Eraclito, Pitagora e gli eleatici

Materie:Appunti
Categoria:Filosofia

Voto:

2.5 (2)
Download:512
Data:08.02.2001
Numero di pagine:14
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
eraclito-pitagora-eleatici_1.zip (Dimensione: 12.61 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_eraclito,-pitagora-e-gli-eleatici.doc     67 Kb


Testo

CAP. 3. E DISCORSO RAZIONALE ORDINE DIVINO: ERACLITO, PITAGORA E GLI ELEATICI

§ 1. Eraclito di Efeso: l'eterna armonia dei contrari.

Per Eraclito, aristocratico della Ionia, secolo VI-V, il sapere è accessibile solo a pochi illuminati (i "desti"), e la massa (i "dormienti") non può pervenirvi. Mentre i "fisici" ionici che lo hanno preceduto sembravano prima di tutto interessati a capire, a prevedere e a misurare il mondo che ci circonda (previsione di eclissi, rappresentazione cartografica della terra), egli pare piuttosto teso a decifrare il destino dell'uomo, a decifrare il senso della vita individuale e collettiva, e della legge divina che regola il cosmo e che è riflessa, in piccolo, nelle leggi della polis.
Tuttavia egli ritiene che le risposte a questi capitali problemi non possano essere espresse in un linguaggio semplice, chiaro, accessibile a tutti. Egli sentenzia: "il Signore che ha l'oracolo a Delfi non dice e non nasconde, ma accenna" e anche :
l'intima natura delle cose ama nascondersi.

Dice un altro frammento di Eraclito: Tutto scorre.
Tuttavia per lui, il continuo nascere ed il perire delle cose non è caotico, ma obbedisce ad una legge (nomos) che è anche giustizia (dike): anche in questo autore, come in Anassimandro, l'ordine cosmico e la giustizia divina paiono identificarsi.
Questa legge è un principio divino, una potenza cosmica, un eterno fuoco, un’attiva ragione (logos), capace di distruggere e di riplasmare le cose. Dietro il continuo scorrere delle cose permane dunque questo eterno principio unitario.
Esso opera attraverso la lotta dei contrari: vita-morte, piacere-dolore, caldo-freddo, secco-umido, che non possono fare a meno l'uno dell'altro, ma che non possono esistere senza combattersi.
La lotta è la legge eterna del mondo naturale e delle comunità umane. Paradossalmente la lotta degli opposti - che non possono fare a meno l'uno dell'altro - coincide con la loro armonia: come nella lira e nell'arco le corde stanno in tensione tra due estremi e ciò rende possibile rispettivamente la musica ed il tiro, così, in un tutto, i contrari collaborano all'ordine e alla bellezza globali.
Ma l'armonia dei contrari è difficile a cogliersi: solo il saggio capisce davvero la legge che regola l'ordine del mondo nel suo complesso e vi si sa adeguare, mentre gli altri uomini non sanno andare oltre i casi particolari. Eraclito per questo si oppone al “governo dei più” - alla democrazia - e ritiene che solo ai saggi sia dovuta obbedienza.

§. 2. Il contributo di Eraclito alla filosofia della natura: il tema del "divenire"

