Kierkegaard

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Testo

KIERKEGAARD
Kierkegaard è un esponente di quella tendenza che prende il nome di “reazione all’idealismo”. L’unico elemento che associa Kierkegaard e Schopenauer è la svalutazione della razionalità umana, vista come un elemento utile alla vita, ma non alla conoscenza della realtà.
Schopenauer conserva la visione universale, collettivistica, che è tipica dell’idealismo, mentre Kierkegaard è sostenitore dell’ individualismo: qualunque visione di tipo collettivo, per lui non conta niente. L’uomo è solo con la propria individualità, ed è solo di fronte al problema della vita, della morte e di Dio; parlare di questi problemi con gli altri uomini, quindi, è un modo sbagliato di cercarne la risoluzione. Il cristiano, dunque, è veramente tale quando instaura un dialogo con Dio al proprio interno, individualmente, e non quando si riunisce con altri uomini (ad esempio in Chiesa durante la messa).
A Kierkegaard come individuo Dio dice soltanto “cercami”, e il filosofo si dedica alla vita religiosa, uscendo dalla società, lasciando la fidanzata di cui fra l’altro era molto innamorato, e tralasciando ogni cosa che consisteva nella ricerca di Dio.
Quella di Kierkegaard è una scommessa di tipo pascaliano: si getta nella vita religiosa sperando nella salvezza.
L’individualismo di Kierkegaard si può ricondurre a certi aspetti del pensiero di Ockam: anche il filosofo inglese, infatti, era convinto che nella realtà non esistesse nulla di universale: la realtà per lui è intrinsecamente individuale, e ogni individuo è un blocco unitario individuale.
Un altro punto di contatto con Ockham è la concezione della razionalità: essa per Kierkegaard, come per Ockham, è uno strumento utile per vivere, ma se si intende affrontare i problemi di fondo, la ragione bisogna lasciarcela alle spalle. Quella di Kierkegaard, quindi, è una visione anti – Hegeliana.
Kierkegaard si può considerare il primo pensatore esistenzialista, anche se il termine “esistenzialismo” in senso stretto sarà coniato più tardi da Heidegger.
Sartre, un esistenzialista contemporaneo, afferma che l’esistenzialismo è una posizione filosofica in cui l’esistenza precede l’essenza. L’ “esistenza” consiste nel fatto, che è mutevole, l’ “essenza” è il significato, il ti estin, la definizione logica e ontologica di qualcosa; l’essenza non è mutevole, è l’Idea di Platone: è l’aspetto della realtà che ha una sua valenza eterna, immutabile. La posizione inversa, cioè “l’essenza precede l’esistenza”, ha sempre costituito la base della metafisica, da Parmenide, Platone fino ad Hegel.
L’esistenzialismo, dunque, ribalta la posizione dei filosofi precedenti, affermando che l’unico modo per descrivere l’uomo è analizzare la sua esistenza, e non ricercare forme eterne nella sua essenza.
L’esistenza, il fatto, è imprevedibile e contingente, non ha nessuna necessità. Dato che ogni fatto è a posteriori, l’unica cosa che possiamo dire dell’uomo è che esiste.
Dio, allora, essendo l’ente la cui essenza implica l’esistenza, non è assolutamente postulabile. Ma questo non significa che Dio non esista (vi sono infatti due tipi di esistenzialismo: quello ateo ma anche quello cristiano).
L’esistenzialismo cristiano afferma che Dio esiste, ma noi non lo possiamo conoscere. Siamo molto vicini alla posizione di Ockham: Dio non è conoscibile razionalmente, e si può arrivare a Dio solo attraverso un atto di fede, senza però avere nessuna certezza, alcuna garanzia (riprendendo la scommessa pascaliana).
