegna degli elementi naturali sui quali cade la pioggia prevale la dimensione naturalistica che chiama in causa tutti i sensi di percezione dell’uomo e li unisce attraverso frequenti sinestesie. La pioggia oltre che cadere fisicamente sugli elementi della natura, cade anche sui pensieri dell’uomo: grazie alla pioggia l’anima è capace di una nuova fioritura (schiude novella) di pensieri (freschi pensieri) che si condensano nella “favola bella”: l’amore è la fondamentale via d’accesso alla metamorfosi. Anche nella quarta strofa il poeta introduce l’analogia tra il pianto e la pioggia in chiave però erotica, che secondo la visione estetica è la porta d’accesso al panismo.
La dimensione della musica nella “Divina Commedia” e in particolare nel Paradiso
Nella “Divina Commedia”, la dimensione musicale appare nel Purgatorio, dove le anime, contrariamente a quanto succede nell’Inferno, hanno la speranza e sanno che l’espiazione delle loro colpe è solo temporanea e in futuro potranno salire al Paradiso e avvicinarsi alla beatitudine divina.
La musica diviene quindi simbolo della speranza, della bontà e della gioia di espiare le proprie colpe per diventare beati. Il primo esempio concreto della dimensione musicale crea un forte contrasto con l’immagine simile presente nella prima cantica: nel II canto del Purgatorio, Dante vede arrivare l’angelo nocchiero incaricato di trasportare le anime al Purgatorio per espiare i propri peccati. Le anime che stavano sul “vasello snelletto e leggero” “cantavan tutti insieme ad una voce con quanto di quel salmo è poscia scripto” : si incontra in questo passo la coralità musicale che accompagnerà tutto il Purgatorio e in particolare il Paradiso. Sempre in questo canto il poeta incontra l’amico Casella, un eccellente musico, che esortato dal poeta stesso per alleviare l’affanno derivante dall’attraversamento dell’Inferno, intona un soave canto che cancella ogni pensiero dalla mente di tutti i presenti alla scena. Dante sottolinea la dolcezza di questo canto, che si oppone chiaramente alle bestemmie, agli spergiuri e il rumore assordante presente nell’Inferno dato dalle grida dei dannati.
Nel canto II del Paradiso al verso 82 (“La novità del suono e ‘l grande lume di lor cagion m’accesero un disio mai non sentito di cotanto acume”) Dante, giunto nel Paradiso ha il primo dubbio: chiede a Beatrice il perché di così tanta luce e di quella musica così diversa da quella che era abituato a sentire nel Purgatorio. Il timbro della musica è cambiato, così come è cambiata la sua funzione e la sua concezione: qui è di tipo divino, non più terreno come nel Purgatorio.
Nel canto XVII del Paradiso Dante incontra Cacciaguida: la prescienza divina che si rivela all’avo riguardo il futuro del poeta viene presentata come la dolce armonia dell’organo che giunge alle orecchie.
La musica in questi tre esempi è strettamente legata alla dimensione divina, alla beatitudine e alla bontà presenti nel Paradiso e nel Purgatorio.
Nel canto VI sempre di questa cantica al verso 124 introduce questo passo: “Diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote”. Giustiniano risponde alla domanda di Dante che non capisce perché i beati presenti in questo cielo abbiano un così basso grado di beatitudine: egli risponde che essi hanno operato il bene, ma per ambizione di gloria terrena. Essi sono contenti della loro posizione seppur “bassa” nei cieli del Paradiso, poiché vedono giusta la ricompensa rispetto a ciò che hanno fatto in vita. Nel passo proposto la musica diventa simbolo della gioia dei beati, che non sono invidiosi della posizione di altri. C’è un accenno alla musica polifonica che andava affermandosi in quel periodo a discapito dell’omofonia del canto gregoriano.
