Feuerbach. Marx, Schopenhauer.

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Testo

L. A. Feuerbach (1801-1872)
• “PENSIERI SULLA MORTE E L’IMMORTALITÀ” (1830)
In questo testo Feuerbach nega l’immortalità personale perché l’individuo non è immortale. Spiega anche che quest’ansia d’immortalità nasce dal fatto che l’uomo nell’aldilà potrà ottenere quello che la vita terrena non gli ha dato: una vita in beatitudine. Infatti, se l’uomo fosse appagato non s’immaginerebbe altri paradisi in cui ottenere la felicità e la beatitudine.
Se però la vera vita non è questa, ma quella dell’aldilà, è inevitabile che l’individuo non s’impegni con i suoi simili e a cambiare la sua realtà.
Quando si parla del divino, di dio, si parla d’assoluto e d’immortalità e quindi il singolo, volendo essere immortale, vorrà essere divino, dio mostrando così orgoglio e presunzione.
Il divino però è anche ciò che è autosufficiente, l’individuo non può quindi considerarsi divino perché non possiede questa caratteristica, egli non basta a se stesso e quindi non è un qualcosa d’alto, ma esiste un qualcosa di superiore che è il GENERE UMANO. L’umanità è, infatti, immortale eterna ed è anche autosufficiente.
• “L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO”
Quest’opera contiene una spiegazione genetica del fenomeno religioso, a partire dalla coscienza dell'uomo. In particolare una spiegazione della religione cristiana nella forma cattolica.
Il Dio della religione cristiana è oggetto di culto, e la spiegazione degli oggetti della coscienza umana si fonda sull’uomo stesso nel senso che gli oggetti rimandano all’uomo poiché incorporano le sue nozioni e caratteristiche. Essi esprimono la nostra interiorità (oggettivazione).
Dio è dunque un oggetto della coscienza dell’uomo religioso, ma non è un qualcosa di materiale, è la natura umana che è staccata dall’uomo e proiettata fuori di lui e trasformata in una realtà a sé stante, concepita come distinta.
Questa proiezione avviene tuttavia a livello inconscio perché se l’uomo ne fosse consapevole, egli vedrebbe in Dio se stesso e quindi non esisterebbe la religione cristiana che si fonda sul fatto che dinanzi alla coscienza umana c’è una realtà distinta.
La religione è vista dunque come un’alienazione dell’uomo poiché è un’esperienza che porta la natura umana ad apparire come un’altra da sé: autonoma e immortale. L’uomo dunque crea il divino ma in seguito si sottomette ad una sua produzione.
La religione è anche una sorta d’estraniazione dell’uomo poiché è un’esperienza in cui la natura umana si fa estranea a se stessa, l’uomo religioso, infatti, concepisce la sua natura come qualcosa d’estraneo.
Le fondamentali caratteristiche dell’uomo sono quindi rintracciabili in Dio e questo ci porta ad affermare che ogni religione è in fondo una sorta d’antropomorfismo. In questo senso è possibile spiegare molti dogmi come quello della Trinità, gli attributi umani sono oggettivati nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Anche la famiglia celeste è proiezione della famiglia umana dove d’altra parte non manca la figura femminile ed è per questo che il cattolicesimo pone Maria accanto al Padre e al Figlio.
A partire dalla considerazione di Dio è possibile conoscere l’uomo, il suo essere e ciò che egli pensa di sé; viceversa dall’uomo possiamo individuare i tratti del Dio, oggetto d’adorazione. La coscienza che l’uomo ha di Dio è quindi uguale alla coscienza che l’uomo ha di sé.
L’obiezione che potrebbe essere mossa è la seguente: Dio è infinito, al contrario l’uomo è finito e limitato, ma poiché è l’uomo che crea Dio, Feuerbach si chieda come sia possibile una tale sproporzione tra la causa e l’effetto.
Il filosofo afferma però che la natura umana non è limitata, ma lo è solo l’individuo, non il genere umano e quindi la ragione, la conoscenza e tutti gli altri attributi, non possono precludersi in un solo individuo perché sarebbero un nulla rispetto alle qualità del genere umano. Essi conoscono, infatti, uno sviluppo infinito nel tutto e sono proprio queste proprietà del genere umano ad essere proiettate in Dio.
L’animale dal canto suo, ad es., ha coscienza di sé come singolo, ma secondo Feuerbach non è possibile affermare che esso abbia consapevolezza, oltre delle proprietà che a lui appartengono, del fatto che quelle stesse qualità non si esauriscono in lui, ma appartengono anche al genere e la specie. È proprio per questo motivo che l’animale non può dunque conoscere la religione.
Gli uomini sono coscienti di loro stessi perché le loro facoltà sono parte di un tutto più ampio; l’uomo è cosciente anche degli altri, del genere. Quindi il legame con gli altri è costitutivo di noi stessi e ci permette di conoscerci.
Dio possiede le più alte perfezioni e nel momento in cui i suoi attributi sono riconosciuti come umani, questi ultimi vengono di conseguenza valorizzati, come anche la natura umana che viene in un certo senso divinizzata, diventando così il valore più alto. Dio quindi non è una realtà indipendente ma è l’umano, l’umanità tutta, quindi conoscenza, volontà e amore non sono Dio, ma un qualcosa di divino.
Nella religione sono comunque proiettate le proprietà più alte dell’uomo, quelle che sono oggetto di stima e ammirazione, ma è proiettato anche ciò che l’uomo desidera possedere: la conoscenza infinita propria del genere, una volontà onnipotente e così via. L’uomo vorrebbe essere infinito e proietta in Dio questo suo desiderio.
Nel protestantesimo, per es., la femminilità è riconosciuta come fondamentale della natura umana, è goduta e cessa d’essere oggetto di desiderio, proprio perché i pastori non devono seguire il celibato. La donna dunque non è più proiettata come desiderio e in questa religione viene meno il culto della Madonna.
Nel momento in cui le qualità più alte dell’uomo si staccano da lui, si verifica un impoverimento fino a che l’uomo religioso si sente un nulla in confronto a Dio e questo provoca l’inginocchiarsi, il chiedere perdono…. Questa è un’altra assurdità della religione: ci si piega di fronte ad una nostra creazione.
• RAPPORTI CON HEGEL
La critica nei confronti della religione investe anche Hegel; la sua filosofia è, secondo Feuerbach, una forma di teologia mascherata da filosofia, nel senso che un attributo della natura umana, quale il pensiero, è separato dalla natura umana stessa e trasformato in un soggetto autonomo (ipostatizzazione) dagli individui, in altre parole l’Idea da cui deriva la natura e gli uomini.
Questo processo si verifica analogamente anche in ambito religioso, dove gli attributi della natura umana sono stati proiettati al di fuori dell’uomo, per essere trasformati in una realtà autonoma e originaria da cui sono derivate tutte le cose.
Hegel attraverso la sua filosofia rende l’uomo, che è il vero soggetto, un semplice attributo. Il concreto non è più il punto di partenza ma diventa il risultato dell’astratto.
Secondo Feuerbach, l’uomo non è solo pensiero, ma egli recupera la dimensione del sensibile, l’uomo è innanzitutto carne e ossa, ha un corpo che ha bisogni, desideri, passione e amore.
• “ESSENZA DELLA RELIGIONE” (1845)
In quest’opera il fenomeno religioso è spiegato a partire dall’uomo che è, però, collocato nella natura dove sono presenti forze ambivalenti, che possono essere utili e nocive come ad es. il sole, la pioggia, il mare…. Di fronte a queste forze l’uomo vive in una condizione d’incertezza sul suo futuro e questo genera la speranza e il timore.
Non conoscendo la natura e le vere cause dei fenomeni naturali, l’uomo finisce col divinizzare quelle forze, concependole antropomorficamente. Egli cercherà per questo di ottenere la loro benevolenza affinché non lo danneggino: alla base della religione c’è quindi la volontà dell’uomo di controllare la natura, allontanando gli effetti negativi.
