Meditazioni metafisiche, R. Descartes

Materie:Riassunto
Categoria:Filosofia
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Testo

Meditazioni metafisiche
di René Descartes

Prima meditazione
In questa prima meditazione Cartesio afferma che per liberarsi di tutte quelle opinioni ritenute vere, ma che in realtà sono false, bisogna liberarci di ciò che ci ha dato queste false informazioni: i sensi; infatti, siccome talvolta i sensi ci hanno ingannato, è meglio non fidarsene mai e dubitare di tutto quello che si è appreso da e tramite loro.
Un’altra ragione per cui dubitare è l’eventualità che la vita sia tutta un sogno; infatti, quando sogniamo, abbiamo le stesse sensazioni e percezioni di quando crediamo d’esser svegli, ma allora potrebbe essere che la vita è tutta un sogno e non è possibile distinguere le percezioni sensibili illusorie da quelle reali.
Tuttavia, sebbene tutte le conoscenze che ci derivano dall’esperienza sensibile siano dubitabili, non lo sono quelle conoscenze la cui verità è indipendente dal mondo corporeo, come l’aritmetica, la geometria, e scienze simili. Ma Cartesio fa cadere nel dubbio pure queste, dicendo che ci potrebbe essere un Dio, che può tutto, che c’inganna ogni qualvolta che usiamo la matematica e che ci fa credere vere cose false.
Proprio per questo non rimane altro che dubitare di tutto, almeno provvisoriamente, finché non si giungerà ad un principio del tutto estraneo al dubbio, quindi saldissimo e su cui si devono basare gli altri principi e le altre scienze. Ciò costituisce il dubbio metodico, il procedimento che Cartesio utilizza: attraverso il dubbio si giunge ad una verità indubitabile. Cartesio individua queste verità nella matematica, tuttavia afferma che neanche di essa si può essere certi, visto che un Dio malvagio ci potrebbe ingannare su tutto, e in questo modo si giunge ad un dubbio iperbolico, ossia il dubbio è universale e interessa ogni cosa.

Seconda meditazione
Nella seconda meditazione Cartesio esce dal dubbio e giunge ad una certezza: il fatto che egli esiste; infatti, ogni qualvolta egli dubita, anche della propria esistenza, per farlo deve necessariamente esistere e anche se ci fosse un genio maligno che lo inganna, perché lo inganni, egli deve per forza essere. Quindi “io penso (dubito), quindi esisto” ”cogito, ergo sumc, ma che cosa sono visto che esisto? Cartesio afferma che siamo una cosa pensante (res cogitans) e non ciò che prima credevamo di essere: un corpo con un’anima. Infatti, se fossimo un corpo, potremmo essere ingannati da un genio maligno che c’illude di esistere come dei corpi e di avere tutti gli attributi corporei. Per quanto riguarda gli attributi dell’anima si può dire che il nutrirsi, il camminare e il sentire non sono in noi, infatti, necessitano di un corpo, mentre il pensare ci appartiene perché senza di esso non ci saremmo nemmeno noi. Dunque si può dire che noi siamo soltanto una cosa che pensa/dubita (un intelletto) e non un’anima o un corpo; è proprio della nostra natura, oltre al fatto di dubitare, anche quello di affermare, negare, volere, non volere, immaginare (io posso immaginare e, pur se ciò che immagino è falso, questa facoltà è in me) e sentire (tramite i sensi io ho delle percezioni e anche se sono tutte finte, mi sembra sempre di sentirle, quindi sento) msentire e immaginare sono due modalità di pensarep.
Adesso Cartesio ci dimostra come la conoscenza dei corpi, ammesso che esistano, e della loro natura non deriva né dai sensi né dall’immaginazione, bensì dall’intelletto; infatti, prendendo in esame un pezzo di cera notiamo che scaldandolo cambia la propria forma e quindi non ha più le caratteristiche che precedentemente i nostri sensi avevano rilevato, eppure rimane sempre un pezzo di cera, in quanto in esso si conserva la sostanza. Noi percepiamo ciò grazie al nostro intelletto e non grazie ai sensi che si limitano a farci percepire gli aspetti mutevoli della cera.
Quindi si può concludere dicendo che la conoscenza dei corpi avviene tramite il pensiero e, conoscendo i corpi col pensiero, risulta che la cosa a noi più nota è il pensiero stesso che è la condizione per ogni ulteriore conoscenza.