Dire che “l’esistenza precede l’essenza” porta inevitabilmente a riferirsi anche a Leopardi. Nello “Zibaldone” egli dice che “ non possiamo giudicare delle cose avanti le cose”, ovvero ogni cosa risulta essere a posteriori, e non possiamo fare nessuna previsione su di esse. Le stesse leggi fisiche di caduta dei corpi o di gravitazione universale non sono eterne, e di per sé stabili, in quanto il divenire travolge tutto, tutto è destinato a morire, anche il nostro universo, e dopo la sua morte si creeranno altri universi con leggi diverse, e comunque mai eterne e immutabili. Leopardi dice poi: “distrutte le forme eterne di Platone, è distrutto Dio”.
Leopardi parla di “perfezione assoluta di tutto ciò che esiste”; questa sembra una contraddizione, dal momento che per lui tutto è male. Per Platone la perfezione di una certa cosa si deve verificare rapportandola all’Idea: più una cosa si avvicina all’Idea, più questa cosa si avvicina alla perfezione. Ma quando l’Idea non c’è più, non si può più dire che è bello ciò che somiglia a un modello perfetto: non c’è più niente di bello nel senso assoluto. L’uomo, quindi, chiama bello ciò che abitudinariamente piace, e questa è proprio una conseguenza del fatto che esiste solo l’esistenza, e non l’essenza. Le cose, quindi, non migliorano né peggiorano, ma semplicemente mutano; le cose, nel senso leopardiano, sono perfette perché compiute in sé, e non perché simili ad un modello predefinito.
Tuttavia sarebbe illusorio pensare che Kierkegaard o Leopardi, distruggendo le Idee e la metafisica platoniche, non debbano niente al filosofo greco; Platone aveva definito il divenire con il termine epamphoterìzein (essere conteso tra i due). Tutto ciò che esiste, in quanto ente materiale, oscilla tra essere e nulla.
Leopardi dice che tutto ciò che esiste intorno a noi è “solido nulla”, in quanto la condizione di essere è talmente irrisoria, talmente breve che possiamo pressochè dire che tutto è nulla. Questa posizione, che vede un’oscillazione tra uomo e nulla, è stata in seguito accettata da tutti i filosofi dopo Platone. Ci sono filosofie ottimistiche, come il Cristianesimo, che affermano l’eternità dell’anima e di Dio, ma anch’esse accettano, anche se parzialmente, l’epamphoterìzein, il divenire di Platone.
Platone, Hegel Leopardi,
Cristianesimo, ecc. Nietzche
Essere Essere
Essere =
Divenire
Divenire Divenire
La filosofia di Leopardi e, in seguito, di altri pensatori (ad esempio Nietzche), vede la totalità delle cose come divenire, l’epamphoterìzen si estende alla totalità (l’esistenza precede l’essenza).
Si arriva così ad un punto, nella filosofia, in cui o si nega il divenire (Parmenide, Spinoza, Einstein), oppure si nega Dio.
Infatti, se ammettiamo che esista Dio, l’entità suprema che tutto gioverna, egli controllerà anche il divenire, ma allora il divenire non è possibile, poiché l’eterno prevede tutte le cose che possono apparire. Se, al contrario, affermiamo l’esistenza del divenire, allora inevitabilmente si deve negare Dio, che è per definizione l’ente perfetto ed eterno, che sfugge cioè al divenire.
DIO→ ¬ Divenire
Divenire→ ¬DIO
Mentre Leopardi e Nietszche distruggono qualunque forma di eterno e di assoluto, Kierkegaard distrugge il Dio della metafisica, ma lo ricerca attraverso altre vie.
In Kierkegaard troviamo la categoria della singolarità: l’uomo è solo, e il filosofo lo ribadisce continuamente, affermando che per risolvere i propri problemi egli non deve cercare aiuto da altri, poiché se fa questo perde di vista la condizione che gli è propria, ovvero la condizione di solitudine. Cercare l’aiuto dagli altri, quindi, è un atteggiamento che risulta essere una forma di alienazione.
L’uomo che segue passivamente i valori e le regole della massa dimentica la propria singolarità, e dà importanza a cose che in realtà non contano niente. E’ in qualche modo il divertissement di Pascal: prendere sul serio i valori della massa, che nascono da abitudini umane, è un modo per “deresponsabilizzarsi”, per non pensare alla propria solitudine. Per Kierkegaard la vita dell’individuo che, nato in una certa società, accetta passivamente i valori che gli sono stati inculcati come una pecora del gregge, è una vita inautentica.