È questo comunque un controllo fantastico, perché quello vero può solo derivare dalla conoscenza profonda della natura e delle sue leggi. L’uomo quindi si costruisce fantasticamente i mezzi per controllare la natura, ma il dominio alla base della natura non porta a nulla.
• “TEOGONIA” (1857)
In quest’opera Feuerbach afferma che alla base della religione c’è un desiderio di felicità che è proiettato nell’aldilà, nel divino e il trascendente è appunto la realizzazione di questo desiderio umano.
A partire dalla considerazione del divino si può conoscere ciò che l’uomo desidera, infatti, il Paradiso non è altro che la realizzazione di un desiderio. Se questo è vero l’uomo, aspira ad essere perfetto e onnipotente. Feuerbach afferma che: “Dimmi ciò che adori e ti dirò cosa desideri”.
Se quindi alla base della religione c’è l’uomo che desidera, Dio non è solo la personificazione del desiderio umano, ma finisce con essere subordinato all’uomo, diventando uno strumento utile a soddisfare tutti i desideri umani.
Anche se Feuerbach mette in discussione l’esistenza di Dio, egli ha nei confronti della religione un atteggiamento serio poiché non deve essere sottovalutata perché una volta riconosciuto che in Dio ci sono gli attributi umani, la religione può diventare una forma diretta d’auto coscienza.
La religione quindi non scompare, come diceva Marx, nel momento in cui verrà meno quando l’uomo non avrà più il desiderio di felicità e onnipotenza, poiché il divino, valore più alto, deve essere riconosciuto nell’uomo stesso; bisogna mantenere il contenuto dell’umanesimo di Feuerbach che è appunto la natura umana, esso non deve essere negato.
Karl MARX
• VITA
Nacque nel 1818 da una famiglia d’origine ebraica, studiò dapprima diritto e poi filosofia, ci fu, infatti, il confronto con Hegel e la sua scuola. Il problema che affascina questo filosofo è quello del rapporto tra la ragione e la realtà, la quale non è già razionale ma lo deve ancora diventare. Marx è, infatti, d’accordo con la sinistra hegeliana che sostiene che la filosofia deve penetrare nella realtà.
Non potendo insegnare, si dedica all’attività di giornalista ma una volta trasferitosi a Parigi iniziò studi d’economia e politica e conobbe i socialisti francesi. Dopo vari spostamenti si stabilì definitivamente a Londra dove vi morì nel 1883.
Nel corso della sua vita egli fu un filosofo, un economista e un sociologo; la sua filosofia voleva essere una forza trasformatrice della realtà che deve essere cambiata attraverso l’illuminazione filosofica.
Nel 1876 partecipò alla 1° Internazionale con Mazzini e nel tentativo di dare un programma al partito comunista scrisse nel famoso “Manifesto”.
Molto importante fu l’amicizia che strinse con Engels con il quale collaborò ad importanti scritti e per molti anni.
• RAPPORTI CON LA FILOSOFIA DI HEGEL
Marx mosse diverse critiche a Hegel dove utilizza tratti della filosofia di Feuerbach contro questo filosofo, tutte le critiche sono contenute nell’opera: “Critiche alla filosofia hegeliana del diritto pubblico” (1843).
Marx contesta uno dei più grandi vizi di Hegel, quello di invertire soggetto e predicato, di trasformare in pratica il vero soggetto in predicato e viceversa, in poche parole rovescia l’ordine della realtà. Hegel considera, infatti, un attributo dell’uomo, come il pensiero, come un qualcosa che non ha un’esistenza autonoma, ma come ciò che vive nei singoli individui, egli lo trasforma in un vero e proprio soggetto, il pensiero, l’Idea diventano principio della realtà. Gli uomini quindi non sono il punto di partenza ma solo un risultato. Secondo Marx è necessario ristabilire un ordine nella realtà dove l’uomo è il vero soggetto mentre il pensiero è un semplice attributo.
Questo modo di procedere è pericoloso in ambito politico perché se lo stato si presenta come incarnazione della Ragione, dell’Idea, si corre il rischio di giustificare e santificare istituzioni che non sono per niente razionali. Lo stato è considerato come assoluto e intoccabile, non sarà possibile protestare ma si dovrà solo obbedire ad esso. Marx però non ritiene ciò concepibile perché non bisogna giustificare l’esistente semplicemente perché la realtà non è ancora razionale.
Per spiegare questo “vizio” di Hegel, nel testo “Sacra famiglia”, Marx propone un es. scherzoso: per l’uomo comune vengono prima le mele, le pere, le mandorle (concreto – vero soggetto), mentre il concetto di frutto viene solo dopo (astratto – predicato). Nella filosofia hegeliana questo rapporto è rovesciato, il concetto di frutto diventa quindi un principio prima da cui deriva ogni singolo frutto.
Il dibattito politico è molto importante per Marx, egli considera il significato che lo stato moderno ha assunto nel corso della storia: l’età moderna è caratterizzata da una divisione tra l’uomo come borghese nella società civile e l’uomo come cittadino nello stato.
Nella società civile, in effetti, quello che conta è l’individuo e i suoi interessi privati, vale solo l’ambito del particolare. Questo stesso individuo, che persegue sempre e solo il proprio interesse, partecipa anche all’attività politica, alla vita dello stato, e in quest’ambito il suo compito è di curare con gli altri il bene universale.
L’uomo vive dunque in due mondi, uno caratterizzato dall’interesse particolare e uno da quello collettivo e questa situazione caratterizza il mondo moderno.
Marx considera da vicino questa situazione, sostenendo che l’emancipazione e il superamento delle ingiustizie non possono essere ottenuti solo a livello politico. I diritti devono essere universali, ma questo non basta comunque a rendere l’uomo emancipato perché a livello politico non basta a cancellare le disuguaglianze tra gli uomini, che rimangono ad altri livelli, come quello economico.
Marx evidenzia anche il fatto che, nell’età moderna, lo stato non ha esercitato a pieno il suo dovere perché si è piegato alla difesa d’interessi di parte, di pochi privilegiati, rinunciando alla sua funzione universale. Egli è convinto che con il suffragio universale, lo stato possa ancora liberare l’umanità. Infatti, Marx parla spesso di “un cielo e una terra della politica” dove tutti operano per il bene della comunità.
Nel 1844 compose l’opera “Manoscritti economico – filosofici” dove si confronta con i grandi temi dell’economia e critica gli economisti classici inglesi e considera in particolare il lavoro che vede come base della società umana. Il lavoro è, infatti, il processo attraverso cui l’uomo si oggettiva prolungandosi nelle cose.
Marx definisce il lavoro delle moderne società capitalistiche come ALIENATO; ciò significa che l’uomo anziché affermarsi come uomo nelle cose che produce, egli smarrisce se stesso e si fa altro da sé, decade dalla sua posizione d’uomo, si disumanizza.
Quest’alienazione comprende quattro aspetti:
1) ALIENAZIONE RISPETTO IL PRODOTTO: il lavoro dell’operaio non è il prodotto dell’operaio perché il risultato della sua attività lavorativa gli sfugge di mano poiché egli è espropriato del prodotto che ha realizzato, esso si stacca da lui diventando estraneo all’operaio stesso.
Ciò succede anche in ambito religioso, dove un prodotto dell’uomo, Dio, diventa una potenza indipendente dall’uomo stesso e tanto più l’uomo proietta se stesso in Dio, tanto più s’impoverirà e la stessa cosa succede anche nel lavoro alienato.
2) ALIENAZIONE RISPETTO L’ATTIVITÀ: il lavoro è presentato come una caratteristica puramente umana, ma nella società capitalistica il lavoro non è umano, non è una forma d’affermazione di sé perché si tratta di un lavoro alienato, dove l’uomo nega se stesso e diviene altro da sé. Il lavoro non dovrebbe essere, infatti, un mezzo per soddisfare i nostri bisogni, ma un fine per sé, un’affermazione di sé.