Terza meditazione
Cartesio, dopo essere giunto ad asserire che egli è una cosa pensante, cerca di individuare un criterio generale di verità: è vero tutto ciò che percepiamo con chiarezza e distinzione. Però appena formulata questa proposizione ci si accorge come sia illusoria, infatti, anche le conoscenze matematiche (esempio per eccellenza di chiarezza e distinzione) possono essere ritenute dubitabili se s’ipotizza l’esistenza di un Dio ingannatore. Per togliere di mezzo questo dubbio bisogna esaminare se c’è un Dio e se Egli è ingannatore: per far ciò si dovrà prendere in esame il pensiero che è l’unica cosa che è certa. Gli oggetti del pensiero sono le idee, che considerate in se stesse non possono essere false, ma solo se riportate a qualcos’altro. In questo caso esse sono dei giudizi e possono essere o vere o false. Cartesio, poi, opera una distinzione delle idee in idee innate (idee nate con noi), idee avventizie (idee che provengono dal di fuori) e idee fattizie (idee che sono state create da noi stessi). Egli considera adesso le idee avventizie in quanto, provenienti da fuori, potrebbero assicurarci che oltre al nostro pensiero ce ne sia un altro; tuttavia questa strada è sterile perché si rende conto che le ragioni in base a cui le riteneva a noi estranee non sono convincenti. In realtà sia il fatto che è la natura a mostrarcele così, sia il fatto che sono indipendenti dalla nostra volontà non sono certi, perché potrebbe essere che si generino in noi durante il sonno (noi ne siamo inconsapevoli) e perché la natura non va intesa come un qualcosa che ci permette di distinguere il vero dal falso, ma come un’inclinazione che ci porta a credere che una cosa sia vera (non è indubitabile).
Cartesio parla poi del fatto che le idee (tutte) hanno un proprio grado di perfezione e non è possibile che una idea causa possa originare una idea effetto con un grado di perfezione maggiore di quello della causa, in quanto l’effetto trae la sua realtà dalla causa. Distingue che le idee dei corpi possono essere confuse o chiare: quelle confuse potrebbero rappresentare cose inesistenti, e quindi essere false, dunque create dalla mia natura imperfetta, ma potrebbero anche essere vere, e, anche in questo caso, sarei io il loro creatore, perché rappresentano poca realtà (hanno un basso grado di perfezione); di quelle chiare l’idea di sostanza (ciò che esiste di per sé) è in me, mentre l’idea di estensione non è formalmente in me, essendo io una res cogitans, ma, in quanto pure io sono una sostanza, lo è eminentemente.
Cartesio, allora, dice che l’unica idea di cui non siamo la causa è Dio, in quanto ha un grado di perfezione superiore al nostro, infatti, egli è una sostanza infinita; siccome noi, menti finite, abbiamo l’idea di infinito, non ce la possiamo essere data da soli, ma ce l’ha data l’infinito stesso, Dio, che deve necessariamente esistere.
In questa terza meditazione c’è fornita anche una seconda prova dell’esistenza di Dio: noi abbiamo l’idea di Dio, me se Egli non ci fosse, chi ci avrebbe creato? Noi stessi no di certo, perché se fossimo in grado di far ciò saremmo in grado di avere ogni perfezione; altri enti diversi da noi nemmeno, perché, se essi fossero causa sia della mia sia della loro esistenza sarebbero Dio, e se invece la loro causa fossero altri enti e così via all’infinito si giungerebbe ad un ente perfettissimo, qual è Dio.
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