Abbiamo considerato finora Eraclito come un saggio che dice il senso della vita e del cosmo. Vediamo ora come nel suo pensiero siano presenti anche spunti interessanti per lo sviluppo successivo della scienza.
Egli del resto era considerato un “fisico” e, quando parla della divinità che regola il cosmo, la descrive come un fuoco, come una forza fisica che fonde e risplasma le cose. Inoltre molte sue idee testimoniano un’attenta considerazione dei fenomeni naturali, specialmente di quelli del mondo della vita.
Per Eraclito, si è detto, tutto scorre, nulla permane. Non è possibile toccare due volte lo stesso oggetto perché nel frattempo esso è già cambiato e non è più lo stesso di prima. Ma se tutte le cose si trasformassero disordinatamente, noi non potremmo dire nulla di esse: al massimo, potremmo accennare ad esse con il dito.
Viceversa Eraclito scorge nel divenire qualcosa di stabile, di sempre uguale, la legge. Una legge eterna e razionale governa il processo di trasformazione di tutte le cose. E' la legge degli opposti: nel processo del divenire, ogni cosa diventa il suo opposto.
E' forse il grande ciclo delle stagioni a suggerirgli l'idea che ogni cosa diventi il suo opposto per poi tornare al punto di partenza; ma, oltre al ciclo stagionale, è soprattutto il ciclo della vita che attrae la sua attenzione. Se il giovane diventa vecchio, lascia dietro di sé un figlio giovane. Il processo della nascita e della morte è una costante trasformazione reciproca dei contrari l'uno nell'altro. Allo stesso modo il fuoco diventa acqua e terra, la terra acqua e fuoco. E ancora: il giorno diventa notte e la notte diventa giorno. Giorno e notte sono aspetti dello stesso fenomeno, così come la giovinezza e la vecchiaia, la vita e la morte.
Eraclito intravede nel mondo, dominato dalla tensione degli opposti, un governo superiore che è quello del Logos, della ragione universale, della legge cosmica, un governo che solo la nostra ragione è in grado di scorgere, perché i nostri sensi restano ancorati agli aspetti particolari, frammentari, delle cose. La legge è evidentemente qualcosa di divino, ma non una divinità personale *trascendente che agisce dal di fuori del mondo, bensì la necessità razionale che opera all'interno di esso.
La legge è in ultima analisi la legge del ciclo, che riconduce di continuo le cose al punto di partenza, per cui, visto che tutto cambia sempre allo stesso modo, in ultima analisi tutto resta uguale. Il ciclo diurno, il ciclo annuale, il ciclo di vita e morte gli forniscono il modello per la concezione del "grande anno" (come fu poi chiamato): l'intero universo nasce e muore ciclicamente, per riprodurre sempre lo stesso ordine tra gli esseri viventi.

Per concludere, possiamo rilevare che Eraclito ha dato un contributo importante al sorgere dell'idea di "legge naturale", anche se tale idea in lui conserva chiare tracce della sua origine antropomorfica: un concetto proprio dell'ordine sociale, la legge, è applicato all'ordine dell'universo, per cui le leggi naturali sono al tempo stesso giustizia (dike) e necessità oggettiva, manifestazione della perfezione divina e forza in senso fisico.

§.3. Pitagora e l'origine della sua scuola. Il numero come principio divino dell'ordine; il dualismo anima-corpo

Pitagora (nato a Samo nel 570 circa, morto a Metaponto nel 490 circa) fondò a Crotone una setta filosofico - religiosa alla quale era riservato il suo insegnamento. Il principio che, per lui, regola il cosmo non è un elemento tangibile ed identificabile sensibilmente, come l’acqua o l’aria, ma è il numero, una forza divina che opera dentro le cose e dà loro perfezione, misura, forma, finitezza. C'è pertanto una tensione continua tra il principio che tende all'infinito, alla generazione di una molteplicità indefinita di cose (l'"illimite", simbolizzato dal numero pari, in quanto divisibile) ed il principio che tende appunto alla finitezza, all'ordine, alla simmetria (il "limite", simboleggiato dal dispari).
La concezione pitagorica è nettamente dualistica. Essa pone cioè l'accento sulla dualità del cosmo: il cielo, divino, è perfetto, immutabile, mosso da un movimento assolutamente regolare, matematicamente perfetto e prevedibile; esso è superiore alla terra, in cui invece tutto muta e perisce, secondo un ordine e una regolarità molto minore. Egualmente pone l'accento sulla dualità dell'uomo, nel quale anima e corpo rappresentano sostanze diverse e contrapposte. Pitagora aderiva infatti alla dottrina orfica della trasmigrazione delle anime (o metempsicosi). L'ordine cosmico che regola il destino delle anime, costringendole a successive incarnazioni per purificarsi da colpe commesse, è per lui anche ordine divino di giustizia, e la meditazione filosofica è concepita proprio come purificazione.
Secondo quanto ci è stato tramandato, fu Pitagora ad introdurre il termine di "filosofia" nel senso di "amore per la sapienza", considerata, come si è detto, qualcosa di divino. Si noti dunque che il termine non nasce con il significato di "sapere critico", che acquisterà più tardi.