L’uomo in questa società moderna sfinisce il suo corpo e distrugge il proprio spirito poiché il lavoro nella società capitalistica non è libero ma è un’attività forzata da altri, si basa su ritmi imposti all’operaio da altri privando così il lavoro del suo carattere della creatività, per assumere quello della ripetitività.
Secondo Marx l’uomo dovrebbe sentirsi tale proprio quando lavora, ma in quelle particolari condizioni egli si sente un animale costretto a ritmi alienanti. Allora si sente uomo quando svolge funzioni animali (mangiare, bere, sessualità). Ciò che è animale diventa umano e viceversa quello che è umano, come il lavoro, diventa animale.
3) ALIENAZIONE RISPETTO LA PROPRIA ESSENZA: l’essenza dell’uomo è di essere un ente generico, l’uomo è, infatti, in rapporto necessario con la natura e gli altri uomini.
Il lavoro implica anch’esso un rapporto con la natura e con gli altri; esso implica quindi il rapporto tra l’uomo e il genere.
Dato che il lavoro è alienato, l’uomo sarà alienato rispetto al genere e il suo rapporto con la natura e con gli altri è altro rispetto a quello che dovrebbe essere.
4) ALIENAZIONE COME ESTRANIAZIONE: il lavoro alienato significa anche un’estraniazione dell’uomo rispetto all’altro, questo non appare, infatti, come un simile ma come una potenza estranea (rapporto tra operaio e capitalista). Se l’attività dell’operaio è per lui un tormento, sarà godimento per qualcun altro.
• CRITICHE AGLI ECONOMISTI CLASSICI
Secondo Marx questi economisti hanno occultato il lavoro alienato e hanno presentato le leggi e i meccanismi dell’economia capitalista (proprietà privata) come se fossero cose naturali e immutabili. Questi istituti però non sono naturali ma prodotti della storia che in quanto tali possono nascere e morire. C’è un legame tra il lavoro alienato e la proprietà privata, perché il lavoro espropriato all’operaio è l’origine della proprietà privata.
L’economia classica ha inoltre nascosto le opposizioni e i conflitti della società capitalistica, presentandola come una società armonica: ha nascosto il conflitto tra capitale e lavoro salariato e non è stata in grado di cogliere la contraddizione tra l’arricchimento di pochi e l’impoverimento di molti, che la concorrenza sfrenata ha causato la concentrazione capitalista e che l’interesse del capitalista è in contrasto con la società.
Se l’uomo è in catene non è a causa del fatto che si piega dinnanzi a Dio, ma la colpa è nella struttura economico – sociale della società.
Marx utilizza il metodo dialettico e quindi l’alienazione dell’uomo sarà parte di un processo più ampio che dovrà risolversi dialetticamente con il momento della riappropiazione dell’essenza (riaffermazione di sé, che per Marx si verificherà con il Comunismo). Quindi nel momento della negazione della negazione, se l’alienazione è una negazione dell’uomo, il superamento di questa sarà la riaffermazione dell’uomo. Il Comunismo appare perciò come l’atto attraverso cui l’uomo può ritornare in sé e questo è il risultato della storia.
I risultati invece cui perverrà la società comunista sono:
1. Cambiamento della logica che passa dalla logica dell’avere a quella dell’essere;
2. Sarà una società caratterizzata da uno sviluppo onnilaterale (in tutte le direzioni) dell’individuo (di tutti i talenti) e il lavoro stesso sarà un libero creare, l’espressione di sé, un prolungamento di sé, da cui l’uomo avrà conferma di sé e delle proprie capacità;
3. Oggi noi consideriamo nostro un oggetto solo quando lo possediamo, lo consumiamo e lo sfruttiamo per i nostri bisogni, ma nella società comunista invece l’oggetto potrà essere visto e goduto anche sotto altre forme (cioè non avrà solo significato di consumo, utilizzazione), avrà significati anche estetici. Si creerà un nuovo rapporto non più alienato sia con la natura sia con l’altro uomo.
A differenza di Hegel, quindi, il soggetto non è più l’oggetto ma l’uomo stesso. Hegel ha sbagliato ad individuare il soggetto nella sua dialettica, che per Marx è semplicemente l’uomo nella storia.
• CRITICHE DI MARX A FEUERBACH
Nel 1845 Marx scrisse 11 tesi critiche su Feuerbach.
Nella PRIMA CRITICA Marx afferma che Feuerbach ha parlato di un’essenza dell’umanità, che sta nell’avere le proprietà fondamentali generiche, in altre parole egli crede che vi sia una natura umana con proprietà generiche, un’essenza universale e immutabile in tutti i tempi.
Secondo Marx ciò non è possibile perché ciò che l’uomo è dipende dai suoi rapporti sociali. L’uomo è, infatti, un essere sociale che vive in contatto con gli altri uomini (Feuerbach ignorò quest’aspetto) e per questo quello che l’uomo è non dipende da un’essenza stabilita, generale e universale, ma dai rapporti sociali che possono variare nel tempo.
Feuerbach si sbaglia perché ha una visione ancora borghese dell’uomo, lo considera nella sua individualità, trascurando quindi l’aspetto sociale. Marx vede l’uomo come dipendente dalla società e quindi se questa muta, cambiano anche i rapporti sociali e quindi ciò che l’uomo è.
Inoltre Feuerbach ha trascurato la dimensione della storia, perché non concependo più la società, essendo quest’ultima legata alla storia, ha ignorato anche la storia stessa.
Secondo Marx la storia cambia insieme all’individuo e quindi per comprendere l’uomo dobbiamo guardare anche alla società in cui è inserito.
Allo stesso modo per comprendere la religione, come ogni altra forma di manifestazione umana, dobbiamo considerare la società e i rapporti sociali. Questa quindi non è causa dell’alienazione dell’uomo, della superstizione e dell’infelicità, bensì è l’effetto di una società malata: il desiderio di trascendenza, di felicità ultraterrena nasce dal fatto che la società in cui l’uomo vive si basa su rapporti sociali malati, reggenti cioè sull’ingiustizia e sullo sfruttamento (capitalismo).
La religione viene dunque considerata da Marx come una spia del malessere terreno dell’uomo, è il segnale di un qualcosa che non va, dell’infelicità. Con il Comunismo, la religione verrà meno così come l’ateismo perché l’uomo sarà così consapevole d’essere lui e la natura il tutto, la realtà, che non avrà più bisogno di Dio e nemmeno di negarne l’esistenza: l’ateo nel momento in cui nega Dio lo riconosce ma nella società comunista non ci sarà più la necessità di un’entità superiore perché sarà una società lontana dalla miseria.
Per far venir meno la religione non basta però la critica teorica di Feuerbach, ma dipendendo questa dalla miseria terrena, occorrerà trasformare la società, che è causa del bisogno religioso e per eliminare la società malata sarà necessaria un’azione pratica e concreta.
La religione, per Marx, ha un effetto consolatorio, la definisce come “l’oppio dei popoli”, poiché è una forma di rimedio che però lascia immutata la realtà delle cose, perché crea dei mondi sovrannaturali (come uno stupefacente). Egli afferma dunque che non serve a nulla l’azione stupefacente della religione, in quanto concretamente non muta nulla, ma bisogna passare all’azione – rivoluzione se si vuole cambiare realmente il mondo.
Nella SECONDA CRITICA, Marx riprende l’idea di Feuerbach in base alla quale egli concepiva l’uomo in carne e ossa, ne recupera la sfera della sensibilità, egli manifesta una volontà di concretezza con la quale Marx è d’accordo, però non basta parlare dell’uomo in carne e ossa per definire i tratti dell’uomo concreto, poiché l’uomo è innanzitutto rapporto sociale e storici e in secondo luogo l’uomo concreto è l’uomo che svolge un’attività pratica, un lavoro.
Feuerbach ha dunque trascurato la dimensione del lavoro (cosa che invece non ha fatto Hegel), ma per Marx l’attività pratica è trasformazione della materia.