LETTERATURA LATINA:
lettura in metrica di “I misfatti della religio: il sacrificio di Ifianassa” di Lucrezio del “De Rerum Natura”
Per divulgare la dottrina epicurea a Roma Lucrezio utilizza la forma del poema epico didascalico. Tale scelta fu oggetto di grande dibattito: Epicuro condannava la poesia e l’epica omerica, considerate diseducative, poiché cantano un mondo di belle invenzioni, regnato da divinità completamente antropomorfe, divulgando in questo modo un’immagine che impediva all’uomo una retta concezione dell’essere divino e lo allontanava inesorabilmente dalle dimensione razionale della realtà. I seguaci di Epicuro si erano quindi avvicinati raramente alla poesia e, comunque, sempre in modo superficiale, atto a suscitare solamente un “epidermico piacere”.
Lucrezio però supera questa visione e per diffondere la dottrina epicurea usa addirittura la poesia: Epicuro era giunto a condannarla a causa dello stretto nesso fra poesia e mito, Lucrezio afferma che tale legame può essere facilmente sostituito dal nesso tra poesia e verità. Il poeta stesso giustifica la sua scelta con l’uso di una metafora: come i medici cospargono di miele la tazza con la medicina amara perché sia più piacevole, così la poesia ha il compito di “addolcire” e rendere meno arduo l’apprendimento di questa filosofia che si allontana dai canoni tradizionali romani.
Il testo, grazie alla metrica che segue un ritmo scandito e preciso, assume una musicalità molto accentuata, data anche dall’abbondanza di allitterazioni e assonanze (ante aras adstare) (muta metu) (mactatu maesta)… le allitterazioni e le assonanze di questo brano sono sempre più frequenti man mano che ci si avvicina alla fine della vicenda: in un continuo crescendo di suoni e solennità, Ifigenia (o Ifianassa) va incontro alla morte, come rito propiziatorio per la partenza delle navi greche alla volta di Troia; ciò che però più sconcerta il poeta non è l’immolazione vera e propria, ma lo sfondo nuziale che il padre conferisce a tutta la scena: la figlia capisce solo all’ultimo momento che quel rito non sono le sue nozze, ma il suo sacrificio: Ifigenia se ne rende conto da alcuni particolari, come il padre maestum (sconsolato), i sacerdoti celare ferrum (nascondere i pugnali), i concittadini che alla sua vista lacrima effundere (piangono) e soprattutto dalla benda sacrificale (infula) che le viene avvolta intorno alla sua virgineos cirumdata comptus (chioma di vergine adornata), tale benda era usata per coprire il capo degli animali da sacrificare.
Testo latino:
Illud in hìs rebùs vereòr, ne fòrte reàris
Ìmpia tè ratiònis inìr (e) elemènta viàmque
Ìndugredì scelerìs. Quod còntra saèpius ìlla
Rèligiò peperìt sceleròs(a) atqu(e) ìmpia fàcta.
Àulide quò pactò Triviài vìrginis àram
Iphianàssaì turpàrunt sànguine foède
Dùctorès Danaùm delècti, prìma viròrum.
Cùi simul ìnfula vìrgineòs circùm data còmptus
Èx utràque parì malàrum pàrte profùsast,
Èt maestùm simul ànt(e) aràs adstàre parèntem
Sènsit, et hùnc proptèr ferrùm celàre minìstros
Àspectùque suò lacrimàs effùndere cìvis
Mùta metù terràm genibùs summìssa petèbat.
Nèc miseraè prodèss(e) in tali tèmpore quìbat
Quòd patriò princèps donàrat nòmine règem
Nàm sublàta virùm manibùs tremibùndaqu(e) ad àras
Dèductàst, non ùt sollèmni mòre sacròrum
Pèrfectò possèt clarò comitàr(i) Hymenaèo
Sèd cast(a) ìncestè nubèndi tèmpor(e) in ìpso
Hòstia cònciderèt mactàtu maèsta parèntis,
èxitus ùt classì felìx faustùsque darètur.