§.4. La dottrina del numero e la fisica geometrica della scuola pitagorica

L’interesse centrale della scuola pitagorica era per i numeri interi: ogni unità era immaginata come un punto di estensione piccolissima, rappresentabile con un ciottolo. Si disponevano i ciottoli in modo da formare delle figure geometriche, e ogni numero corrispondeva a una figura geometrica formata di un numero di punti (estesi) pari alle unità che lo compongono: una sorta di pallottoliere.
Per esempio, ecco i primi numeri triangolari:
.
. . .
. . . . . .
3 . . 6 . . . 10 . . . .

I Pitagorici intendevano evidentemente per unità un corpuscolo, un ciottolo piccolissimo, un punto avente una qualche dimensione, per quanto piccola, mentre i numeri successivi - e le corrispondenti figure geometriche - per loro erano aggregati di tali corpuscoli.
Il punto era dunque concepito come qualche cosa di materiale. I Pitagorici chiamavano monadi questi punti di dimensioni minime ma non nulle. Dire che i corpi sono fatti di numeri significa perciò dire che sono fatti di particelle eguali, di corpuscoli o, come si dirà più tardi, di atomi.

Sono inoltre caratteristici della scuola pitagorica:
- la teoria del ciclo cosmico o del Grande Anno: periodicamente il Fuoco cosmico, la forza intelligente che governa il mondo, lo arde e lo riplasma da capo dando inizio ad un nuovo ciclo della storia cosmica;
- lo studio approfondito dell'astronomia (i pitagorici arrivarono ad intuire quasi esattamente l'ordine dei pianeti nel sistema solare);
- la teologia astrale: gli astri sono sede delle divinità -numero, e per questo l'ordine astrale possiede una regolarità e una perfezione matematicamente e geometricamente superiore a quella dell'ordine terreno. Si noti che il movimento in cerchio (in greco cyclos), effettuato dagli astri nelle loro orbite, si mantiene sempre equidistante dal centro ed è perfettamente concluso e definito: gli astri ruotano indefinitamente, ma in orbite perfettamente definite, rimanendo, in sostanza, sempre allo stesso posto e realizzando così la sintesi tra limite ed illimite.

§.5. . Le grandezze incommensurabili e i numeri irrazionali: la crisi del pitagorismo

L'identificazione tra grandezze fisiche e grandezze geometriche spiega perché i Pitagorici tentarono di applicare la misura alle entità fisiche e cercarono di coglierne gli aspetti quantitativi, superando la pura e semplice descrizione qualitativa fondata sulle proprietà sensibili immediate: per loro la fisica e l’astronomia non sono qualcosa di essenzialmente diverso dalla geometria.
Ha una grande portata nella storia del pensiero il fatto che i Pitagorici abbiano effettivamente compiuto delle misurazioni. Essi misurarono le corde degli strumenti musicali e i suoni da queste emessi, riscontrandovi delle perfette regolarità numeriche.
Una grave crisi era destinata ad aprirsi nel pitagorismo e a mettere in forse la dottrina delle monadi. Tale crisi fu aperta da una grande scoperta verificatasi, pare, nell'ambito stesso della scuola pitagorica: la scoperta dell'esistenza di grandezze incommensurabili. Essa mandava all'aria la dottrina secondo cui le grandezze sarebbero costituite da un numero finito di monadi. L'incommensurabilità del lato e della diagonale del quadrato, cioè l'impossibilità di ridurli entrambi alla stessa unità di misura (il punto materiale esteso o monade) e di esprimerli con numeri interi o comunque con numeri razionali apriva una crisi culturale di grande portata nell'ambito del pitagorismo.