Questo concetto sarà ripreso poi anche da Heidegger: il “si” impersonale è l’adeguazione dell’individuo al comportamento della maggioranza della gente. In tedesco “si” si dice Mann, che ha anche il significato di “piccolo”. E’ quindi un doppio significato che esprime bene la piccolezza di chi si adegua al comportamento degli altri.
In Sartre si parla di malafede, la quale è strettamente legata allo spirito di serietà (prendere sul serio qualcosa che non merita di essere preso sul serio). Tutto ciò che ci pare assoluto è dovuto alle nostre abitudini, e al nostro bisogno di solidità e stabilità. La malafede è un ingannare noi stessi, illudendoci che noi scegliamo le cose poiché sono buone, giuste in assoluto.
Per Kierkegaard l’uomo più disperato è colui che non sa di esserlo. E’ un discorso socratico (l’uomo migliore è colui che sa di non sapere): è meglio vivere consapevoli della propria solitudine piuttosto che dare importanza a valori falsi e infondati, vivendo così nel divertissement.
Dio non appare in modo evidente, tuttavia l’unica possibilità che ha l’uomo è quella della fede i Dio. Il vero rapporto tra uomo e Dio non è la certezza ma la speranza, la fede, e questa lascia l’uomo “in timore et tremore multo”, come diceva San Paolo.
L’esistenza dell’uomo non si può motivare, non c’è una spiegazione ad essa, è un uscire dal nulla in modo individuale.
Heidegger chiama l’esistenza Geworfenheit, che in italiano si può tradurre con “situazione dell’essere gettato”.
Ge worfen heit
Rafforzativo Viene dal verbo scagliare Desinenza che trasforma
Un nome in un concetto
L’uomo si trova sulla Terra come un naufrago che si trova su un’isola deserta senza ricordare come vi è capitato. E’ una sorta di disorientamento, la condizione di chi è gettato nell’esistenza senza avere punti di riferimento.
Per Kierkegaard davanti all’uomo si aprono tre stili di vita. Il numero tre non fa riferimento ad un sistema dialettico vero e proprio come, ad esempio, quello di Hegel; quest’ultimo procede in un modo che potremmo definire ET – ET……
cioè l’uomo, nella storia, percorre inevitabilmente tutte le tappe, e le conserva dentro di sé. Il modello Kierkegaardiano, invece, si può rappresentare con la forma
AUT – AUT…… , una scelta ne esclude un’altra: se si percorre la via di destra non potremo mai sapere che cosa c’era nella via di sinistra. E non ci si può nemmeno pentire, tornare indietro e prendere l’altra via: come diceva Eraclito non ci si bagna due volte nello stesso fiume: se si rinuncia a qualcosa, non si può più tornare indietro.
Hegel Kierkegaard

Kierkegaard crede in Dio, ma esso è invisibile, ci si può solo fare una scommessa, e quindi l’uomo deve scegliere da solo la propria strada, non ha nessuna guida durante la sua vita. Sartre dice che è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli: nessuno può dire che una cosa è giusta e un’altra è sbagliata, entrambe sono cose fondate sull’esistenza. In questa condizione di assoluto disorientamento, l’unica prospettiva che dà un senso alla propria vita, è per Kierkegaard la scelta religiosa, la scommessa su Dio.
Nessuno può stabilire se la vita religiosa sia giusta o sbagliata, ma è l’unica strada che potrebbe avere al suo sbocco la luce, la salvezza. Per questo la via della scelta religiosa sta su un piano diverso rispetto alle altre.
Nelle sue opere Kierkegaard parla delle tre vie che, durante la sua vita, gli si sono prospettate davanti:
- VITA ESTETICA [“Diario del seduttore”] DISCONTINUITA’
- VITA ETICA [“Aut – Aut”] CONTINUITA’
- VITA RELIGIOSA [“Timore e tremore”] DISCONTUINITA’
Nel “Diario del seduttore” Kierkegaard sembra essere un personaggio alla D’Annunzio, che ricerca in tutta la sua vita l’attimo fuggente derivante dai piaceri.