Tàntum rèligiò potuìt suadère malòrum.
traduzione:
A tale proposito temo questo, che tu per caso non creda di essere iniziato a principi di una empia dottrina e d’incamminarti per una via di empietà. Mentre al contrario assai spesso quella superstizione suole generare azioni scellerate ed empie.
Così in Aulide gli eletti condottieri dei Greci, il fior fiore degli eroi contaminarono turpemente col sangue di Ifianassa l’ara della vergine Diana.
Allorché la benda avvolta attorno alle virginee chiome scese in ugual misura a lei su l’una e l’altra guancia, e tostochè s’avvide che il padre sconsolato era dritto innanzi all’altare e presso di lui i sacerdoti celavano il ferro e il popolo piangeva alla vista di lei, muta per il terrore piegandosi su le ginocchia si abbatteva a terra.
Né alla misera in tale momento poteva giovare (il fatto) che fosse stata la prima a chiamare col nome di padre il re; giacchè fu sollevata dalle mani degli uomini e fu condotta tremante all’altare, non affinché, compiuto il solenne rito sacro, potesse essere accompagnata dal luminoso corteo nuziale, ma (affinché), proprio nel tempo in cui avrebbe dovuto sposarsi, casta vittima sacrilegamente cadesse sconsolata per mano del padre, affinché una felice e fausta uscita (dal porto) fosse concessa alla flotta. A così grandi misfatti la superstizione potè indurre.

FILOSOFIA:
La musica come via di liberazione dal dolore in Schopenhauer
Il filosofo afferma che l’essenza dell’uomo e di ogni elemento naturale è la volontà, che crea desideri illimitati sia qualitativamente che quantitativamente: tali desideri però non possono essere appagati nella loro totalità e portano, in questo modo, l’uomo al dolore.
Afferma chiaramente il filosofo: “per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti”.
Volere significa desiderare e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione per la mancanza di qualcosa che non si ha; il desiderio risulta quindi assenza, mancanza di, vuoto, quindi dolore.
Il piacere e la felicità in tale contesto sono viste come momentanee cessazioni del dolore; come realtà quindi, che necessitano di una situazione di dolore precedente e successiva ad essa: lo stesso filosofo afferma: “non v’è rosa senza spine, ma vi sono parecchie spine senza rose!” (Parerga e paralipomena). Il piacere esiste in funzione del dolore e quando viene meno il desiderio, e si annullano, di conseguenza, il dolore e ogni forma di piacere legato ad esso, subentra la noia.
La vita dell’uomo è quindi come un pendolo che oscilla costantemente tra il dolore (dato dall’insoddisfazione dei piaceri) e la noia che sostituisce il primo sentimento quando viene meno la spinta della volontà.
Il filosofo delinea come vie di liberazione per tale situazione dell’uomo le arti, tra le quali spicca la musica: essa è in grado di elevare l’uomo al di sopra della volontà e di conseguenza liberarlo dall’oppressivo giogo del dolore. La musica non riproduce mimeticamente le idee come le altre arti, ma si pone come immediata rivelazione della volontà a se stessa; essa andando oltre i limiti della ragione mette in contatto l’uomo con le radici stesse dell’essere.
Il piacere che la musica produce deriva dalla capacità di sospendere il desiderio della volontà, sottraendo l’individuo alla catena infinita dei bisogni e dei desideri quotidiani.
Tale via di liberazione rimane però temporanea e parziale: essa quindi non è una via per uscire dalla vita e cancellare la forza incontrastabile della volontà, ma è solo un conforto alla vita stessa.
La via di liberazione dal dolore per eccellenza, secondo Shopenhauer è l’ascesi: l’uomo deve riuscire a estirpare il proprio desiderio di volere. L’ascesi deve essere praticata attraverso il completo distacco dalla volontà e quindi dai desideri terreni che essa comporta: la castità perfetta è il primo nucleo fondamentale, poiché libera l’uomo dal piacere che maggiormente lo lega alla vita. Il filosofo analizza altri accorgimenti da seguire per liberarsi dalla volontà e dal godere: l’umiltà, la rinuncia dei piaceri, la povertà e l’automacerazione. Il cammino di liberazione descritto da Schopenhauer prefigge come punto finale il nirvana, simile a quello buddista: esso si configura come l’esperienza del nulla, un nulla però ricco e fecondo che coincide con la negazione del mondo stesso e della volontà (l’essenza propria dell’uomo) e nel quale l’uomo si trova in una situazione di tranquillità e serenità lontano dal desiderio e quindi dal dolore.