È stato l’Idealismo a sottolineare il momento del lavoro però quell’attività concepita dagli idealisti è solo attività intellettuale del pensiero (e qui sta il limite), l’attività deve essere invece pratica e sensibile e i suoi prodotti del pensiero, ma risultati concreti.
Il materialismo, per Marx, ha avuto ragione nel ritenere la realtà che è di fronte a noi come una realtà oggettiva, indipendente da noi ed esistente fuori di noi (oggetto indipendente dal soggetto), ma non ha considerato che se la realtà è veramente indipendente da noi, è altresì vero che una determinata cosa esiste grazie al lavoro di un uomo, come ad es., il tavolo o una sedia. Quindi anche il materialismo ha trascurato il lavoro umano.
L’ambiente naturale esercita un’influenza sull’individuo, ma anche l’uomo può esercitare un’azione sull’ambiente, che a sua volta influenza l’uomo e così via; per Marx la vita è il risultato di un’azione continua: noi siamo il risultato delle azioni delle generazioni passate e al tempo stesso influenziamo il presente e le generazioni future.
Non esiste dunque un’essenza universale ma c’è l’uomo concreto, un essere sociale storico con un’attività pratica: “I filosofi hanno interpretato diversamente il mondo, ora si tratta di cambiarlo”.
• LA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA o MATERIALISMO STORICO
Il tema del materialismo storico è trattato nell’”Ideologia Tedesca”, composta con Engels, tra il 1845-6. Marx ed Engels rompono con la sinistra hegeliana per comporre un’opera la cui originalità risiede nel fatto che essi vogliono individuare le vere basi della storia. Il loro scopo è di creare una scienza reale e oggettiva in grado di cogliere i fondamenti, le forze motrici della storia stessa e che vada contro le ideologie, cioè quelle rappresentazioni che hanno nascosto i veri fondamenti della storia dell’uomo. In definitiva essi ambiscono ad una comprensione oggettiva della storia dell’uomo.
Il titolo stesso dell’opera indica che i due filosofi vogliono andare contro le ideologie, poiché sono rappresentazioni false, mistificanti e deformanti che gli uomini hanno dato di se stessi e della storia. Il materialismo storico vuole perciò smascherare tali ideologie per arrivare alla comprensione oggettiva della storia.
Secondo Marx ed Engels, è una rappresentazione ideologica credere che siano le idee degli uomini a fondamento della storia ed anche il ritenere che siano le stesse idee le catene degli uomini e che l’uomo per emanciparsi deve cambiare le sue idee.
Il materialismo storico afferma che le idee degli uomini, le forme di coscienza (arte, politica) non godono di una reale autonomia ma presuppongono la realtà materiale della loro vita, il lavoro che implica il rapporto dell’uomo con la natura e l’altro uomo.
Le idee degli uomini sono legate e condizionate dalla struttura economica e sociale e ne sono un riflesso. Ad es. nella società feudale, dove vigevano determinate attività produttive e relazioni sociali, ci sono idee e valori come la fedeltà e così anche nella società capitalistica ci sono idee e valori particolari come quello della libertà d’iniziativa e interesse privato.
Dunque se la vita dell’uomo è oggettivamente diversa nel corso della storia, cambierà anche la forma della sua coscienza, ciò che l’uomo pensa di sé. Non è quindi la coscienza a determinare la vita dell’uomo, ma è la vita che determina la coscienza che l’uomo ha di sé; il nostro modo d’essere è legato alla nostra condizione materialistica.
Con lo sviluppo della società e dell’umanità si è giunti ad una divisione sempre più marcata del lavoro e con essa è accaduto che il lavoro intellettuale si è sempre più separato dalle attività pratiche, e rendendosi autonomo ha portato gli uomini a credere che le idee siano autonome dalla realtà. L’ideologia è dunque ogni rappresentazione della realtà che ci presenta le idee come non condizionate dalla condizione materiale della realtà.
Gli intellettuali delle classi dominanti, borghesi hanno presentato le loro idee, libere dai condizionamenti materiali, come se fossero valide ora e sempre, dimenticando il loro legame con la storia reale. Essi hanno creato un’assolutizzazione delle loro idee e dei loro valori.
Questo per Marx ed Engels non è accettabile perché le idee borghesi sono solo relative e presentarli come assoluti, rivela un interesse dell’intellettuale borghese di assoggettare tutti ad esse e acquisire maggiore potere.
Le forze motrici della storia sono gli individui reali e i loro bisogni materiali che devono essere soddisfatti per sopravvivere. La prima azione storica è appunto quella di creare mezzi in grado di soddisfare questi bisogni, dei mezzi per produrre e riprodurre la vita stessa. Tutto ciò vuol dire che la prima azione storica è il lavoro. La fase successiva è quella in cui si formano nuovi bisogni che rimpiazzano i vecchi che sono stati ormai già soddisfatti, poi c’è il momento della riproduzione della vita e quindi dell’istaurarsi della famiglia ed infine nasce l’esigenza di relazionarsi sia con gli altri membri della famiglia sia con il resto della società.
Solo a questo punto l’uomo arriva ad avere coscienza di sé perché è in stretto legame con le attività che ne sono un riflesso.
➢ Nel lavoro si distinguono due aspetti:
1. FORZE PRODUTTIVE: sono gli uomini che lavorano e i mezzi di cui si servono per lavorare, ma anche le conoscenze che sono richieste per costruire quegli strumenti.
2. RAPPORTI DI PRODUZIONE: sono i rapporti che s’instaurano nel mondo del lavoro che trovano una sanzione giuridica come i rapporti di proprietà. Tali rapporti sono innanzi tutto quelli tra chi possiede i mezzi di produzione e chi no.
3. Ad es. nella società feudale le forze produttive sono il servo della gleba, i mezzi, gli strumenti e la terra, mentre i rapporti di produzione sono quelli che s’instaurano tra il feudatario e il servo; nella società capitalistica invece le forze produttive sono gli operai e le macchine mentre i rapporti di produzione sono quelli tra il capitalista e l’operaio, il primo anticipa i salari e compra i mezzi di produzione, il secondo vende la sua forza lavoro in cambio di un salario che gli serve per reintegrare la forza stessa. La costante nei rapporti di produzione è il conflitto tra chi lavora e chi consuma, chi comanda e chi è subordinato; quanto maggiore è il salario dell’operaio tanto minore è il profitto del capitalista.
I rapporti all’interno della produzione sono quindi rapporti di conflitto e per questo Marx afferma che la storia è caratterizzata dal conflitto tra classi, dalla lotta di classe.
Con la società nasce anche lo stato, che dovrebbe essere il momento dell’universale, che supera gli interessi particolari per favorire invece il bene comune, ma, di fatto, storicamente non è così poiché esso si è palesato sempre più come strumento a favore delle classi dominanti a scapito della classi povere. La divisione vigente in ambito civile si riproduce quindi anche a livello politico.
Sulla struttura economico – sociale si eleva una sovrastruttura caratterizzata dalle forme di coscienza dell’uomo, delle forme culturali (arte, religione, politica e filosofia), le quali non sono autonome ma vanno caratterizzate in rapporto alla sovrastruttura in quanto riflessi di essa, riflettono cioè l’uomo com’è nell’ambito reale, nella struttura economico – sociale.
Ad es. il diritto romano non è autonomo ma riflette determinati diritti di proprietà propri della società in cui nascono. Il messaggio di Cristo non nasce dal nulla ma riflette il bisogno di riscatto dei ceti più umili della società, anche la religione “guerriera” dell’Islam è secondo Marx la diretta espressione delle mire espansionistiche del mondo arabo, e ancora il pensiero politico di Platone, non è scisso dalla società del tempo, perché riflette il pensiero della classe aristocratica ateniese ed infine lo stato moderno che difende la proprietà privata è il risultato di una società civile.
Nonostante tutto non vi è un rapporto meccanico tra la struttura e la sovrastruttura, la sovrastruttura può, infatti, a sua volta esercitare un’influenza sulla struttura, non esiste un rapporto di dipendenza assoluto, ma un’iterazione di fattori anche se in primo luogo è la struttura a condizionare la sovrastruttura.