§. 6. Parmenide e il Discorso razionale sull'Essere

Parmenide (di Elea, secolo VI-V, originariamente legato al pitagorismo) nel suo poema (di cui ci sono pervenuti un centinaio di versi, ci presenta la sua filosofia in modo paradossale: il vero sapere è basato sul discorso razionale e sulla persuasione che deriva da esso, ma è al tempo stesso un dono che la divinità avrebbe fatto al filosofo in persona, ed egli lo rivela ed al tempo stesso lo dimostra razionalmente agli altri. Egli infatti dichiara che è stata la stessa dea Dike (la Giustizia) che gli ha mostrato la "via della Verità" o "dell'Essere" e poi illustra e spiega questa verità in modo rigorosamente logico.

Questa dunque è la “via della verità”:
l'Essere è e non può non essere, il Non Essere non è ed è necessario che non sia.
In sostanza, la realtà vera, l'"Essere" in senso proprio, non è come appare nell'opinione comune del volgo, e cioè mutevole, caratterizzato dal continuo divenire, dal movimento e dalla generazione di una cosa da un'altra, sottoposto all'inganno dei sensi, divisibile all'infinito, molteplice all'infinito. In tal caso esso sarebbe mescolato al Non-Essere.
In effetti, se si ammette che realmente qualcosa si genera e si corrompe, che qualcosa diviene altro da quel che è e non è più ciò che era prima, che qualcosa si sposta e quindi non è più dove era prima, eccetera, si ammette anche la mescolanza tra l’Essere e il Non-essere. Ma essa è inammissibile per il corretto pensiero. Perciò la realtà vera è solo così come ce la fa conoscere il discorso razionale (logos):
-unica ed unitaria, non divisa in parti
-eterna e indistruttibile,
-immobile ed immutabile, sempre identica a se stessa
-perfettamente definita e limitata, come una sfera (si noti anche qui che cerchio e sfera tornano insistentemente nella filosofia greca come simbolo di perfezione)
-inafferrabile con i sensi, ma perfettamente pensabile
-dominata dalla necessità che la limita e la costringe ad essere quel che è.
La necessità si presenta come il senso generale dell’Essere, che è vincolato (“dalla Parca”, secondo l’espressione del poema di Parmenide) ad essere quel che è e non altrimenti. Essere, Pensiero e Discorso vero sono assolutamente necessari: come l’Essere non può che essere se stesso così com’è e non può essere nient’altro né altrimenti, così il Pensiero non può pensare e il Discorso non può dire altro che l’Essere. Sono solo parole (nomi da noi inventati, ma in definitiva senza senso) le espressioni che in qualche modo negano l’Essere, come il divenire, il morire, il non essere, il muoversi e il cambiare di aspetto.
La filosofia di Parmenide ha, come si vede, un carattere fortemente astratto ed estraneo alle credenze del senso comune, e del resto si contrappone apertamente alle abitudini che derivano dall’esperienza sensibile “dei mortali che niente sanno”.

§.7. Interpretazioni "anticipatrici" e "nostalgiche" di Parmenide. Il suo ruolo-chiave nella filosofia occidentale