STORIA:
Generazione dell’ottanta
Quando si parla di “generazione dell’Ottanta” con riferimento alle vicende della musica italiana novecentesca non si intende fornire un’ indicazione puramente cronologica: ci si riferisce invece alla prospettiva definita da Alfredo Casella, uno dei maggiori protagonisti di quella generazione, nei termini seguenti: “La creazione di uno stile moderno nostro è stato il problema assillante della mia generazione. Quando questa generazione cominciò a pensare, l’unica musica tipicamente italiana era quella operistica ottocentesca e verista piccolo-borghese. Urgeva dunque scuotere a tutti i costi questa idea angusta e antistorica e ricondurre i musicisti prima, e le masse più tardi a pensare che ben altre, più profonde, più varie erano le fondamenta della nostra musica”.
Sarebbe difficile riassumere con maggior chiarezza il punto di vista di chi mirava ad una “sprovincializzazione” della cultura musicale italiana dominata dal melodramma naturalista, intendeva reinserirla in un dibattito europeo e per conferirle nuova dignità cercava di trovare antiche radici in un passato remoto in cui la musica strumentale italiana aveva conosciuto una storia gloriosa. Se questo programma di rinnovamento si profilava con chiarezza già all’epoca della Prima guerra mondiale, esso si sviluppò poi nel ventennio fascista. Si creò nell’Italia fascista una situazione assai diversa da quella di totale chiusura della Germania nazista, che ridusse al silenzio o all’esilio quasi tutti i musicisti migliori. Sono state recentemente esaminate e discusse le convergenze tra il programma della generazione dell’Ottanta e la formula politica del fascismo progressivo, intento a prendere le opportune distanze dal fascismo agrario e ardimentoso delle origini, quello con cui era giunto al potere. Sì che l’ideologia fascista, in una Italia avviata a divenire potenza industriale fra le altre europee e mondiali, poteva riconoscersi nell’ istanza di rinnovamento dei nuovi compositori italiani. L’omologia fu vista in modo lucidissimo da Casella, che del moto di rinnovamento fu il portabandiera e che si adoperò per l’internazionalismo che nell’Italia del ventennio fascista fu incarnato dalla creazione del Festival di musica contemporanea di Venezia (1930) o dalla fondazione del Maggio musicale fiorentino (1933).
In realtà abito naturalistico e ideali modernistici non apparivano così separati e contrapposti, nella musica italiana della prima metà del secolo, quanto i programmi innovatori potevano lasciar credere. Essi convissero per un buon quarantennio, condividendo volentieri motivi e caratteri, per lo più spiritualistici (di stampo dannunziano o idealistico) e nazionalistici (d’ispirazione folclorica, arcaica o neoclassica).
La musica in questo periodo assume anche una valenza nazionalistica: esempio chiaro è la produzione di Gabriele D’Annunzio, che unisce la musica alla poesia.
Alfredo Casella (Torino 1883-Roma 1947), a partire dal 1923, abbraccia invece l’ideale neoclassico e mediterraneo. La funzione strutturale della neoclassicità e della mediterraneità nello stile di Casella, consiste nella loro accentuata esibizione. Il neoclassicismo e il folklorismo caselliani infatti non hanno un carattere nostalgico ed oblivioso, ma estroverso, aggressivo, imperativo: l’immagine diatonica della classicità è integrata dal sentimento di una salute e di un’ esuberanza vitale impresse da una luminosità solare e mediterranea. Neoclassicismo e folklorismo adempiono, nella musica di Casella, la funzione di una affermazione culturale mediante la quale affiora la volontà e la ricerca di identità di una società in via di sviluppo capitalistico che si richiama ai propri miti. Essa interpreta, esplicitamente, le aspirazioni sociali e politiche del suo contesto storico.