Nell’opera “Aut – Aut” si descrive l’uomo che rifiuta la vita estetica, e che si inserisce nella società con famiglia, figli, con il proprio lavoro, ecc.
In “timore e tremore” Kierkegaard esprime un concetto Schopenaueriano: il piacere deriva in qualche modo dal dolore, e noi in realtà desideriamo di desiderare. Colui che desidera in realtà non vuole raggiungere il suo obiettivo; la sete ideale è quella che si realizza pur restando sete. Arrivare alla cosa che si desidera, dunque, è la cosa peggiore che può accadere a colui che desidera; l’esteta vive per attimi infinitesimi in cui si raggiunge ciò che si desidera, senza che ancora il desiderio sia spento, un attimo che dura pochissimo. La vita estetica, dunque, è caratterizzata dalla discontinuità, ma anche dalla disperazione, poiché la vera bellezza non viene mai raggiunta in modo stabile.
La vita etica, invece, è caratterizzata dalla continuità; chi approda alla vita etica è consapevole che la sua non è una scelta perfetta, ma la considera migliore rispetto all’angoscia della vita estetica. Per questo si cerca di costruire dei fondamenti, delle basi, dei valori fittizi, e di vivere basandosi su questi valori, pur essendo consapevoli che non si tratta di valori assoluti. Si accetta quindi di vivere con una famiglia, con dei figli, e secondo le regola che gli uomini intorno a noi rispettano.
La vita religiosa è discontinua, come la vita estetica, e si fonda sul concetto di attimo (Augenblick). L’attimo è l’istante del tempo che non è legato ad altri istanti.
Nella vita estetica si ha una rottura della continuità in senso negativo: si ricerca l’attimo ma senza avere una reale speranza, e questo porta alla disperazione. La vita religiosa, invece, rompe la continuità in senso positivo, in quanto c’è sempre la chance di fondo, che è Dio.
Chi vive in modo religioso rompe i ponti col passato e con la società, tuffandosi totalmente in Dio ogni momento della propria vita (la morte può arrivare in qualunque momento).
C’è un abisso quindi tra vita etica e vita religiosa, e l’emblema di questo è Abramo: egli, fidandosi di una voce nel buio, va sul monte e uccide quasi suo figlio, prima di essere fermato dalla mano di un angelo. Abramo è l’antitesi della vita etica, poiché fa l’opposto di quello che farebbe un bravo padre. Il cristiano deve buttarsi, deve tuffarsi ogni momento nell’abisso di Dio.
La vita religiosa è la scelta delle scelte; tutte le scelte che l’uomo fa nella sua vita non hanno fondamento, ma la scelta della vita religiosa è un tipo di scelta che sta su un piano superiore rispetto alle altre, poiché se non altro ha il fondamento della scommessa su Dio, che è l’unica possibilità per l’uomo di uscire dall’angoscia e dal dolore.
L’attimo (Augenblick), nella vita religiosa, è l’istante in cui l’uomo rompe la continuità della sua storia e dei suoi valori per gettarsi nella fede; in ogni istante, e senza motivo, l’uomo può gettarsi in questa scommessa.
Il vero Cristianesimo consiste nella rottura di tutte le forme, di tutti i valori, e quindi egli critica aspramente tutta quella serie di rituali collettivi propri della Chiesa cattolica, ma anche protestante, dal momento che la vera religiosità è individuale, riguarda il singolo.
Nell’attimo in cui l’uomo decide di affidarsi a Dio, la storia passata viene trasfigurata, assume un altro aspetto; il Cristianesimo, in questo, è scandalo: la stessa figura di Cristo come figlio di Dio suscita scandalo. A seconda di come si vede Cristo, se figlio di Dio o uomo qualunque, la visione della storia cambia completamente. Per Kierkegaard, quindi, l’unico strumento che permette di conoscere la storia non è la ragione, ma la fede.

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