Parmenide è da molti considerato l'anticipatore, o addirittura il fondatore, dell'*ontologia o *metafisica (scienza dell’essere in quanto essere). E' partendo da lui che i grandi metafisici Platone ed Aristotele sono arrivati all'idea che debba esistere un Essere Necessario - che non può non essere - come fondamento degli esseri (o "enti") mutevoli e accidentali. L'intera metafisica occidentale e la stessa teologia, che tratta di Dio come Essere Necessario e che nel medio evo sarà la branca più importante della metafisica, sarebbero in questo modo anticipate da Parmenide.
Un altro approccio fa partire da Parmenide la storia della logica. Nell'opposizione eleatica di Essere e di Non Essere si intravede il principio logico di non contraddizione, per cui qualcosa, per necessità logica, non può insieme essere e non essere in un certo modo. A non può insieme essere B e non essere B. Certo, se si considera Parmenide solo dal punto di vista logico, si deve rilevare che il suo linguaggio risulta ancora oscuro ed ambiguo, in quanto egli non è in grado di distinguere tra essere come predicazione dell'esistenza (l'Essere è = l'Essere esiste) e essere come copula (l'Essere è così e così).
Certi storici moderni della filosofia e della scienza, hanno interpretato Parmenide all’interno di una problematica fisico - geometrica. Alcuni hanno inteso il suo Essere come materia eterna e indistruttibile, altri come un "continuum" spaziale, tutto pieno e privo di interstizi vuoti, insomma come lo spazio omogeneo e perfettamente intelligibile della geometria e della fisica.
Viceversa, il grande filosofo tedesco Martin Heidegger, sostiene che, mentre l’Essere per la metafisica classica e per tutte le successive scienze specialistiche è qualcosa di astratto, povero e generico (di qualsiasi cosa si può dire che, in un qualche senso, è), l'Essere di Parmenide è ricchissimo di significato, è pieno, concreto, realissimo. Esso ha un senso più autentico, profondo e fondamentale dell'essere inteso solo come copula (p.es.: il muro è bianco) o solo come asserzione esistenziale (p. es.: qui c'è un muro, questo muro esiste). L'Essere non è una semplice rappresentazione della mente di un soggetto pensante (come in genere nella filosofia moderna), ma è la realtà stessa che si manifesta, che si rivela all'uomo. L'uomo, nel pensiero arcaico, semplicemente si apre a tale rivelazione, sta in ascolto della parola dell'Essere, mentre l'uomo moderno è incapace di un tale atteggiamento, poiché il suo interesse prevalente è dominare e manipolare gli enti, le cose singole.
Per Heidegger l'essere stesso dell'uomo greco dipende dal suo "rimanere aperto", disponibile ad accogliere l'Essere in quanto tale, che è destino e dono, qualcosa insomma che noi riceviamo senza poterlo condizionare e manipolare. Con l'appellativo di Moira (Parca), Parmenide indicherebbe non la necessità logica di non contraddirsi, ma la qualità stessa dell'Essere, in quanto è destino, dono, struttura reale che include e determina anche l'uomo e il pensiero stesso.
Secondo Heidegger le distinzioni successive tra ontologia, logica, fisica, ecc., sono legate ad una fase storica in cui l'uomo occidentale si chiude al senso profondo dell’Essere e organizza il suo pensiero per conoscere analiticamente gli enti particolari del suo mondo, per manipolarli e farsene (illusoriamente) padrone. Invece l'uomo greco arcaico, aperto al senso dell’Essere, non concepisce queste distinzioni e aderisce alla realtà e al destino con straordinaria immediatezza ed unità.

§ 8. Parmenide: le opinioni verosimili
Nonostante il suo rifiuto del mondo del divenire e dell’apparenza sensibile, Parmenide aveva esposto anche la "via dell'opinione" o del "Non Essere", descrivendo l'origine degli astri e di tutte le cose materiali a partire dalla congiunzione della Luce (o Fuoco) con la Tenebra.
Questa seconda parte del poema è conosciuta solo in modo estremamente frammentario, ed è difficile capirne il collegamento con la prima, in cui è detto chiaramente che il mondo dei sensi è mondo dell’opinione e dell’illusione. Tuttavia l’idea che la coppia luce-tenebra domini il cosmo merita di essere ricordata perché ricorre nella cultura filosofica e religiosa occidentale - e anche orientale.

§.9. Zenone e la dialettica: assurdità del processo all'infinito.