Gli anni 20 jazz:
Nell’ aprile del 1917 il presidente americano Wilson decise di intervenire nel conflitto in modo concreto e non più limitandosi a prestiti economici a favore della Francia e della Gran Bretagna: tale decisione derivò dalla paura di perdere gli ingenti prestiti effettuati e per salvaguardare la propria potenza nell’ambito dei commerci sui mari, nei quali andava sempre più espandendosi la potenza tedesca. Grazie all’intervento delle truppe alleate la guerra si concluse a favore dell’Intesa con la sconfitta di Austria e Germania.
Dopo la conclusione del conflitto l’Europa si trovava in una situazione economica precaria e andava sempre più perdendo il suo ruolo di potenza incontrastata a favore, invece, degli Stati Uniti, i quali si ritrovarono creditori nei confronti dei Paesi europei di ingenti somme di denaro. L’Europa era rimasta per anni la potenza economico-politica mondiale incontrastata, ma negli anni venti la produzione industriale diminuì drasticamente a causa dei gravi debiti economici verso gli Stati Uniti, che in questo periodo giunsero a detenere più del 50% della produzione mondiale.
Negli anni venti la musica negli Stati Uniti, non fu solo un fatto culturale ma fu per molti un modo di vivere e per tutta l'America fu un epoca: la "Jazz Age". Dopo la guerra di secessione tutti gli schiavi neri portati dall'Africa in America vennero resi liberi. La maggior parte di loro si trasferì dalle campagne alle città, portando con se non solo i propri averi, ma anche il loro bagaglio culturale. Nelle città abbiamo così l'evoluzione della "musica nera", dal Blues dei campi di cotone al Jazz dei locali da ballo delle grande città. Il successo del jazz è testimoniato da vari fattori:
1) nascono numerosi gruppi jazzisti bianchi; questo fenomeno era già iniziato prima della guerra ma negli anni venti il numero di queste orchestre cresce sensibilmente, soprattutto a Chicago;
2) il jazz non viene suonato solo nei locali dei ghetti neri come Harlem a New York ed il South Side di Chicago, molti teatri ospitano i più famosi gruppi jazz segno che "la musica venuta dal sud"attirava un folto pubblico che costituiva un buon affare per gli impresari;
3)si inizia ad incidere i primi dischi di musica jazz; in questi anni si sviluppa l'industria dei cosiddetti race records, ossia dischi della razza, destinati al pubblico di colore.
La crisi del '29 non mancò di far sentire i suoi effetti anche nel mondo della musica. Improvvisamente il pubblico dei teatri e coloro che compravano i dischi si ritrovarono senza il denaro per sopravvivere. Molte case discografiche e numerosi locali finirono per chiudere, di conseguenza anche i musicisti si trovarono senza lavoro, alcuni emigrarono in Europa, altri si adattarono lavorando con ingaggi minimi altri smisero completamente di suonare.
INGLESE:
“The Dead” by Joyce
James Joyce nel 1914 pubblica la collezione chiamata “Gente di Dublino” (“Dubliners”), composta da quattro sezioni che corrispondo a particolari fasi della vita della vita: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e la vita pubblica. “I morti” fa parte dell’ultima sezione e narra la vicenda di una donna, Gretta, che a una festa, rimane scioccata dall’ascolto di una vecchia musica irlandese cantata da uno degli invitati. Ella ha la cosiddetta “epiphany”, un triste ricordo legato al suo passato che la fa cadere nella tristezza: ripensa al suo primo vero amore Michael Furey, che lei pensa sia morto a causa della sua partenza. Per la profonda tristezza che prova e che non riesce a controllare, anche il marito, Gabriel Conroy, ha a sua volta un’ “epiphany”: guardando attraverso la finestra vede le neve cadere e pensa alla relazione della moglie con l’uomo e nota che la neve è in grado di coprire ogni cosa, ogni aspetto della vita, ogni azione che quindi diviene insignificante e dimenticata; pensa anche che la tomba stessa di Michael è coperta dalla neve che continua a cadere senza sosta.