“Le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini fanno le circostanze”.
La società però è inserita nello sviluppo storico e quindi non dobbiamo assumere nei suoi confronti un approccio statico, ma dinamico: dobbiamo considerare i fattori che causano il mutamento nella società. Per fare questo dobbiamo fare, ancora una volta, riferimento alle forze produttive e ai rapporti di produzione; quest’ultimi sono proprio la molla del divenire perché possono ostacolare le forze produttive, questo porta la società ad una crisi rivoluzionaria che finisce con l’affermazione delle forze in ascesa rappresentate da una nuova classe.
Ad es. la Francia pre – rivoluzionaria del ‘700, vedeva nuove forze produttive in ascesa (borghesia industriale e finanziaria) che per espandersi avevano bisogno di tre cose:
1. Disporre di manodopera libera e disponibile (non in condizione servile);
2. Libertà di movimento (per commerciale);
3. Bisogno di acquistare terre per sfruttarle in modo più intenso.
Di contro i rapporti di produzione agrario – industriale della società feudale dove vigeva ancora l’istituto della servitù della gleba, impedivano ai borghesi di avere una manodopera libera oppure il signore feudale ostacolava i commerci imponendo forme di tassazione quando il mercante entrava nei suoi possedimenti ed infine le terre, in base a quei rapporti, dovevano rimanere inalienabili (non potevano essere vendute). Questi contrasti tra forze produttive e rapporti di produzione provocano una crisi rivoluzionaria che garantisce l’affermazione delle classi in ascesa, che cambieranno i rapporti di produzione.
Nel moderno capitalismo industriale è presente in forma sempre più evidente una contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione. Il contrasto è tra le forze produttive di natura sociale, cioè gli operai che lavorano nelle fabbriche moderne, le quali arruolano migliaia di persone e proprio per questo potremmo dire che la produzione coinvolgesse l’intera società, e i rapporti di produzione sono invece di natura privatistica, in pratica i mezzi di produzione sono di pochi, utilizzati per gli interessi di pochi e per il guadagno di tutti.
La contraddizione è così forte che finirà per esplodere, si affermerà dunque una società in cui i mezzi di produzione saranno di tutti e utilizzati per soddisfare i bisogni dell’intera società e per il guadagno di tutti. S’istaureranno quindi nuovi rapporti di produzione non più privatistici ma sociali.
• “MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA” (1848)
Qui Marx ed Engels presentano il comunismo come un risultato necessario della storia, essi parlano di un socialismo scientifico che presenta la nuova società come fondata sull’analisi della storia stessa. Essi riconoscono anche il ruolo rivoluzionario della borghesia che ha continuamente rivoluzionato i mezzi di produzione e di comunicazione, ha cambiato il modo di pensare, ha cancellato ogni sentimentalismo, ha concepito i rapporti tra gli uomini come basati sull’interesse, ha laicizzato i costumi e ha aumentato la concentrazione dei beni prodotti nelle mani di pochi. Ma proprio tutto questo causerà una sempre maggiore concentrazione del potere politico.
La storia subisce però una semplificazione perché si crea un conflitto tra due classi contrapposte: quella dei capitalisti e del proletariato.
L’avvento del comunismo non deve essere considerato come un’azione automatica, ma perché esso si affermi è necessaria l’iniziativa del proletariato, che partendo dall’idea di essere la classe sfruttata, deve agire per fare emergere la contraddizione propria della società capitalistica.
È la borghesia stessa che crea il suo antagonista, attraverso la proliferazione di forze produttive, invece per spingere il proletariato alla coscienza di classe è necessaria la presenza di un partito comunista di cui Marx ed Engels tracciano il programma.
Questo partito non deve essere una stretta cerchia di rivoluzionari che scavalcano gli operai stessi, non ci deve essere nemmeno spontaneismo, esso deve essere “un passo avanti” alla classe operaia, il partito diventa una guida strettamente unita agli operai di cui a chiara consapevolezza della loro storia.
Le tappe della Rivoluzione, compiuta sotto la guida di questo partito sono diverse, lo stato è considerato come il potere organizzato dalla classe dominante per l’oppressione di una classe inferiore. Il proletariato invece, con la Rivoluzione, dovrà impossessarsi del potere politico, dei mezzi di produzione e della struttura economica.
Lo stato diventerà dunque da borghese a STATO PROLETARIO, comincerà però la dittatura di una nuova classe che n’opprime un’altra.
Nel momento in cui si reprime l’oppressione si attraversa una fase di transizione, di guerra civile che può essere esemplificata da quella fase in cui in Francia s’instaurò la Comune di Parigi.
In questa fase il consumo e la distribuzione dei beni dipenderanno dal lavoro svolto: “A ciascuno secondo il lavoro che è stato svolto”; in questo modo verrà sempre meno la figura del capitalista e anche, di conseguenza, la divisione in classi e la classe del proletariato che finirà con coincidere con l’intera società.
Non essendoci più classi non sarà più necessario lo stato in quanto tale, e allora i mezzi di produzione saranno nelle mani della società e utilizzati per soddisfare gli interessi di tutti. Lavorando tutti potrà diminuire la giornata lavorativa, lasciando tempo a tante altre attività come quelle intellettuali.
La società comunista sarà dunque un’associazione nella quale il libero sviluppo di tutti e muterà anche la logica che controlla i rapporti tra gli uomini: “A ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Il Manifesto terminerà con la celebre frase: “Proletari del tutto il mondo unitevi”.
Durante il soggiorno a Londra studiò economia per impadronirsi dei reali meccanismi della società capitalistica. Questi studi culminarono con la pubblicazione dell’opera “Il Capitale”.
• “IL CAPITALE”
Quest’opera è divisa in tre libri e studia la società capitalistica, intesa come una società in cui circolano merci. Per MERCE s’intende un valore d’uso, vale a dire un oggetto che ha qualità utili per soddisfare i bisogni dell’uomo. La merce ha anche un valore di scambio, l’oggetto può essere quindi scambiato secondo una certa proporzione, con altri valori d’uso.
Tra le diverse quantità di merci c’è il medesimo valore di scambio che consiste in sostanza nel valore in base al quale quella certa quantità di prodotto, valore può essere scambiata con un’altra quantità di valore, considerata equivalente alla prima.
Se si realizza lo scambio, ciò significa che negli oggetti differenti come valore d’uso, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza: uno e l’altro sono uguali ad una terza cosa, a sua volta distinta da essi.
Gli oggetti sono accomunati dal fatto che hanno lo stesso valore di scambio e sono entrambi prodotti del lavoro umano, non concretamente svolto, ma il lavoro astratto, che corrisponde alla semplice capacità lavorativa dell’uomo, alla forza delle sue braccia. Ciò è appunto l’elemento comune: per produrre una determinata merce è stata necessaria la medesima quantità di tempo di lavoro a livello sociale, in media.
Se ad es. consideriamo la lana greggia con un valore di scambio pari a 2, dopo essere stata lavorata dall’uomo aumenta di valore e arriva a 5. Il valore aumenta perché la materia prima incorpora in sé il lavoro dell’operaio, ed è proprio questo che crea il valore. Questa è quella che viene chiamata TEORIA DEL VALORE LAVORO.
• Studiando il sorgere della società capitalistica, Marx individua una società mercantile semplice: M_D_M; in questa società vi è una merce di scambio M che viene venduta, dalla vendita si ricava una somma di denaro D che viene a sua volta utilizzata per acquistare una nuova merce M che serve a soddisfare una necessità. In questa società pre - capitalistica il denaro è solo un mezzo di scambio tra merci d’uguale valore.
Nella società capitalistica moderna vige un’altra relazione: D_M_D’. il capitalista possiede una certa somma di denaro D che utilizza per acquistare una merce o per avviare un’attività M, che gli permetterà di ottenere una somma di denaro D’ superiore a quell’iniziale. Questo guadagno si chiama PLUS VALORE: incremento di un valore rispetto al capitale inizialmente posseduto.