Zenone di Elea (secolo V), discepolo di Parmenide, non ha una dottrina originale sull'Essere, ma è considerato l'iniziatore della dialetttica, o arte dell'argomentazione. In particolare egli avrebbe inventato ciò che noi chiamiamo dimostrazione per assurdo: intendeva dimostrare che, sviluppando fino alle estreme conseguenze le dottrine degli avversari di Parmenide, secondo i quali la realtà è molteplice, divisibile, mobile, ecc., si arriva a risultati assurdi, per cui deve essere vera l'opposta dottrina del suo maestro.
Il più noto dei "paradossi" di Zenone è quello per cui Achille “piè veloce” non potrà mai raggiungere una tartaruga: Infatti, mentre Achille raggiunge il punto A in cui si trova inizialmente la tartaruga, questa compie un nuovo tratto A-B, e quando questi giungerà a B, essa avrà compiuto un nuovo tratto B-C, per quanto molto corto, e così all'infinito. Perciò Achille, dovendo percorrere infiniti segmenti, non la raggiungerà mai.
E' proprio davanti ad un tale processo all'infinito e davanti alle difficoltà che derivano dai numeri irrazionali che il pensiero greco si trova disorientato: donde a quell'epoca la difficoltà di smontare i paradossi di Zenone.

§. 10. Melisso e l'Essere infinito

Seguace di Parmenide e contemporaneo di Zenone, Melisso di Samo sostenne che l'Essere è la totalità, e che è infinito e incorporeo. Insieme ad Anassimandro è uno dei pochi Greci che riconosca l'Apeiron (infinito o indefinito) come una realtà positiva: la concezione più diffusa, fino a Platone, ad Aristotele e agli stoici, è che la perfezione è limite, determinatezza e misura, e che l'infinito è una forza cosmica positiva solo se sottomesso al limite (Peras), che dà forma e misura alla sua incontenibile fecondità.
Sembra poi che Melisso si approssimi già alla nozione di incorporeità e di spirito, poiché egli afferma che l'Essere, infinito, eterno, ed estraneo alle nostre sensazioni, non ha corpo.
Ricapitolazione conclusiva del capitolo
In questo capitolo abbiamo visto nascere
1) l'idea paradossale di Eraclito che l'unica cosa permanente, l’unica cosa che sempre è, è proprio il divenire, e che l'armonia del cosmo risulta dalla lotta dei contrari;
2) l'idea di un ordine *trascendente, un ordine che si trovi cioè al di sopra e al di là del mondo in cui viviamo (per usare la terminologia filosofica odierna, il mondo *immanente). Questa idea, prefigurata nel pitagorismo, in Parmenide viene spinta fino al punto di affermare che il nostro mondo non solo non è un vero ordine, ma non è neppure un vero Essere; esso è solo apparenza, Non Essere;
3) l'idea dell'Essere, la più astratta della filosofia, dalla quale nascerà in seguito la "Filosofia Prima" (la filosofia per eccellenza) che si occupa essenzialmente dell'Essere (e che è chiamata oggi *Metafisica o *Ontologia);
4) l'esigenza di un linguaggio rigoroso, che non conduca a conseguenze contraddittorie (Zenone pone ai filosofi successivi questo problema: come si può esprimere la molteplicità infinita delle cose sensibili senza cadere in contraddizione? Come si può dire che continua ad essere ciò che continuamente si muta in altro e si sposta altrove e che quindi nell'istante del movimento dovrebbe essere - contemporaneamente - in luoghi diversi? Come si può dire che continua ad essere ciò che si divide in parti, ecc.?).
Tutte queste idee contribuiranno in vari modi al sorgere della *Metafisica o *Ontologia, il cui ambito sarà definito nel secolo IV da Aristotele (che gli darà appunto il nome di "Filosofia Prima"). Ma già nel secolo V esse stimoleranno un'indagine sui fenomeni naturali notevolmente più rigorosa di quella della vecchia fisica ionica, l’indagine dei pluralisti (→cap. 4). Per essi nulla deriva dal nulla, nulla ritorna nel nulla, distruggendosi definitivamente, ma tutto si trasforma, scomponendosi e aggregandosi in nuove combinazioni. L’Essere (la materia), che si scompone e ricompone, è eterno, indistruttibile e, in definitiva, sempre uguale a se stesso (come vogliono gli eleatici), e insieme è però mutevole, molteplice e in movimento (come pensano gli ionici, gli eraclitei e il senso comune).
1

Esempio