Importante risulta quindi il ruolo della musica: una semplice canzone cantata per puro divertimento, evoca nell’animo delle persone ricordi passati relegati in angoli nascosti della mente.
Per “Epiphany” Joyce intende la tecnica letteraria che ha messo a punto e che analizza nelle sue opere: si tratta per lo scrittore di fare emergere nel quotidiano una manifestazione dello spirito, che sia ad un tempo notazione realistica e momento intenso d'emozione, l’ “epifania” è il «momento in cui la realtà delle cose ci soggioga come una rivelazione».
STORIA DELL’ARTE:
L'astrattismo e la pittura non figurativa di Kandinskij.
Studio: colori quadrati in anelli concentrici (1913)
Vasilij Kandinskij pubblica nel 1911 “Uber das Geistige in der Kunst” (Sullo spirituale dell’arte) dove analizza i vantaggi di un passaggio dall’arte figurativa a quella non figurativa, cioè senza un soggetto preciso, ma appunto astratta e non oggettiva.
L’artista sviluppò un linguaggio formale volto a esprimere l’infinita ricchezza delle emozioni e degli stati d’animo,basandosi dapprima su una rappresentazione semplificata ed essenziale della realtà,poi sulla combinazione di figure geometriche. Fu anche un teorico dell’astrattismo ed espose con chiarezza il suo pensiero in diversi saggi e articoli.
Kandinsky iniziò a dipingere all’età di 30 anni, colpito dalla forma espressiva del colore dei “Pagliai” di Monet, esposti ad una mostra di Impressionisti francesi (Fauves) tenutasi a Mosca. Per lui, che aveva fino ad allora conosciuto solo la pittura russa, romantica e narrativa ed ignorava di fatto la ricerca impressionista, con la straordinaria forza espressiva dei suoi colori puri e la preminenza accordata ai valori pittorici e luministici rispetto a quelli descrittivi, fu una rivelazione. Questo avvenimento rappresentò per Kandinsky la scossa decisiva e nel 1896, egli decise di dedicarsi interamente alla pittura: “il lavoro ingrato è alle mie spalle” (aveva studiato infatti giurisprudenza) dichiarò “e davanti a me c’è il lavoro che amo”. Ma passarono più di dieci anni prima che creasse un quadro veramente astratto: i suoi primi lavori, infatti, sono ancora figurativi, ispirati al magico mondo del folclore e delle fiabe russe.
Kandinsky per la sua arte non-figurativa predilige l’uso del cerchio; ogni sua opera segue un percorso ben preciso attraverso diverse “tappe”: dall’improvvisazione, data da una pittura libera, nella quale lascia spazio al materiale inconscio con continue variazioni nelle forme, passa ai “quadri”, un prodotto più raffinato e studiato, per poi giungere allo stadio conclusivo della “composizione” che rappresenta il risultato finale di tale processo. L’arte non figurativa alla quale approda Kandinsky si basa su contrapposizioni timbriche e su motivi ritmici suggeriti dagli scontri tra i colori e dalle linee, che sono completamente distinte dalle variazioni di colore.
Nella corrente artistica dell’astrattismo i pittori privilegiavano una rappresentazione di tipo non figurativo: la domanda principale di questi artisti era la seguente: perchè alla musica è consentito non rappresentare nulla, se non degli stati d'animo, mentre alle arti visive è richiesto di produrre oggetti esterni? : la decisione di discostarsi dall'arte figurativa fu strettamente legata alla musica e un desiderio di raggiungere lo stesso livello evocativo di un’arte che non rappresenta nulla di concreto, ma capace comunque di suscitare sentimenti molto forti.