Per ottenere il plus valore il capitalista non deve effettuare una semplice operazione di scambio, che si basa sempre su merci equivalenti, ma deve porre attenzione all’altro ambito della vita economica, cioè il momento della produzione di un bene.
È in questo particolare momento che il capitalista investe il suo capitale per acquistare le materie prime e i mezzi di produzione. Egli impiega così una somma pari ad es. a 30$ che rappresenta il CAPITALE COSTANTE (rimane invariato nelle merci prodotte). Il capitalista però necessita di una forza lavoro che trasformi le materie prime e quindi deve affrontare una spesa, quella dei salari degli operai, pari ad es. a 6$.
Il salario di un giorno corrisponde al valore dei mezzi di sussistenza necessari per mantenere in vita l’operaio per un giorno. I salari rappresentano il CAPITALE VARIABILE perché produrrà un valore superiore al salario stesso; se l’operaio lavora 1 ora, produrrà una merce con valore 1 che il capitalista rivenderà sul mercato ad un valore maggiore di quello della merce, ma pari al valore delle materie prime e dei mezzi di produzione che è 3, il valore complessivo della merce sul mercato sarà dunque uguale a 4. Se l’operaio lavora per altre 6 ore, produrrà 6 merci, in ciascuna delle quali c’è il valore 3 delle materie prime e dei mezzi di produzione, più 1 che corrisponde al lavoro di un’ora.
Escludendo i mezzi di produzione, l’operaio lavorando 6 ore ha prodotto merci con valore pari a 6, avendo quindi la merce prodotta un valore pari al suo salario, l’operaio ha ripagato il capitalista della somma che gli era stata anticipata come salario: LAVORO NECESSARIO.
Se la giornata lavorativa finisce qui, l’operaio è riuscito a guadagnarsi il suo salario ma il capitalista non ha ottenuto nessun guadagno perché ha anticipato una somma pari a 6 per ottenerne una uguale. Quindi la giornata lavorativa prosegue, l’operaio lavora cioè per un numero d’ore superiore a quello necessario per rimborsarlo del suo salario anticipato; ammettiamo che egli lavora per altre 4 ore, tutti i frutti del lavoro che l’operaio svolge in queste ore sono incassati dal capitalista ed è così che sorge la teoria dello sfruttamento dell’operaio.
Si chiama dunque PLUS LAVORO quella parte della giornata lavorativa in cui l’operaio lavora producendo un valore pari, ad es., a 4 che è incassato dal capitalista, l’operaio non viene dunque pagato per il suo lavoro. Sempre in questa parte della giornata è prodotto il PLUS VALORE che è quella parte di lavoro che supera il valore corrispondente al salario dell’operaio. Esso corrisponde quindi alla differenza tra il valore complessivo dell’operaio (10) e il suo salario (4).
Se il capitale costante era uguale a 30, dopo che le merci saranno immesse sul mercato, il valore delle materie prime e dei mezzi di produzione è uguale (3x10), il capitalista lo ritrova tutto nelle merci che l’operaio ha prodotto.
Il capitale variabile invece che era uguale a 6, speso per comprare la forza lavoro, rende al capitalista 10, il capitale si è dunque valorizzato come è stabilito dallo schema della società moderna D_M_D’, dove M rappresenta la forza lavoro.
Il SAGGIO DI PLUS VALORE (o di sfruttamento) è uguale al rapporto tra plus valore e salario: 4/6=2/3. Il SAGGIO DI PROFITTO è invece il rapporto tra il plus valore e il capitale costante più il capitale variabile: 4/ (30+6) =4/36=1/9.
Il capitalista dovrà aumentare il plus valore per aumentare anche il saggio di profitto; ciò può farlo imponendo all’operaio un numero di ore lavorative maggiore, ma questa non è la via giusta da seguire. Infatti, è meglio aumentare la produttività del lavoro: se in 3 ore l’operaio produce merci con valore pari a quello del suo salario, resteranno 7 ore affinché l’operaio lavori per il capitalista producendo il plus valore. Per aumentare la produttività si cominciò con la divisione del lavoro fino ad arrivare nella società moderna con l’introduzione di macchine.
Si chiama dunque PLUS VALORE ASSOLUTO quello ottenuto aumentando la giornata lavorativa, mentre il PLUS VALORE RELATIVO è il risultato dell’aumento della produttività.
Tuttavia le macchine hanno un costo che deve essere aggiunto al capitale costante, che da 30 passa a 34. Per Marx però la necessità di introdurre macchine sempre più costose provoca un abbassamento del saggio di profitto: LEGGE DELLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO.
Il capitalista per opporsi alla caduta del saggio di profitto cercherà di abbassare i salari (capitale variabile), oppure creerà un esercito industriale di riserva o ancora sfrutterà la gran disponibilità di manodopera per abbassare i salari. Un’altra via può essere quella di utilizzare materie prime con un costo minore, reperibili attraverso lo sviluppo della politica imperialistica. Il fine del capitalista non è il consumo ma la continua valorizzazione del capitale.
Arthur SCHOPENHAUER
Secondo lui la filosofia nasce dallo stupore, la meraviglia che sorge dinnanzi al male e al dolore del mondo che sono ormai inalienabili ed essenziali nella vita stessa: “Perché il vivere è per essenza soffrire?”. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore nessuno probabilmente si chiederebbe il perché dell’esistenza del mondo.
Schopenhauer ha varie fonti tra cui Platone, l’Illuminismo materialistico, Kant, il Romanticismo (mondo come simbolo da interpretare e come manifestazione di un principio), l’Idealismo (non vi è una realtà indipendente dal soggetto) e recuperò anche la tradizione filosofica e religiosa indiana.
L’opera maggiore è “IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE” del 1818. La sua fortuna arrivò quando venne meno l’ottimismo generato dal positivismo e il romanticismo, solo allora la sua concezione pessimistica poté affermarsi.
Egli affermava che il mondo era una sua rappresentazione, cioè un insieme di oggetti che esistono perché colti da un soggetto; il mondo esiste in quanto oggetto della nostra coscienza e quindi non può esistere indipendentemente da essa: concezione idealistica.
Il mondo è dunque un fenomeno poiché è un qualcosa che appare e si manifesta ad un soggetto che coglie il mondo attraverso delle forme che condizionano l’apparire stesso dell’oggetto. Alla base di ogni momento della vita c’è il rapporto originario tra l’oggetto e il soggetto.
• RAPPORTI CON KANT
Schopenhauer riconosce a Kant il merito di aver distinto l’ambito del fenomeno e quello della cosa in sé (noumeno), di aver sottolineato che le nostre facoltà conoscitive possono cogliere solo i fenomeni, di aver parlato delle forme a priori che condizionano il nostro modo di percepire la realtà di cui Schopenhauer salva solo la categoria della causalità.
Tuttavia egli ha una diversa concezione del fenomeno e delle forme a priori; secondo Kant il fenomeno è una realtà oggettiva che deriva dall’applicazione di quei criteri comuni di giudizio, cioè la realtà risultante dalla scienza. Per lui inoltre la realtà fenomenica è l’unica conoscibile anche se non esclude l’esistenza delle cose in sé ed è un qualcosa che esiste fuori di noi.
Al contrario per Schopenhauer il fenomeno è un’apparenza illusoria, è un’immagine illusoria ingannevole, un velo che occulta la vera realtà. Si tratta solo di una realtà illusoria pari a quello che vediamo nei sogni o nelle allucinazioni ed esiste nella coscienza del soggetto e non al di fuori di lui.
Le stesse forme a priori perdono dunque la loro funzione oggettivante ma ne acquista una deformante poiché non ci fanno vedere la realtà così com’è.