Kandinsky ascoltò per la prima volta la musica di Schonberg durante un concerto, nel 1911. Entrambi condividevano gli stessi ideali e rivoluzionarono le regole della composizione nei rispettivi campi. Kansdinsky fu anche un sensibile musicista dilettante, mentre Schonberg dipingeva nel tempo libero. Kandinsky venne incoraggiato nelle proprie ricerche espressive dalla convinzione di Schonberg che la composizione musicale non avesse bisogno di una particolare chiave e creò l’astrattismo: l’equivalente pittorico dell’atonalità di Schonberg.
La metafora che usano gli astrattisti per identificare il proprio lavoro (“ut pictura musica”) modifica la concezione del dipingere: la pittura non si basa più sulla somiglianza figurativa del reale, ma sull’intensità e sulla carica emozionale dei dati percettivi che essa produce.
In Kandinsky essa si fa particolarmente forte: nel saggio ”Dello spirituale dell'arte" egli precisa e analizza i rapporti tra i colori e il suono di particolari strumenti, effettuando analogie tra il timbro di uno strumento e un colore in particolare: cito alcuni esempi: il giallo è legato al suono della tromba, l'azzurro al flauto, il blu a un violoncello, ecc….
Di rilievo è anche la teoria del colore, secondo la quale i 7 colori dell'iride si associano alle 7 note musicali. Affascinato dalla musica atonale novecentesca, l'artista si avvicina alla pittura non figurativa, una pittura scissa dalla realtà, come la musica contemporanea è indipendente dalle voci individuali nelle loro composizioni.
Riporto un episodio significativo: un giorno, rientrando all’imbrunire nel suo studio, l’artista venne colpito dalla straordinaria bellezza e vivacità di un dipinto di soggetto indefinibile. Avvicinandosi, si accorse che si trattava di una sua tela accostata di sbieco contro una parete: in quel momento comprese che la rappresentazione naturalistica non aveva più particolare importanza per lui.
Nel periodo tra le due Guerre, l’artista dipinse poco: fra il 1914 e il 1921 solo quaranta quadri, quanti, precedentemente, era solito realizzare in un solo anno. Tuttavia i suoi ideali di rinnovamento spirituale attraverso l’arte vennero infranti quando il governo comunista pretese di imbrigliare l’avanguardia esigendo che l’arte fosse messa al servizio del proletariato-arte facilmente comprensibile,destinata alle strade,alle fabbriche alle case dei lavoratori-instaurando così un clima di costrizione al quale Kandinsky si sentiva totalmente estraneo.
Per l’artista l’arte era un’esperienza dello spirito: l’artista è colui che indica il modo per evadere dalla realtà. La pittura doveva essere simile alla musica, ossia doveva raggiungere direttamente i sensi, senza alcun bisogno di narrare vicende o raffigurare immagini e in essa il colore rivestiva la stessa funzione del suono nella musica. Gli artisti dovevano, a suo giudizio, servirsi delle forme e dei colori per esprimere le proprie emozioni e trasmetterle all’osservatore; gli oggetti tramite del messaggio poetico nella pittura tradizionale, secondo Kandinsky, sono fuorvianti perché impediscono un’immediata risposta spirituale all’opera, attirando l’attenzione sul soggetto raffigurato.
Bibliografia
• www.homolaicus.com
• www.wikipedia.it
• http://digilander.libero.it/twenties/CUFrame.htm
• Microsoft Encarta 2007 Premium
• “I grandi Pittori” --> Kandinsky
• “Storia della musica” Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay
• “Storia della musica” IL NOVECENTO (I e II) Gianfranco Vinay
• Libri di testo: “Letteratura” Barberi Squarotti
“La Divina Commedia”
“Scriptorium” Gian Biagio Conte
“Itinerari di filosofia” Abbagnano, Fornero
“Literary links” Thomson, Maglioni

Coppola Andrea 5°C Esame di Stato 2006/2007

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