L’altra importante differenza è che, se per Kant i noumeni sono in conoscibili, per Schopenhauer ciò è possibile attraverso una via particolare: se noi dirigiamo le nostre facoltà conoscitive verso l’esterno, possiamo cogliere solo fenomeni, e allora dobbiamo guardare dentro di noi per renderci conto di essere e di avere un corpo considerato come uno fra tanti.
• Quando consideriamo la nostra interiorità ci rendiamo conto che abbiamo molti atti di volontà che si traducono immediatamente in un movimento corporeo, che comunque non segue propriamente l’atto di volontà come l’effetto segue la causa: il legame tra i due termini è molto più profondo poiché il movimento corporeo è la manifestazione fenomenica obiettiva nello spazio e nel tempo di un atto di volontà che rappresenta, rispetto a quella manifestazione fenomenica, la cosa in sé di cui quella manifestazione è fenomeno.
Il nostro corpo e i suoi movimenti sono il fenomeno che nasconde la cosa in sé costituita dalla nostra volontà. La nostra volontà in sé più profonda è quindi la nostra volontà di vivere, un impulso ad agire e esistere.
A questo punto Schopenhauer fa valere il PRINCIPIO DELL’ANALOGIA: ciò che vale per l’uomo vale per tutte le realtà dell’universo. Come dietro l’apparenza fenomenica del corpo c’è la volontà, così dietro l’apparenza fenomenica della natura batte la medesima volontà di vivere. La volontà è dunque la cosa in sé di cui tutti gli esseri sono manifestazione fenomenica.
Nella natura inorganica o organica, la volontà di vivere è inconscia, mentre nell’uomo è consapevole di sé. La cosa in sé quindi non è statica, ma è un movimento, un tendere a, ma essendo distinta dal fenomeno, questa volontà avrà caratteri opposti ad esso.
I fenomeni costituiscono una molteplicità perché vengono colti attraverso lo spazio e il tempo, mentre la volontà di vivere è unica e non conosce la dimensione del tempo e dello spazio e sarà quindi ovunque e eterna. Inoltre è priva di una causa e uno scopo, è irrazionale, non ha un perché; si vuole vivere perché si vuole vivere, perché in noi c’è una volontà che ci spinge a continuare a vivere. Se non vi è quindi un senso, il principio è una volontà di vivere che batte in tutti gli uomini, ma è una forza irrazionale.
Questa volontà si oggettiva nelle Idee, intese come modelli di tutte le cose, nelle forze della natura, come la forza di gravità e in tutti gli esseri della natura.
Dire che ogni essere è rappresentazione fenomenica di questa volontà significa affermare che la VITA È DOLORE PER ESSENZA; le ragioni di quest’affermazione sono diverse, ad es., nella nostra vita abbiamo diverse volontà che difficilmente sono appagate e ciò provoca in noi un sentimento di frustrazione, di dolore. Inoltre la soddisfazione dei nostri desideri è soltanto apparente e momentanea, poiché un desiderio appagato dà subito luogo ad un altro desiderio perché nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può appagarci durevolmente. D’altra parte se potessimo incentrare un oggetto che ci appaga totalmente, la nostra volontà si estinguerebbe, ma questo non è possibile perché essa ha fine in sé. L’uomo si trova dunque in uno stato di continua insoddisfazione e perenne inquietudine.
Il volere significa quindi, desiderare e per desiderio s’intende uno stato di tensione per la mancanza di qualcosa che non si ha ma che si vorrebbe avere. Allora se il desiderio è uguale alla mancanza, sarà anche uguale al dolore.
Al contrario il piacere è la cessazione del dolore, si definisce sulla base di quest’ultimo, non è una realtà autonoma. Perché vi sia piacere deve esserci stato, in precedenza, un dolore, ad es. il godimento del bere presuppone la sofferenza della sete.
Per l’uomo è però possibile provare una serie di dolori senza che questi sono preceduti da piaceri, ma il piacere deve per forza derivare da un dolore anteriore.
Il piacere e la felicità, quindi, vivono a spese del dolore nel senso che sono concepibili in relazione ad esso; quando viene meno il dolore viene meno anche la felicità e Schopenhauer fa riferimento all’arte nella quale è possibile rappresentare l’anelito alla felicità, ma non essa stessa.
Accanto al dolore il piacere è solo qualcosa di momentaneo e quando non vi è più alcun desiderio, la vita sembra essere priva di senso e l’uomo sprofonda nella NOIA, quella situazione che viviamo quando ci rendiamo conto che il tutto non ha senso, quando non abbiamo la spinta al desiderio.
“La vita oscilla tra il dolore e la noia passando attraverso qualche intervallo fugace del piacere”.
L’uomo si distingue dagli altri esseri perché è caratterizzato dalla coscienza e quindi la sua volontà è consapevole, conscia, anche se però è anche causa di dolore. Quindi l’uomo avvertirà nitidamente il desiderio, la mancanza e la sofferenza, e in particolare lo avvertirà chi ha maggiore coscienza di sé e che quindi ha una maggiore sensibilità, quest’uomo è il GENIO.
Poiché la volontà di vivere batte in ogni realtà, tutto soffre. Questa rappresenta una forma di PESSIMISMO COSMICO dal momento che Schopenhauer non si limita ad affermare che nel mondo c’è il male, ma afferma che esso è presente nel principio stesso.
A differenza di Hegel, dove alla base della realtà vi era la ragione (atteggiamento fiducioso), qui ci troviamo dinnanzi ad un principio che non è niente di razionale e che causa dolore in ogni essere.
Per continuare ad essere, la volontà di vivere vuole che la specie umana si propaghi, per continuare a battere in essa; siccome la specie umana sopravvive grazie all’individuo, questo diventa uno strumento della volontà.
Nell’uomo è, infatti, presente il sentimento dell’AMORE che lo spinge ad unirsi con un altro individuo. Lo scopo dell’amore umano è, quindi, l’accoppiamento, la procreazione grazie alla quale la specie continuerà a propagarsi. Non a caso l’atto sessuale è accompagnato da un particolare piacere, proprio per stimolare la procreazione e l’accoppiamento.
Alla base dell’amore c’è proprio l’istinto sessuale, quindi questo sentimento sono due infelicità che s’incontrano e si scambiano e una terza che si prepara. Proprio perché è finalizzato alla procreazione, l’amore procreativo è avvertito come un peccato, una vergogna. Questo senso deriva dal fatto che l'amore perpetua la vita e quindi il dolore.
Schopenhauer critica anche la menzogna che l’uomo ha usato per nascondere la cruda realtà: male, dolore e irrazionalità. Il suo obiettivo è di smascherare queste menzogne. Questa critica si rivolge a tutte le forme di ottimismo cosmico elaborate per rassicurarsi: Leibiniz (organismo perfetto, Dio che volge verso il bene). La critica non è però solo verso chi crede in un Dio trascendente, ma anche verso chi, come Hegel, crede in una ragione immanente alla realtà e che guida la storia dell’uomo. Inoltre di fronte a un tale dolore della realtà, le religioni tradizionali saranno destinate a decadere.
Anche nella NATURA esterna vige la “legge della giungla”, l’esistenza dell’uno è la morte dell’altro, è una lotta crudele che ancora una volta è causa di dolore. La sua critica all’ottimismo si rivolge anche ai rapporti umani dove vige la sopraffazione reciproca e il conflitto. Ad es., le disgrazie altrui fanno sorgere in noi una soddisfazione e ogni vantaggio del prossimo ci irrita e infastidisce, se ci si lega con gli altri è solo per bisogno.
Schopenhauer rifiuta anche l’ottimismo storico, contro la fiducia nel progresso illimitato dell’uomo perché al di là dell’apparenza vedremo che il destino dell’uomo presenta sempre gli stessi tratti: nascita, sofferenza e morte. In definitiva la STORIA è un ripetersi di questi drammi, non c’è un diverso, un progresso, può cambiare solo l’apparenza ma nel fondo rimane tutto uguale.
La vita è dolore, come già si vide nei saggi dell’oriente, Platone, la tradizione biblica cristiana: la vita, proprio per il suo dolore, s’impara a non volerla e allora una soluzione potrebbe essere il suicidio, ma secondo Schopenhauer questa non è la soluzione migliore, perché quest’atto rappresenta l’affermazione della volontà di vivere, il suicida vuole la vita, ma manifesta la sua insoddisfazione nei confronti del presente che vive. Egli così non nega la sua volontà ma la vita stessa, non elimina la causa del dolore.
Inoltre il suicidio elimina solo l’individuo, sopprime una manifestazione fenomenica della volontà di vivere, che continua a battere nello stesso modo in molti altri uomini.
• RIMEDI AL DOLORE
Se la volontà di vivere è causa di dolore, l’unico modo per liberarsi da esso è quello di far tacere questa voce, ma ciò è molto difficile perché la volontà è l’essenza dell’uomo e quindi difficilmente arriverà a negare se stessa.
Schopenhauer ritiene che vi siano rimedi al dolore, di fatto ci sono uomini che sono riusciti a far tacere tale volontà (santi, mistici, asceti), ma non affronta il problema del come.
Le vie per liberarsi dal dolore sono tre:
1. ARTE
2. MORALE
3. ASCESI
1. Nell’arte la volontà di vivere tace poiché essa coglie e riproduce nell’opera, non il fenomeno particolare, ma l’Idea, l’essenza generale. In un romanzo d’amore, ad es., non si descrive l’amore particolare di un individuo, ma l’amore nella sua universalità, nelle sue caratteristiche essenziali che sono presenti in tutti gli amori di tutti gli uomini. Essendo quindi descritte situazioni universali, noi possiamo prendere coscienza di noi stessi.
L’artista che coglie e riproduce le Idee, e anche il fruitore, sono trasportati in un altro mondo, non in quello del particolare ma in quello delle Idee; entrambi abbandonano l’atteggiamento interessato e utilitaristico seguito nell’ambito fenomenico.
Di fronte all’opera d’arte si assume quindi un atteggiamento disinteressato e di contemplazione; noi non vogliamo più, ma ci limitiamo a contemplare al fine di trarre piacere estetico, è proprio in quel momento che la volontà di vivere tace momentaneamente.
2. La volontà di vivere è egoistica poiché porta l’individuo a lottare per la sua esistenza e a sopraffare gli altri dal momento che i mezzi per vivere non bastano per tutti. Essa provoca la lotta tra tutti gli esseri che è causa di dolore nel mondo. Far tacere questa volontà di vivere significherà superare l’egoismo attraverso l’impegno etico e morale.
Questa morale però non si basa sulla ragione come in Kant, ma sul SENTIMENTO DELLA PIETÀ che ci fa superare il nostro egoismo, l’individualismo e la chiusura in noi stessi. In forza di quel sentimento noi arriviamo a sentire come nostre le sofferenze altrui.
Il sentimento di pietà consiste nel saper compatire, condividere le sofferenze del prossimo sentendole come nostre. Esso ci porta ad immedesimarci, ad identificarci con il prossimo e ci fa capire che l’io e l’altro sono una medesima realtà al di là della distinzione fenomenica. Poiché proviamo un medesimo dolore siccome in noi batte una medesima volontà di vivere.
Quella distinzione però è solo apparente perciò nessuno provocherà dolore all’altro: “Non fare all’altro quello che non vorresti sia fatto a te”.
Il malvagio che provoca dolore all’altro, pensa a sé come separato dall’altro e pensa che il dolore dell’altro riguardi solo l’altro. Tuttavia per Schopenhauer nel malvagio alberga, però, un rimorso temporaneo e un’angoscia duratura: nel profondo egli non è un essere felice ma prova dolore.
I malvagi sono nel dolore e sono un chiaro segno del fatto che tutti sono la medesima volontà e dolore. Il dolore del tormentato e del tormentatore sono uguali.
La giustizia è il non fare il male agli altri, mentre la carità è il fare il bene all’altro. Il grado più alto è la carità appunto che secondo Schopenhauer sarebbe nell’amore cristiano che, prescindendo dall’eros, possiede questa dimensione.
3. L’ascesi è l’esperienza per la quale l’individuo cessa di volere estirpando da sé il proprio desiderio di esistere e volere, negando tutto ciò che la volontà vuole.
Andare contro alla volontà vuol dire andare contro a ciò che essa vuole, si nega se stessa con lo SPIACEVOLE (ascetismo).
La volontà di vivere è l’impulso alla vita, alla procreazione e, quindi, andare contro a tale volontà vorrà dire castità perfetta. L’ascesi è questa castità perfetta e la rinuncia ad ogni forma di piacere, umiltà, digiuno, povertà e sacrificio.
Negare la volontà di vivere vuol dire inoltre pervenire al nulla che per Schopenhauer può essere assimilato al Nirvana del Buddismo: nulla come negazione del mondo, della sua consistenza, del suo significato e volere.
È proprio la volontà di vivere che dà consistenza e valore al mondo: le case hanno consistenza nella misura in cui sono da noi ricercate, sono mete da raggiungere. Quando cessa la volontà di vivere, il mondo perde la sua consistenza e comincia a svanire.
Il santo è chi è riuscito a liberarsi dalla volontà di vivere. Tutte le cose risultano a lui indifferenti e, quindi, non meritano la sua volontà. Il nulla è invece una condizione di pace, quando non si tende da nessuna parte e si resta in equilibrio.

• INFLUENZE
1. In “Tristano e Isotta” di Wagner c’è una brama d’annientamento totale.
2. Molte teorie di Nietzche si rifanno alla concezione del mondo di Schopenhauer come realtà cieca e senza Dio.
3. Thomas Mann scopre con grande interesse Schopenhauer.
4. In Freud c’è il tema della volontà come forza impulsiva che si agita nell’uomo di là della coscienza.
5. In Thomas Hardy vi è una visione anti – ottimistica nei confronti della natura (la solidarietà esiste solo nella città degli uomini, non nella natura).
6. Francesco De Sanctis scrisse “Schopenhauer e Leopardi”, un’opera in cui individuò le differenze tra i due tipi di pessimismo. Quello di Schopenhauer è un pessimismo retorico e declamatorio in cui c’è una rottura tra la teoria e la prassi; questa scissione dà al suo pessimismo un carattere di non sincerità, perché si dice una cosa e se ne fa un’altra. Quello di Leopardi è invece un pessimismo drammaticamente sincero perché egli innalza a significato universale la sua personale esperienza dolorosa.
Inoltre Schopenhauer dà un messaggio irrazionalistico, egli arriva a conclusioni mistiche, mentre Leopardi si rifà a correnti illuministiche e materialistiche che fanno sì che egli rifiuti ogni consolazione religiosa ed evasione trascendente.
La fuga dalla vita, in Schopenhauer, è un’esperienza individuale, l’uomo si chiude in se stesso e cerca di negare la volontà che batte in lui; Leopardi al contrario chiama gli uomini ad unirsi per fronteggiare una natura avversa (“La Ginestra”).
Un’altra differenza è che il pessimismo di Schopenhauer è conservatore, lascia le cose come stanno poiché l’uomo non deve più volere e quindi fare; quello di Leopardi è invece più rivoluzionario: non dobbiamo aggiungere al dolore altro dolore.
Infine a proposito del nulla, Schopenhauer lo identifica in quel momento difficile da definire, di pace e di calma, mentre per Leopardi il nulla è lo zero assoluto.
7. Svevo introduce la figura dell’inetto che vuole sottrarsi alle lotte per la vita, egli rinuncia alla battaglia della vita.
• In Schopenhauer c’è un atteggiamento critico che si esprime nella volontà di smascherare quelle favole della vita che hanno celato la durezza del vivere per consolare l’uomo. Questa posizione demistificante è considerata come un punto di partenza per quelle forme d’umanesimo, che dopo aver conosciuto Schopenhauer, si sentono impegnate, al di là e oltre lo stesso filosofo, a combattere concretamente il male nel mondo.

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